..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

Translate

venerdì 31 marzo 2017

Milano del 31 marzo 1915

Marzo 1915. Italia divisa anche tra chi voleva entrare in guerra (interventisti) e chi non ne voleva proprio sapere (neutralisti). Il 31 di quel mese gli antimilitaristi manifestarono a Milano contro l'intervento bellico italiano. Lo Stato non rimase a guardare e ordinò una feroce repressione. Lo Stato, violento in nuce, essendo un organismo militare, onora la guerra e combatte chi la rinnega, salvo farsi ipocrita a parole -dette o scritte- per illudere le masse. La repressione di Milano del 31 marzo 1915 coinvolse 235 persone, che furono tutte arrestate, tra loro il direttore dell'Avanti, Giacinto Menotti Serrati. Lo Stato, non ancora sazio della sua violenza, libera il suo folle cinismo e in quella stessa giornata dà libero mandato a Benito Mussolini per organizzare una manifestazione a favore della guerra. La sbirraglia esulta, la borghesia esulta, la massa statalizzata e intrisa di nazionalismo esulta. Gli anarchici si preparano ad una resistenza che dura ancora oggi, e che non finirà fintanto che lo Stato, generatore di violenza, non sarà abbattuto. Allora, e solo allora, sarà la pasqua dell'umanità.

domenica 26 marzo 2017

Clemente Duval espropriatore

Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione e l'abbandono, ormai definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel primo contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione individuale", come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta solitaria. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti, ogni pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò che non si potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perciò, rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus, una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del regime, la figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. La notte del 5 ottobre 1886, Duval si introdusse nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli poté agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare sul luogo. Andandosene, involontariamente appiccò il fuoco alla casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza all'avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval.

mercoledì 22 marzo 2017

Nel regno del consumo

Nel regno del consumo, il cittadino è re. Una regalità democratica: uguaglianza davanti al consumo, fratellanza nel consumo, libertà secondo il consumo. La dittatura del consumabile ha completato la liquidazione delle barriere di sangue, di lignaggio o di razza; converrebbe rallegrarsene senza riserve se con la logica delle cose essa non avesse bandito ogni differenziazione qualitativa, per non tollerare fra i valori e le persone che delle differenze di quantità.
Tra chi possiede molto e chi possiede poco, ma sempre di più, la distanza non è cambiata, ma i gradi intermedi si sono moltiplicati, in qualche modo avvicinando gli estremi, dirigenti e diretti, a uno stesso centro di mediocrità. Essere ricchi si riduce oggi a possedere un gran numero di oggetti poveri.
I beni di consumo tendono a non avere più valore d’uso. La loro natura è di essere consumabili ad ogni prezzo. E come spiegava molto sinceramente il generale Dwight Eisenhower, l’economia attuale non può salvarsi che trasformando l’uomo in consumatore, identificandolo alla più grande quantità possibile di valori consumabili, vale a dire di non-valori o di valori vuoti fittizi, astratti. Dopo essere stato il capitale più prezioso, secondo la felice espressione di Stalin, l’uomo deve divenire il bene di consumo più apprezzato.
L’immagine, lo stereotipo della vedette, del povero, del comunista, dell’omicida per amore, dell’onesto cittadino, del ribelle, del borghese, si appresta a sostituire all’uomo un sistema di categorie meccano-graficamente ordinate secondo la logica irrefutabile della robotizzazione. Già la nozione di teen-ager tende a confondere l’acquirente al prodotto acquistato, a ridurre la sua varietà a una gamma variata ma limitata di oggetti da vendere. Non si ha più l’età del cuore o della pelle, ma l’età di ciò che si acquista. Il tempo di produzione che, si diceva, è denaro, si avvia a diventare, misurandosi al ritmo di successione dei prodotti acquistati, usurati, buttati, un tempo di consumo e di consunzione, un tempo di invecchiamento precoce, che è l’eterna giovinezza degli alberi e delle pietre.
Lavorare per sopravvivere, sopravvivere consumando e per consumare, il ciclo infernale si è chiuso. Sopravvivere è nel regno dell’economismo, insieme necessario e sufficiente. È la verità prima che fonda l’era borghese. Ed è vero che una tappa storica fondata su una verità così antiumana non può che costituire una tappa di transizione, un passaggio dalla vita oscuramente vissuta dei signori feudali alla vita razionalmente e passionalmente costruita dei signori senza schiavi. Restano non molti anni per impedire che l’era transitoria degli schiavi senza padroni duri due secoli.

domenica 19 marzo 2017

Parigi 1871: la Comune libertaria

[…] La Comune aveva abolito per prima cosa gli alti onorari, molti operai si seppero improvvisare impiegati e ricoprirono il nuovo incarico con grande zelo e competenza. Un cesellatore (Theisz) divenne il direttore delle poste, trovò, un servizio quasi inesistente, disorganizzato, con i valori rubati. Riunì tutti i dipendenti rimasti li arringò e li convinse a passare alla Comune: in breve la levata delle lettere e la consegna fu ristabilita in tutta la città, si arrivò anche a far partire la corrispondenza per la provincia a mezzo di agenti abili e coraggiosi. Lo stesso avvenne alla zecca dove un operaio aggiustatore in bronzo (Camelinat) venne incaricato di mandare avanti la baracca: si fecero nuove coniazioni con l'argento dell'argenteria che si requisì. L'assistenza pubblica venne curata da Treilhard che redasse un minuzioso rapporto sui risultati ottenuti e sulle modificazioni dell'assistenza pubblica come pure sull'allargamento della stessa. Il delegato alle finanze (Jourde) riuscì a presentare un bilancio talmente preciso, oltre che attivo, da costituire un vero gioiello d'amministrazione e un'eccezione in materia di bilanci pubblici: nella relazione al bilancio lo stato delle finanze della Comune era giudicato florido; in questo lavoro Jourde era stato assistito da Varlin, ambedue operai internazionalisti.
Se si pensa che tutto questo, ed altro specie nel campo dell'istruzione, delle biblioteche, della lotta contro la chiesa, della propaganda a mezzo dei giornali, fu compiuto in appena 72 giorni, ci si rende conto che la produttività raggiunta fu massima e che ognuno fece il proprio dovere. Le eccezioni furono immediatamente circoscritte ed eliminate dall'incarico.
É proprio questo il principio che deve reggere il fondamento della rivoluzione proletaria e della successiva organizzazione: la delega in base alla funzione, non più quindi in base al titolo o al casato, ma soltanto in base alla funzione; naturalmente con la premessa indispensabile della removibilità.
In questo vedrei il più alto insegnamento della Comune, al di là dei teorici di professione, al di là dei letterati e dei giornalisti, l'operaio seppe mettere a disposizione del «suo» apparato rivoluzionario la sua esperienza e la sua produttività. Questo fenomeno, in quella sede, non fu che un lampo appena, in altre sedi successive, come in Ucraina e in Spagna, l'esperimento poté durare più a lungo, non dovrebbe essere lontano il giorno in cui da esperimento si possa passare a fatto definitivo. La volontà nella massa operaia non manca, la sua capacità produttiva è sempre più ampia, la sua rottura con le ristrette cerchie degli sfruttatori capitalisti e sempre più decisa; resta solo da evitare che una nuova marea di oratori, di letterati, di sognatori in buona e male fede, riesca a montare all'assalto della «realtà» operaia, il resto non tarderà a venire.

Tratto da:
“Parigi 1871: la Comune libertaria”
Di Franco Coniglione



sabato 18 marzo 2017

Vive la Commune!

Parigi, sono le tre del mattino, alcuni reggimenti dell'esercito regolare e distaccamenti della polizia, al comando del generale Lacomte, si inerpicano silenziosi per i viottoli di Montmartre allo scopo di impadronirsi dei cannoni della Guardia Nazionale.
L'operazione fila liscia fino alle prime luci del mattino, ma verso le 7, mentre i soldati di Lacomte aspettano i traini per sgombrare i pesanti cannoni, ecco che le campane di Montmartre, di Belleville, del Faubourg du Temple, suonano a stormo per dare l'allarme.
Una marea di operai e di artigiani in blusa da lavoro, di donne, di ragazzini, si insinua tra le file dei reggimenti e le scompiglia; Lacomte ordina di far fuoco ma i soldati, dopo un attimo di esitazione, levano in alto i fucili e fraternizzano con i popolani. Si ode Lacomte gridare ai soldati: “Massa di vigliacchi! Rifiutate di battervi!”, poi gli stessi soldati, aizzati dalla folla, circondano il loro generale e lo portano a forza sino al cortile dell'edificio dove ha sede il Comitato Centrale della Guardia Nazionale, in rue des Rosies.

È il 18 marzo del 1871, nasce la Comune di Parigi.


martedì 14 marzo 2017

Ore di punta

Ore di punta. La tragedia si svela ogni giorno. Un esercito di schiavi tutti in fila, attenti a non fare tardi che il dio-produzione non aspetta, il capo non perdona, la sua idiozia si adora e si copia. Dogma della produzione che impila lingotti, gli aguzzini del sistema hanno la bava alla bocca. Vota. Vota. Vota. Fai come sai. Non sai quel che fai. Gloria al PIL. Tutti attenti, fottiti se sei stanco, veloci, veloci, stop al semaforo, via andare, il cane morto investito, non c'era tempo, via andare. Robotica della morte. Militarizzazione dell'esistenza. Capitalizzazione delle pseudovite. Hai bisogno di soldi? Ricatto sistemico: prima dammi la vita, poi anche la borsa. Ingranaggi autopoietici. O così o muori? O così o soffri? Me sei già morto! Soffri di ulcera e dai la colpa al figlio. Con che cosa ti curi? Paga, sennò là c'è la fossa. Ecco ciò che rincorri: il plasma in salotto, propaganda della perpetuazione. Cultura mortifica. Maledizione, l'assicurazione scaduta, ma tu sei scaduto nella culla! La tassa sulla tassa, fatture coi canini licantropi, azzeramento delle vere necessità vitali, si elaborano palliativi per ogni cosa, è la legge, “è la consegna”, e sei consegnato, non sei. Ti insegnano cosa dire, come giustificare, cosa fare, come pensare, come non pensare, come accusare, come sperare. Pedagogia per il bravo ragazzo in fila all'ora di punta, stasera si va a puttane, domenica a messa, norma di massa. Automassificazione. Godere di morte. Non fa per me.

domenica 12 marzo 2017

12 marzo 1977: a Roma centomila persone scendono in piazza

Il 12 marzo 1977 a Roma parte da piazza dell'Essedra per percorrere via Nazionale uno dei cortei che segnerà i caratteri di quell'anno. Un corteo di centomila persone, di centomila compagni solca la città.
Immediatamente il corteo si trova la strada sbarrata da un massiccio schieramento di polizia davanti a via Nazionale. Per evitare la dispersione della piazza che ancora si stava riempendo i compagni decidono di cambiare il percorso. Il corteo quindi devia in via Cavour passando per via dei Fiori Imperiali e poi Piazza Venezia.
Da parte di un numero cospicuo di compagni dunque avviene un attacco alla sede della DC in Piazza del Gesù. Qui il corteo si divide in due tronconi: uno prosegue verso piazza Argentina e l'altro rifluisce verso piazza Venezia per poi proseguire verso il Teatro di Marcello ed il Lungo Tevere che costeggia il Ghetto. I due tronconi si sono poi qui riunificati e hanno proseguito costeggiando la riva del fiume fino a Piazza del Popolo. Tutti i ponti sul Tevere erano bloccati dalla polizia in assetto da guerra ugualmente a tutti gli accessi nel centro città e nelle vicinanze dei ministeri e delle banche. La rivolta del proletariato, la rabbia di una generazione esclusa dal patto sociale non doveva arrivare con i propri echi alle orecchie dei padroni.
I compagni però si sono resi conto che tentare di forzare quegli sbarramenti avrebbe significato uno scontro a fuoco con Carabinieri e Polizia. Lo stesso valeva nel cercare di attraversare il Tevere per arrivare al carcere di Regina Coeli.
Il corteo di massa quindi è finito in Piazza del Popolo. Fino ad allora ogni avventurismo era stato evitato e le azioni di violenza armata erano state effettuate da nuclei del servizio d'ordine che si defilavano dal corteo, agivano e poi tornavano nel suo centro, in pieno concerto con la massa che attraversava quella mobilitazione. Il corteo fino ad allora era stato il centro logistico delle azioni che poi erano state demandate al servizio d'ordine. Ma tutti i compagni hanno avvertito da Piazza del Popolo in poi l'impossibilità di mantenere la compattezza del corteo e la sua protezione nei fianchi. L'indicazione è stata quella di defilarsi rapidamente per evitare rastrellamenti e da quel punto in poi l'attacco del movimento è stato demandato al servizio d'ordine, ai collettivi organizzati e ai gruppi di compagni formatesi spontanei.
A scontri finiti la polizia arresta a freddo centocinquanta compagni.
Pubblichiamo adesso il comunicato dei Comitati Autonomi Operai di Via dei Volsci sui fatti accaduti.

GIORNI CHE VALGONO ANNI
Non si può dare un giudizio sui fatti del 12 marzo a Roma, senza vedere la straordinaria capacità che il movimento ha avuto da Piazza Indipendenza in poi di superare in ogni scadenza quella precedente e di creare contemporaneamente presupposti per quella successiva. Sul nostro giornale "Rivolta di Classe" abbiamo scritto "giorni che valgono anni" e rispetto a questa verità notiamo due atteggiamenti principali. Da una parte ci sono gli idioti che continuano a scambiare la storia per i frammenti o per i vetri rotti che la storia produce, dall'altra parte ci sono i nemici più "intelligenti" che hanno sollevato un denso e intenso polverone propagandistico, ma che sanno altrettanto bene che non possono eludere la sostanza politica di massa che rimane salda dietro al polverone. A questo proposito è sufficiente appena scorrere gli interventi all'ultimo Comitato Centrale del PCI.
La granitica montagna del partito revisionista, la cui immobilità e la cui durezza tanta sfiducia politica ed organizzativa ha seminato tra i compagni in questi ultimi anni, sta subendo oggi un profondo scossone interno. Bruscamente risvegliati dall'incalzare vertiginoso degli avvenimenti e dopo aver con veemenza scaricato le loro cattive coscienze contro gli "squadristi", le "bande armate", i "provocatori", ecc. i dirigenti del Pci si trovano oggi costretti a fare i conti con quello che per loro poteva all'inizio ancora essere un incubo, ma che andava via via prendendo i contorni netti della realtà.
Questa realtà ha infatti dimostrato di non essere tanto facilmente esorcizzabile dalla miseria degli anatemi, delle misure repressive, delle parate di regime.
La stessa capacità (di forza e di creatività) il 12 marzo e nelle precedenti scadenze di offendere e di difendersi dalla criminalità delle istituzioni, sancisce oggi, al di là di qualsiasi mistificazione, la reale volontà, la reale materialità di quei bisogni e di quelle aspirazioni comuniste che sono oggi alla base dei movimenti di coscienza e di prassi rivoluzionaria che animano tutti i settori del proletariato.

Comitati Autonomi Operai di Via dei Volsci

sabato 11 marzo 2017

Bologna 11 Marzo 1977: Cronaca degli avvenimenti

Venerdì 11 marzo 1977 ore 10 assemblea di Comunione e Liberazione all'università, partecipano circa 400 persone.
Cinque studenti di medicina, appartenenti ai collettivi autonomi, che si erano presentati all'entrata, vengono malmenati e cacciati brutalmente dall'aula.
La notizia si sparge nell'Università, e accorrono una trentina di compagni che vengono dapprima fronteggiati da un centinaio di ciellini.
L'aggressione dei cosiddetti "autonomi" consiste nel lancio di slogans e scambi verbali.
Scatta la provocazione preordinata: i ciellini si barricano all'interno dell'aula, uno di loro, d'accordo con un professore, che intanto aveva interpellato il rettore Rizzoli, chiede l'intervento della polizia e dell'ambulanza, prima ancora che succedesse qualcosa.
Nel frattempo, fuori dall'Istituto di Anatomia, si raggruppa un centinaio di compagni/e lanciando slogan contro CL......
Dopo appena mezz'ora arrivano la polizia e i carabinieri con le autoblindo, cellulari, camion e jeep, in numero certamente spropositato.
I compagni escono allora dal giardino antistante l'istituto e si raccolgono sul marciapiede nei pressi del cancello. Un primo gruppo di carabinieri entra e si schiera nel giardino a difesa dell'istituto; un secondo gruppo esegue la stessa manovra, sta per entrare, ma inaspettatamente si scaraventa caricando i compagni/e manganellandoli senza motivazione.
I/le compagni/e scappano verso Porta Zamboni; parte la prima carica di candelotti.....ritornando verso Via Irnerio i compagni/e vengono bloccati da una autocolonna di PS e carabinieri, ed è a questo punto che un carabiniere spara ripetutamente. Per difendersi viene lanciata una molotov contro la jeep.
Poi in via Mascarella, un gruppo di compagni ritornando verso l'università, trovano uno sbarramento di PS e carabinieri  provenienti da via Irnerio e che li carica sparando colpi di pistola.; nel gruppo si trovava anche Francesco Lo russo, militante di Lotta Continua. Partono le prime raffiche di mitra: alcuni compagni scappano verso l'università risalendo Via Mascarella.
Una pistola calibro 9 si punta sui compagni ed esplode 6 - 7 colpi in rapida successione: lo sparatore (come testimonieranno i lavoratori della Zanichelli), indossa una divisa senza bandoliera, e un elmetto con visiera; prende la mira con precisione, poggiando il braccio su di una macchina.
Francesco, sentendo i primi colpi, si volta, mentre corre con gli altri, e viene colpito trasversalmente. Sulla spinta della corsa percorre altri 10 metri....poi cade sul selciato sotto il portico di Via Mascarella. Quattro compagni lo raccolgono e lo trasportano fino alla libreria "Il Picchio", dove un'ambulanza lo porta all'ospedale.
Francesco vi giunge morto. Era rimasto a studiare fino alle 12,30 e solo allora era sceso in strada. ....La polizia si ritira in questura......
La notizia che la polizia ha ucciso un compagno si sparge in fretta. Radio Alice la diffonde alle 13.30. Da quel momento in poi, la zona universitaria è un fluire di compagni e compagne. Tutti gli strumenti di informazione che il movimento possiede sono in funzione, dalle parole alle radio ...... all'incredulità e al disorientamento, si sovrappongono il dolore e la rabbia......
L'Università si organizza per evitare nuove provocazioni della polizia; vengono chiuse le vie d'accesso alla zona per evitare nuove provocazioni, ogni facoltà si riunisce, e dalle assemblee improvvisate emerge con chiarezza che l'assasinio di Francesco è tutto tranne un "incidente". Vengono fatte telefonate ai vari CdF e si manda una delegazione alla Camera del Lavoro per chiedere l'adesione al Corteo. La rabbia e il dolore si fanno crescenti e la maggioranza dei/delle compagni/e individua gli obbiettivi e le risposte che il movimento vuole dare. La libreria di C.L. "Terra promessa" ridiventa per la terza volta "Terra bruciata"....
Si organizzano i servizi d'ordine, allo scopo di garantire l'autodifesa del corteo e da tutte le parti si grida che l'obbiettivo è ... Colpire la DC!!! .... Partono in corteo 8000 compagni/e colmi di dolore e rabbia, che si dirige verso la sede della DC.
Sono le 17.30. Il corteo è in Via Rizzoli; Vengono spaccate tutte le vetrine della via centrale. In Piazza Maggiore il PCI si raccoglie intorno al Sacrato dei Caduti ..... i compagni continuano ... spaccano tutto. Nei pressi della sede della D.C. la polizia carica la testa del corteo, scatenando nuovi scontri. Durante la manifestazione vengono dati alle fiamme l'ufficio del Resto del Carlino, due commissariati, la libreria di CL e diverse vetrine ..... Poi ci si dirige verso la Stazione FS, si occupano i binari ...... si ritorna all'Università.
La giornata si conclude con un enorme assemblea al cinema Odeon ...... Si organizza il viaggio a Roma per l'indomani ........ Nella notte vengono effettuati numerosi arresti e perquisizioni domiciliari.
Fin da subito è chiaro a tutti che l'omicidio di Francesco non è stato casuale ma un ennesimo attacco premeditato che ha visto in azione le truppe di Kossiga.





Francesco Lo Russo, al centro con i baffi, sorride. L’11 marzo verrà assassinato dai carabinieri

venerdì 10 marzo 2017

Siamo marea, saremo burrasca

L’8 marzo milioni di donne in tutto il globo sono scese in piazza e hanno scioperato. L'appello argentino Ni una Menos è stato raccolto da oltre 40 paesi, tra cui l'Italia: si sono costituite reti cittadine Non una di Meno in tutte le principali città e la diffusione del materiale per lo sciopero globale transfemminista è arrivata anche nelle piccole cittadine. Una giornata di sciopero produttivo e riproduttivo h24 che ha bloccato le metropoli mondiali innervandosi fin nelle province dello stivale.
Questo spazio politico, per ampiezza e trasversalità, ha permesso di intravedere il superamento delle iniziative istituzionali, da decenni – e anche oggi - sbandierate sulla testa delle donne normalizzando e neutralizzando qualsiasi istanza di cambiamento incarnata nel dissidio dei corpi, delle donne, dei generi non disponibili al compromesso sulla propria pelle: sul lasciarsi ancora parlare e plasmare da altri e per fini altrui. Che sindacati confederali e soggetti istituzionali o para-istituzionali abbiano dovuto rincorrere o comunque parlare dello spazio aperto da questa rete, ne è forse la conferma più lampante e il punto di partenza per la messa in crisi di ogni compatibilismo del discorso di genere: dalla parità nell'integrazione nei modelli di dominio che riproducono i livelli della subordinazione sociale, fino alla comprensione e valorizzazione delle differenze per questo stesso ordine.
Il dato interessante della giornata, che spiazza, ristruttura e supera le stesse forme politiche che sono state condizione di questa possibilità, è l'irruzione concreta di un soggetto inatteso, solcato sì dalla violenza dal conflitto di classe ma anche eccedente questo. É forse questa, ancora una volta, la rinnovata e più profonda matrice della lezione femminista. Abbiamo visto nei processi di costruzione, non solo della mobilitazione di questo 8 marzo ma delle lotte e storie che lo hanno prodotto, una presa di protagonismo reale, un'istanza di trasformazione e sovversione dell'esistente che attacca nel profondo le radici del sistema produttivo e riproduttivo. Una tale radicalità ha trovato conferma nella materialità di ruoli assegnati e subiti che, negandosi nello sciopero, hanno messo in crisi la normale riproduzione della fabbrica sociale.
Non solo dunque manifestazioni sorprendenti per proporzioni e vitalità, ma una rinnovata capacità di usare lo sciopero su un piano sociale e politico. Indicazioni importanti. Trasporti, pulizie, ospedali, scuole, logistica, quartieri sono gli ambiti della riproduzione sociale allargata che hanno subito il contraccolpo delle svariate forme di sciopero messo in campo: da quello che ha usato le convocazioni dei sindacati di base, fino all'astensione dal lavoro mettendosi alla mutua, per arrivare all'assenteismo sui terminali del controllo tele-informatico (social network, e-mail) a fini produttivi, fino alla diserzione della disponibilità quotidiana a farsi in quattro per gli altri... mariti, figli, partners. Il fastidio muto che aleggiava sui social network per i disagi su trasporti e mobilità, dai treni fino ai bus e alle metro, sono il segnale che qualcosa ha funzionato nell'interrompere una normalità.
La vita, i servizi, gli istituti sociali che dobbiamo preservare nel rispetto dei ruoli di genere assegnatici sono il mondo che siamo costrette a riprodurre a costo di umiliazioni e servitù. Non è quello che vogliamo. La naturalizzazione dello sfruttamento non si trova più solo nelle cucine, è stata diffusa e allargata alla metropoli globale, la subisce una più ampia composizione femminilizzata nelle sue mansioni, nei suoi comportamenti, nelle sue aspirazioni. L'umiliazione e il costo della produzione/riproduzione di questo sistema sono l'oggetto del rifiuto di questa giornata: dire basta è il punto da cui iniziare. Dirlo significa rifiutare e scontrarsi con la sofferenza del ruolo sociale e simbolico prescrittici (tutte, tutti, trans, queer): in questo sta la gioia della liberazione, della sovversione. L'antagonismo alla sofferenza, al ruolo imposto, al sistema tutto è la scommessa dello sciopero, produttivo e riproduttivo, dei generi e dai generi. La condizione per gioire per "una per cui la guerra non è mai finita".
L'8 marzo è solo il punto zero da cui ripartire, nella gioia della rabbia, nel distruggere la gabbia.

mercoledì 8 marzo 2017

Olga e le altre. Dalla violenza in casa alla violenza di Stato

Tante, troppe, le donne che faticano a liberarsi da una relazione violenta. Il ricatto dei figli, la mancanza di un reddito proprio, le minacce di morte rendono difficile riprendersi la propria vita. I tribunali che indagano le vite delle vittime, gli assistenti sociali che scrutano la quotidianità di chi dice no alle botte, agli stupri, alle umiliazioni condiscono il tutto del sapore acre dell’aceto.
Per le migranti senza documenti la strada è una salita ancor più ripida. Per molte il permesso di soggiorno è legato al quello del marito, per tutte le altre, se perdi il lavoro perdi il permesso.
É successo anche ad Olga, badante ucraina, che non è riuscita a trovare un nuovo impiego, dopo la morte della donna anziana di cui si occupava.
Olga non è il suo nome vero, ma la sua storia è lo specchio di quella di tante altre donne, che un giorno bussano alla polizia per denunciare la violenza di quello che per un po’ è stato il proprio compagno. La polizia le ha chiesto i documenti, il permesso, e l’ha subito spedita al CIE di Ponte Galeria a Roma, uno dei quattro rimasti aperti dopo anni di rivolte ed evasioni.
Di oggi la notizia che il governo ha stanziato i soldi per finanziare l’apertura di altri 15 CIE, ora ribattezzati CPR – centri per l’espulsione e per coprire le spese per le deportazioni.
Olga sarebbe dovuta partire oggi: la polizia italiana le aveva prenotato un posto in un volo di sola andata per l’Ucraina. All’ultimo è stata presa la decisione di lasciarla al CIE. Forse l’eco mediatica della sua vicenda ha indotto il ministero dell’Interno a una maggiore prudenza. Forse. Forse è stato solo uno dei tanti inghippi burocratici che ingarbugliano la vita dei migranti.
Olga è una delle tante donne che restano impigliate nella rete delle espulsioni. Una delle tante donne che, oltre ai controlli e agli abusi che investono tutti i senza documenti durante controlli e retate, subiscono violenze in quanto donne. Molestie e stupri nei centri di detenzione sono stati raccontati dalle donne che hanno corso il rischio di raccontare la propria storia. Donne che hanno lottato ed hanno avuto la fortuna di incrociare chi era disposto ed ascoltare e far circolare le loro voci.



martedì 7 marzo 2017

L’8 marzo la terra trema!

L’8 MARZO LA TERRA TREMA!
LE DONNE DEL MONDO SI UNISCONO
LANCIANO UNA PROVA DI FORZA E UN GRIDO COMUNE
SCIOPERO INTERNAZIONALE DELLE DONNE
CI FERMIAMO, SCIOPERIAMO, CI ORGANIZZIAMO
METTIAMO IN PRATICA IL MONDO IN CUI VOGLIAMO VIVERE
NOI SCIOPERIAMO!
- Perché non si riconosce il fatto che il lavoro domestico e di cura è lavoro non retribuito, che si somma mediamente per 3 ore in più alle nostre giornate lavorative.
- Perché questa violenza economica aumenta la nostra vulnerabilità di fronte alla violenza machista.
- Perché guadagniamo meno dei nostri colleghi uomini.
- Contro le molestie sul lavoro, contro il lavoro molesto.
- Per rendere visibile che se i lavori di cura non diventano responsabilità di tutta la società noi ci vediamo obbligate a riprodurre lo sfruttamento classista e coloniale tra donne: per andare a lavorare dipendiamo da altre donne, per spostarci dipendiamo da altre donne.
- Per reclamare il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito e l’abolizione dell’obiezione di coscienza.
- Perché nessuna sia obbligata alla maternità.
- Perché mancano le vittime di femminicidio, le lesbiche e le transessuali assassinate.
Ci organizziamo contro il confino domestico, contro la maternità obbligatoria e contro la competizione tra donne, tutte forme spinte dal mercato e dal modello della famiglia patriarcale.
Ci organizziamo in ogni dove: nelle case, per le strade, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nei mercati, nei quartieri.
Trasformiamo le assemblee in manifestazioni, le manifestazioni in festa, la festa in un futuro comune.
Perché siamo per noi stesse, questo 8 marzo è il primo giorno della nostra nuova vita.
PERCHÉ CI MUOVE IL DESIDERIO, IL 2017 È IL TEMPO DELLA NOSTRA RIVOLUZIONE.

PARO INTERNACIONAL DE MUJERE                     NON UNA DI MENO - TORINO

8 marzo 2017 sciopero internazionale delle donne


8 MARZO 2017
SCIOPERO
INTERNAZIONALE
DELLE DONNE

CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE E LE VIOLENZE IN GENERE

Se le nostre vite non valgono nulla NON PRODUCIAMO, CI FERMIAMO, BLOCCHIAMO, SCIOPERIAMO, A CASA, AL LAVORO, A SCUOLA.
Lo sciopero generale di 24 ore riguarda ogni nostra attività, produttiva e riproduttiva, ogni ambito pubblico o privato, in cui discriminazione, sfruttamento e violenza colpiscono ognuna di noi.
SCIOPERIAMO DAI RUOLI DI GENERE CHE CI VENGONO IMPOSTI

Non Una Di Meno – Torino                                                    nonunadimenotorino@gmail.com

lunedì 6 marzo 2017

State attenti alle donne di Kobane!

State bene attenti alle donne di Kobane, dove i Curdi siriani stanno disperatamente combattendo l’ISIS/ISIL/Daesh. Stanno anche combattendo i piani traditori di USA, Turchia e del governo del Kurdistan iracheno. Chi vincerà?
Cominciamo parlando di Rojava. Il pieno significato di Rojava – le tre province più curde della Siria del nord – è racchiuso in questo editoriale pubblicato dall’attivista incarcerato Kenan Kirkaya. Egli sostiene che Rojava è la dimora di un “modello rivoluzionario” che sfida “l’egemonia del sistema capitalista di nazione-stato” – ben oltre il proprio “significato per i Curdi, i Siriani o per il Kurdistan” di stampo regionale.
Kobane – una regione agricola – si ritrova nell’epicentro di questo esperimento non-violento di democrazia, reso possibile da un accordo tra Damasco e Rojava (A Rojava il processo decisionale si sviluppa attraverso assemblee popolari – multiculturali e multireligiose. I tre maggiori funzionari di ogni municipalità sono un Curdo, un Arabo e un Cristiano Assiro o Armeno e almeno uno di questi deve essere una donna. Le minoranze non-curde hanno le proprie istituzioni e parlano le proprie lingue.
Tra una miriade di consigli di donne e di giovani, ci sono anche un esercito femminista la cui fama è in continua crescita, la milizia YJA Star (Unione delle Donne Femministe, con la stella a rappresentare la dea Mesopotamica Ishtar).
Il simbolismo non potrebbe essere più grafico, pensate alle tre forze di Ishtar (Mesopotamia) che combattono le forze dell’ISIS (tradotto Iside, dea dell’antico Egitto), ora rappresentate da un Califfato intollerante.
All’inizio del 21° secolo, è la barricata femminile di Kobane l’avanguardia della lotta al fascismo.

domenica 5 marzo 2017

Ai rassegnati

Odio i rassegnati!
Odio i rassegnati, come odio i sudici, come odio i fannulloni.
Odio la rassegnazione! Odio il sudiciume, odio l’inazione.
Compiango il malato curvato da qualche febbre maligna; odio il malato immaginario che un po’ di buona volontà rimetterebbe in piedi.
Compiango l’uomo incatenato, circondato da guardiani, schiacciato dal peso del ferro e del numero.
Odio il soldato curvato dal peso di un gallone o di tre stellette; i lavoratori curvati dal peso del capitale.
Amo l’uomo che esprime il suo pensiero nel posto in cui si trova; odio il votato alla perpetua conquista di una maggioranza.
Amo il sapiente schiacciato sotto il peso delle ricerche scientifiche; odio l’individuo che china il suo corpo sotto il peso di una potenza sconosciuta, di un X qualsiasi, di un Dio.
Odio tutti coloro che cedendo ad altri per paura, per rassegnazione, una parte della loro potenza di uomini non solamente si schiacciano, ma schiacciano anche me, quelli che io amo, col peso del loro spaventoso concorso o con la loro inerzia idiota.
Li odio, sì, io li odio, perché lo sento, io non mi abbasso sotto il gallone dell’ufficiale, sotto la fascia del sindaco, sotto l’oro del capitale, sotto tutte le morali e le religioni; da molto tempo so che tutto questo non è che una indecisione che si sbriciola come vetro … Io mi curvo sotto il peso della rassegnazione altrui. Odio la rassegnazione!
Amo la vita.
Voglio vivere, non meschinamente come coloro che si limitano a soddisfare solo una parte dei loro muscoli, dei loro nervi, ma largamente soddisfacendo sia i muscoli facciali che quelli dei polpacci, la massa dei miei reni come quella del mio cervello.
Non voglio barattare una parte dell’oggi con una parte fittizia del domani, non voglio cedere niente del presente per il vento dell’avvenire.
Non voglio curvare niente di me sotto le parole Patria – Dio – Onore. Conosco troppo bene il vuoto di queste parole: spettri religiosi e laici.
Mi burlo delle pensioni, dei paradisi, sotto la cui speranza religioni e capitale tengono nella rassegnazione.
Rido di tutti coloro che accumulano per la vecchiaia e si privano nella gioventù; di coloro che, per mangiare a sessanta, digiunano a vent’anni.
Io voglio mangiare quando ho i denti forti per strappare e triturare grossi pezzi di carne e frutti succulenti, e voglio farlo quando i succhi del mio stomaco digeriscono senza alcun problema; voglio soddisfare la mia sete con liquidi rinfrescanti o tonici.
Voglio amare le donne, o la donna secondo come converrà ai nostri comuni interessi, e non voglio rassegnarmi alla famiglia, alla legge, al Codice, nessuno ha diritti sul nostro corpo. Tu vuoi, io voglio. Burliamoci della famiglia, della legge, antica forma della rassegnazione.
Ma non è tutto: io voglio, poiché ho gli occhi e le orecchie, oltre che mangiare, bere e fare l’amore, godere sotto altre forme. Voglio vedere le belle sculture, le belle pitture, ammirare Rodin o Manet. Voglio ascoltare le migliori opere di Beethoven o di Wagner. Voglio conoscere i classici della Commedia, conoscere il bagaglio letterario e artistico che è servito per unire gli uomini passati ai presenti o meglio conoscere l’opera sempre in evoluzione dell’umanità.
Voglio gioia per me, per la compagna scelta, per i bambini, per gli amici. Voglio una casa dove poter riposare gradevolmente i miei occhi alla fine del lavoro.
Poiché io voglio anche la gioia del lavoro, questa gioia sana, questa gioia forte. Voglio che le mie braccia adoperino la pialla, il martello, la vanga o la falce.
Voglio essere utile, voglio che noi tutti siamo utili. Voglio essere utile al mio vicino e voglio che il mio vicino mi sia utile. Desidero che noi operiamo molto perché la mia necessità di godere è insaziabile. Ed è perché io voglio godere che non sono rassegnato.
Sì, sì, io voglio produrre, ma voglio godere; voglio impastare la farina, ma mangiare il miglior pane; fare la vendemmia, ma bere il miglior vino; costruire la casa, ma abitare nei migliori appartamenti; fare i mobili, ma possedere anche l’utile, vedere il bello; voglio fare dei teatri, tanto vasti, per condurvi i miei compagni e me stesso.
Voglio prendere parte alla produzione, ma voglio prendere parte al consumo.
Che gli uni sognino di produrre per altri a cui lasceranno, oh ironia, la parte migliore dei loro sforzi; per me, io voglio, unito liberamente con altri, produrre ma consumare.
Guardate rassegnati, io sputo sui vostri idoli; sputo su Dio, sputo sulla Patria, sputo sul Cristo, sputo sulle Bandiere, sputo sul Capitale e sul Vello d’oro, sputo sulle Leggi e sui Codici, sui Simboli e le Religioni: tutte fesserie, io me ne burlo, me ne rido…
Essi non sono niente né per me né per voi, abbandonateli e si ridurranno in briciole.
Voi siete dunque una forza, o rassegnati, di quelle forze che si ignorano ma che sono delle forze ed io non posso sputare su voi, posso solo odiarvi … o amarvi.
Il più grande dei miei desideri è quello di vedervi scuotere dalla vostra rassegnazione, in un terribile risveglio di Vita.
Non esiste paradiso futuro, non esiste avvenire, non vi è che il presente.
Viviamo!
Viviamo! La Rassegnazione è la morte.
La rivolta è la vita.
Albert Libertad
[Pubblicato in “L’anarchie”, 13 aprile 1905]

giovedì 2 marzo 2017

2 marzo 1977: Torino, via fascisti e nuova polizia!

Torino, è il 2 marzo 1977 un corteo studentesco di cinquemila studenti per lo più delle medie superiori attraversa la città. Il corteo è stato indetto per protestare contro la sparatoria fascista avvenuta a Roma due giorni prima in cui sono rimasti feriti due compagni.
Gli slogan che si scandiscono sono contro Andreotti, contro i fascisti e contro il PCI. Immediatamente mentre il corteo attraversava Via Cernaia e Corso Galileo Ferraris si alza tra gli studenti un grido rabbioso: "le sedi dei fascisti si chiudono col fuoco". In corso Vittorio 63 un gruppo nutrito di compagni si stacca dal corteo, sale al secondo piano dove si trova la sede del Circolo Monarchico e lancia all'interno una serie di Molotov. Seguono lo stesso destino l'albergo "Suisse" in via Sacchi all'angolo con Porta Nuova e la sede di "Comunione e Liberazione" ubicata in via Roma.
Il corteo defluisce verso Palazzo Nuovo dove è in programma un'assemblea. Ma si verificano delle tensioni con i militanti della FGCI che vengono espulsi da Palazzo Nuovo dagli studenti con un corteo militante. "I giovani del partito comunista hanno sceso le scalinate tra due ali di studenti minacciosi" riferisce "La Stampa" di quei giorni.
A Torino quindi è in crescita "un'area di autonomia del movimento che inizia a porre scadenze, ad alzare il livello dello scontro, ad individuare i terreni e le forme di lotta su cui viene ad essere spezzato l'isolamento e la ghettizzazione della lotta studentesca individuando le strutture di potere e i reali obbiettivi da attacare" (da 'Rosso').
Il giorno dopo però, giovedì 3 marzo circa 50 funzionari del PCI e della FIOM tra cui Giuliano Ferrara e Piero Fassino tentano un'incursione dentro Palazzo Nuovo per vendicarsi della cacciata del giorno prima e picchiano alcuni studenti. Ma il movimento studentesco reagisce immediatamente e i PCIsti vengono cacciati dal servizio d'ordine fuori dall'università dove stazionano a sentire il comizio del presidente e del vicepresidente della Regione Piemonte aspettando l'arrivo della polizia a dar loro man forte.
Ma nel frattempo gli studenti lasciano Palazzo Nuovo in corteo alla volta dell'istituto Avogadro in quel momento in occupazione per tenere qui un'assemblea avendo capito che il PCI avrebbe fatto sgomberare l'università dalla polizia dopo l'attacco fallito.
Ma non contenti di ciò i PCIsti chiamano la polizia all'Avogadro dove i celerini entrano in tenuta antisommossa e dato che gli studenti escono da una porta posteriore dell'istituto i poliziotti iniziano a caricare nelle vie attorno alla scuola.
A Torino come a Roma il PCI supplisce al lavoro sporco che la DC e le sue squadre speciali non riescono a fare.
Via via la nuova polizia!

mercoledì 1 marzo 2017

1 marzo 1968: la battaglia di Valle Giulia

Guardando al 1968, il 1 Marzo rappresenta una tappa fondamentale, una data destinata a lasciare una traccia forte nell'immaginario collettivo ma anche ad avere conseguenze sugli sviluppi successivi degli eventi.
Con la battaglia di Valle Giulia il movimento studentesco, che nei mesi precedenti era stato un mormorio relegato al piano locale, si trasforma in un boato ed irrompe con forza sulla scena nazionale. Le voci delle precedenti occupazioni di facoltà, iniziate già nel '67 a Pisa, Torino e Milano, erano infatti circolate perlopiù in ambito universitario, senza riuscire a portare all'attenzione dell'opinione pubblica le prime avvisaglie di agitazione. A Valle Giulia, zona di Roma alle pendici dei Parioli, si trova la facoltà di Architettura, che nei giorni precedenti al 1 Marzo è stata sede di svariate iniziative politiche, culminate nell'occupazione della facoltà. Il 29 Febbraio il rettore D'Avack richiede l'intervento della polizia per mettere fine all'occupazione: l'edificio viene brutalmente sgomberato e rimane presidiato dalle forze dell'ordine. La mattina successiva più di 4000 studenti si radunano in Piazza di Spagna e si dirigono verso la facoltà di Architettura, determinati a liberare l'edificio dall'assedio poliziesco. Il corteo giunge sul posto e comincia a fronteggiare i cordoni delle forze dell'ordine in un clima incandescente; l'evento scatenante non tarda ad arrivare: quando un gruppo di agenti prende in disparte uno studente e comincia a picchiarlo la rabbia del corteo esplode in una fitta sassaiola in direzione della polizia.
In breve lo scontro si estende a tutta l'area circostante, un gruppo di studenti riesce anche a sfondare i cordoni della polizia e a rientrare nella facoltà ma è costretto ad uscirne poco dopo sotto i colpi dei manganelli.
Gli studenti reggono a lungo l'urto delle cariche degli agenti: a fine giornata si contano 500 feriti tra i manifestanti e 150 tra le forze dell'ordine, i fermati sono più di 200, l'area circostante la facoltà ha un aspetto tale da far parlare di una vera e propria battaglia: diverse camionette ed auto incendiate, il suolo disseminato di sassi e lacrimogeni.
L'evento farà scorrere fiumi d'inchiostro: il giorno successivo la notizia rimbalza da un quotidiano all'altro, l'opinione pubblica si divide, tante interpretazioni e visioni ne vengono date.
Quel che è certo è che la battaglia di Valle Giulia rappresenta una svolta per il movimento studentesco e per un'intera generazione che abbandona con decisione la fase dell'"innocenza" e mette in campo il primo episodio di uno scontro inevitabile.
Nelle ore successive la battaglia lo slogan che circola orgogliosamente fra gli studenti, non più disposti a subire a capo chino la violenza della polizia, è: "Non siam scappati più!".