..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 31 gennaio 2017

Gli scontri alla Sapienza

Nella mattinata del 1 febbraio 1977 alla facoltà di Lettere della Sapienza si sta tenendo un'assemblea del Comitato di lotta contro la circolare Malfatti. La circolare emanata dal ministro il 3 dicembre '76 vieta agli studenti di fare più esami nella stessa materia smantellando di fatto la liberalizzazione dei piani di studio in vigore dal '68. Questa iniziativa viene immediatamente intesa dagli studenti universitari come la prima mossa in vista di altri e ben più gravi provvedimenti di controriforma. È proprio durante lo svolgimento dell'assemblea che un gruppo di fascisti del FUAN, l'organizzazione studentesca del MSI, entra nella città universitaria assaltando la facoltà di Lettere. I fascisti, capeggiati da Alessandro Alibrandi, noto squadrista romano, sono armati di spranghe, molotov e pistole.
Subito si sparge la voce e da tutte le facoltà si radunano gruppi di compagni per fronteggiare l'attacco squadrista. È a questo punto che due studenti, Paolo Mangone e Guido Bellachioma, vengono colpiti da colpi d'arma da fuoco. Il più grave, Bellachioma, colpito alla nuca, viene ricoverato in fin di vita al Policlinico.
Nel pomeriggio, dopo che un corteo di un migliaio di giovani aveva raggiunto, assaltandola, la sede del MSI di via Livorno, viene occupata la facoltà di Lettere a cui Bellachioma era iscritto e viene indetta una mobilitazione antifascista per il giorno seguente.
Quella del 1° febbraio fu soltanto una delle continue aggressioni squadriste di quegli anni. Ma segnò un momento preciso e di svolta per il nascente movimento del '77.
Il Comitato di lotta denuncia l'aggressione come "tentativo delle forze reazionarie e della DC di far passare la riforma malfatti anche con il supporto dell'aggressione nera", e invita tutti gli studenti al blocco delle lezioni.
La percezione è proprio quella di un attacco repressivo contro gli studenti ben orchestrato.
Non fu che l'inizio di un anno in cui lo scontro tra il movimento e i fascisti prima e la polizia poi, sarebbe stato durissimo.

lunedì 30 gennaio 2017

Domhnach na Fola (Bloody Sunday)

13 gone not forgotten….

La mattina del 30 gennaio 1972 dal quartiere di Bogside si muove una gran folla. È stata indetta una manifestazione dal NICRA (Northern Ireland Civil Rights Association) e studenti, lavoratori e anziani republicans si stringono nel freddo di quell’inverno a rivendicare parità di diritti con gli anglicani fedeli alla corona. Perché nella Derry (Londonderry la chiamano gli invasori) del ’72 per avere un lavoro o una casa popolare fa una bella differenza se sei cattolico e discendi da irlandesi, o se nelle tue vene scorre il sangue dei coloni inglesi. Può ancora avere un senso scendere in piazza, dimostrare che il partito repubblicano, il Sinn Fein, ha dei consensi ben maggiori rispetto a quella manciata di voti che le truffe elettorali lealiste gli concedono. Allora quel giorno dal Bogside non partono solo gli infiammati ragazzi dell’IRA, il 30 gennaio si sta tutti assieme.
Il governo inglese ha però deciso che quel giorno darà l’esempio. A Londra si sono stancati dei delinquenti dell’Irish Republican Army che ripetutamente mettono in discussione il potere costituito in Ulster, attaccando la polizia e facendo saltare in aria fabbriche e nodi economici del paese: il 30 gennaio si spara. Il primo battaglione paracadutisti britannico viene inviato a Derry per motivi di ordine pubblico, lascerà per terra 13 civili, un altro morirà di lì a poco per ferite d’arma da fuoco.
Non ci interessa qui ripercorrere le inchieste che la Corona Inglese utilizzò per lavarsi pubblicamente quei morti dalla coscienza, ma bensì quella traccia di odio, pulsante, che governi e polizie non sapranno mai cancellare. E l’odio che generarono i 14 di Derry fu tanto e ancora oggi Aggiungi un appuntamento per oggi porta i suoi segni. Tra i ragazzi del Bogside divenne palese che una scesa in campo democratica non avrebbe più potuto avere un senso, e il numero di militanti dell’IRA aumentò vorticosamente.
Sette anni dopo, il 27 agosto 1979, l’IRA fece saltare in aria il cugino della Regina Lord Luois Mountbatten con tre suoi accompagnatori, e 18 soldati inglesi a Warrenpoint, nella contea di Down. Quella sera stessa a Belfast, lungo la Falls Road, apparve una scritta che diceva: “13 gone not forgotten, we got 18 and Mountbatten (13 andati non dimenticati, noi ne abbiamo fatti 18 e Mountbatten)” .

sabato 28 gennaio 2017

Le carogne

C’era una volta un branco di pecore che pascolava liberamente. L’erba era tenera ed abbondante ed il prato era fiorito. Vennero i lupi. Le pecorelle tremarono di paura e ricorsero ai pastori per protezione. Ma i cattivi pastori, dopo averle munte e tosate ben bene le consegnarono ai macellai.
Questa è la vecchia favola, tante volte detta e ripetuta, sui cattivi pastori, che oggi calza più che mai a meraviglia addosso ai mestatori del ciuccialismo riformato.
Egli è fuori dubbio che il vecchio millenario sogno di uguaglianza e di libertà aveva preso la sua più completa forma nella nuova dottrina del socialismo. La borghesia tremò e nella paura divenne feroce.
Volle prevenire il pericolo e ricorse alla repressione violenta, al piombo degli scherani, al carcere, all’esilio. Al domicilio coatto.
Ma le idee non muoiono e il malcontento esplode di frequente nelle sommosse, nei moti insurrezionali, che vengono soffocati nel sangue.
Le tenebre della reazione vengono rotte da vividi bagliori d’incendio.
Più la reazione infuria e più si accende il desiderio della libertà e della vendetta.
Ma disgraziatamente il socialismo aveva il suo dato debole. Esso lasciava intatto il principio dell’autorità, e questa sua manchevolezza doveva condurlo al fallimento.
Ben presto gli elementi autoritari presero il sopravvento e incanalarono il movimento sulla falsa strada del socialismo di Stato.
La borghesia comprese che questa era la sua ancora di salvezza. Non potendo più ostacolare la marcia del proletariato, finse di seguirla. Molti elementi borghesi si infiltrarono nelle file proletarie e si diedero con ardore ad organizzare le masse nelle camere del lavoro e nelle leghe di resistenza.
Essendo essi gli elementi più colti, presero ben presto il sopravvento e accentrarono nelle loro mani tutto il movimento operaio. I lavoratori allettati dai vantaggi immediati, che conseguirono nella lotta contro il capitale, si affidarono ciecamente all’opera dei dirigenti.
Ma i cattivi pastori mentre predicavano la rivoluzione, meditavano il tradimento, ed intanto invigliacchivano le masse con l’elezionismo, facendo balenare la speranza di arrivare alla piena emancipazione colle vie legali. Il suffragio allargato compì l’opera.
Quando le masse, stanche della lunga attesa volevano venire ad un’azione energica, i bravi pastori, teneri del benessere del proletariato, si scalmanavano a consigliare la calma.
Il momento non è propizio! I tempi non sono maturi!
E i lavoratori ritornavano tranquilli all’ovile a farsi mungere, aspettando che i tempi maturassero. Aspetta cavallo che l’erba cresce.
La borghesia intanto preparava tranquillamente le armi per l’immane macello, nel quale dovevano morire milioni di operai, i più giovani, i più irrequieti, i più entusiasti per l’ideale.
Finita la carneficina, i superstiti, vistisi ancora ingannati e delusi nelle legittime speranze, vollero tentare il cimello finale per spezzare il giogo opprimente.
I condottieri compresero che non potevano più recitare l’indegna commedia e da tutti i pulpiti predicarono la rivoluzione. Ma quando giunse il momento, quando il grande esercito mobilizzato iniziava l’assalto delle posizioni nemiche coll’occupazione delle fabbriche e dei latifondi, i pastori si ritirarono in disparte, lasciando le masse disorientate. Non contenti di ciò misero mano alle pompe e con le docce fredde dei concordati e dei controlli operai fecero sbollire tutto l’entusiasmo, gettando nei cuori lo sconforto e la disperazione.
Così la rivoluzione liberatrice, che si era affacciata con tanto vigore, vilmente tradita, moriva sul nascere, dando adito alla borghesia di organizzare una feroce reazione. I rappresentanti del pus cadaverico gongolanti di gioia sentenziarono che il tempo non era ancora maturo e che pel momento conveniva rientrare nei limiti della legalità. Iniziarono così il tanto sospirato movimento collaborazionista che culminò nella salita al Quirinale di Filippo il Turacciolato e nella solenne coglionatura subita dal medesimo. Eppure il proletariato baggeo, così vilmente tradito, continua a prestar fede a tutti i pagliacci del ciuccialismo deformato, ed invece di appenderli ai lampioni, come meriterebbero, continua ad ardere loro l’incenso e ad accendere i ceri.
Forse crede in buona fede di non essere ancora maturo, o sente veramente il bisogno di essere tenuto alla catena?
Ma ecco che a disilludere anche i più ingenui, gli eroici pompieri buttano finalmente la maschera e confessano cinicamente il loro vile tradimento. Nel recente convegno di Milano, al quale presero parte quasi tutti i social traditori, più o meno deformati, forse per cattivarsi le simpatie dei fascisti e risparmiare dai randelli il loro pieghevole groppone, ovvero per conservare la medaglietta conquistata coi voti estorti ignominiosamente ai lavoratori, e per godersi tranquillamente il beneficio dell’indennità parlamentare, hanno fatto a gara nello sconfessare il loro passato rivoluzionario (?) e i loro peccati giovanili.
Fra gli altri il barbuto aragonese, con la sua faccia da sputi, ebbe l’eroico coraggio di dichiarare senza ambagi: «Noi al congresso di Roma dobbiamo ricordare i nostri avvertimenti contro le violenze, e contro il socialismo così detto di guerra, non dobbiamo parlar chiaro (finalmente!) confessando i nostri errori. È stata ad ogni modo una fortuna che torna a nostro onore l’avere impedita la rivoluzione» (giornale L’Oradel 12-9-1922).
Si poteva essere più spudorati? E voi proletari avete capito? Sono stati gli aragonesi, i turacciolati, i trampolini, e simile lordura che hanno impedito la rivoluzione. Sono stati essi che, dopo avervi spinto all’azione, vi hanno vilmente tradito e consegnato, legati mani e piedi alla reazione borghese, culminata nella violenza del fascismo.
Non contenti di ciò, questi… signori, continuano a consigliarvi la rassegnazione; e vi tentano ancora, gli scellerati, incitandovi a lasciarvi ricostruire in santa pace.
Eccoli ora smascherati e denudati. Osservatele queste immonde carogne nella loro oscena nudità; ma badate di turarvi bene il naso, perché non vi ammorbino col loro lezzo impuro.
Ed ora proletari continuate ad adorare i vostri cari pastori: ardete un cero a santo spiridione perché ve li conservi sani, onde possano ben tosarvi prima di consegnarvi al beccato. Continuate a farvi mitragliare nelle piazze, per deporre nell’urna falsa la scheda che porterà tali carogne putrefatte alla mangiatoia di Montecitorio.
Non vi persuaderete mai che di tali esseri immondi dovrebbe essere purgata e per sempre l’umanità?
Quando imparerete a far da voi stessi, a fare a meno di tutti i pastori, buoni soltanto per mungere e tosare le pecorelle mansuete e poi consegnarle al beccaio?
Solo quando riuscirete a liberarvi da tutti i prebendati, da questa brutta genia di mascalzoni, arruffapopoli, solo allora v’incamminerete a testa alta alla conquista della libertà; solo allora compirete la grande rivoluzione sociale nel solo nome dell’anarchia.

Euno (Paolo Schicchi)
(Il Vespro Anarchico, anno II, n. 33, 20 ottobre 1922)

venerdì 27 gennaio 2017

28 gennaio 1973: arresto di 10 militanti di Lotta Continua a Torino.

L'aria che si respira in Italia in quegli anni non è delle più salubri. Ovunque aggressioni, morti e stragi firmate a quattro mani da fascisti e polizia. La bomba in piazza Fontana a Milano nel '69. Il tentato Golpe Borghese del '70. Il ferimento (divenuto presto assassinio) di ...Roberto Franceschi a Milano. Solo a Torino decine sono le intimidazioni alle sedi DELL'ANPI e del PCI, a cui si aggiungono i pestaggi davanti alle scuole e all'università.
É in questo clima che il 27 gennaio 1973, il movimento studentesco indice un corteo contro le provocazioni fasciste nel capoluogo piemontese. Aderisce anche L'ANPI. Il corteo di 8'000 persone subisce un attacco da giovani militanti del MSI nei pressi di piazza della Repubblica, che porta al ferimento di alcuni studenti e di un operaio. Basta. Dopo il comizio di chiusura, una parte del corteo si sposta in corso Francia 19, davanti alla sede del Movimento Sociale. Ad aspettare i compagni, oltre ai militanti missini, ci sono i celerini pronti ad aprire il fuoco. Il bilancio è di due giovani militanti di Lotta Continua, Luigi Manconi ed Eleonora Aromando, feriti da arma da fuoco, 19 mandati di cattura e 34 perquisizioni. I 19 mandati diventano presto 25.
A sostenere l'accusa intervengono l'arresto di Guido Viale (avvenuta il 28 gennaio dopo la conferenza stampa sui fatti del giorno prima) e la confessione sotto intimidazione di un militante di 17 anni. L'ipotesi sostenuta dalla magistratura è che gli scontri del 27 siano stati orchestrati a tavolino proprio da Viale, venuto a Torino da Roma per insegnare la guerriglia urbana ai militanti piemontesi. Il teorema giudiziario fa acqua da tutte le parti, e in tutto il paese sorgono varie manifestazioni di solidarietà contro gli arresti.
Tra i compagni incarcerati c'è anche Tonino Miccichè, combattivo operaio di Mirafiori, poi ucciso nel '75 da un fascista della Cisnal durante le occupazioni di case alla Falchera (quartiere operaio di Torino). I compagni di lotta e di fabbrica di Tonino scioperano e scendono in piazza qualche giorno dopo, pretendendo la liberazione degli arrestati.
Nascono iniziative di solidarietà anche da intellettuali, politici e sindacalisti, che chiedono la scarcerazione dei compagni in un documento, il cui primo firmatario è il sen. Franco Antonicelli. Tra gli altri Colletti, Foa, Lombardi, Parri, Quazza, Revelli, Terracini, Trentin, Bobbio, Zangari, Lama, Pasolini, Calvino, Ingrao, Pontecorvo, Comencini, Volontè, Pintor, Parlato, Rossanda.
Un comunicato del Partito Radicale in merito agli arresti del 27/28 denuncia la "palese violazione dei diritti civili" sintomo della volontà di autoconservazione di un "sistema penale basato su uno stato di polizia".
A difendere i compagni interviene l'associazione Soccorso Rosso, fondata da avvocati e giuristi di sinistra durante il processo a Valpreda per i fatti di Milano del 12 dicembre '69.
Il sentore, in ogni parte d'Italia, è che il potere costituito stia cercando di creare un precedente, che si sia stancato di vedere concretizzarsi per le strade del paese un conflitto sociale mai sopito. Il quotidiano Lotta Continua titola: "La linea dei magistrati sembra quella di prendersela comoda, quella di dare una lezione."
Ma come è noto "chi semina vento raccoglie tempesta", e polizia, magistrati e vari organi di repressione non avrebbero tardato ad accorgersene.

giovedì 26 gennaio 2017

La Volante Rossa

Non è l'Italia che volevano i partigiani, quella che nasce dalla liberazione. Un poco graduale processo di riabilitazione viene messo in pratica ad ogni livello nei confronti dei fascisti. La fiducia popolare nelle nuove istituzioni repubblicane, si increspa dopo le prime assoluzioni ai processi, rese possibili anche dall'Amnistia Togliatti. Il mancato rinnovamento nei posti di potere porta ad un paradossale (a guardarlo oggi neanche tanto) ribaltamento della storia: magistrati e forze dell'ordine fasciste che difendono la repubblica, arrestando quei partigiani e operai che l'avevano liberata. A chi non va che tutto rimanga come prima non resta che organizzarsi per regolare quei conti lasciati aperti dallo stato.
Non è facile inquadrare in breve la situazione italiana di quel periodo. Quasi tutte le formazioni partigiane non hanno consegnato le armi. La Brigata Garibaldi per difesa contro le squadracce qualunquiste, monarchiche e neofasciste che hanno ripreso ad attaccare le case del popolo e le sedi del PCI; i partigiani bianchi democristiani, contro un'eventuale insurrezione rossa.
È in questo contesto che a Lambrate, nell'estate del '45 nasce la Volante Rossa - Martiri Partigiani. Il nome lo acquisisce da una precedente formazione che aveva operato nell'Ossola nel '44. È composta da ex partigiani, operai e giovani comunisti che non ritengono conclusa la guerra di liberazione.
La condotta del PCI è in quegli anni molto particolare. Da un lato le direttive sovietiche (mai disattese dalla dirigenza togliattiana) di inserirsi nel processo democratico per non squilibrare i rapporti di Yalta; dall'altro, lo schizofrenico tentativo di mantenere vicina una base sociale proiettata verso una liberazione rivoluzionaria del paese. È in questa ambiguità di atteggiamento che trovano spazio i militanti della Volante. Questi hanno la facoltà di ritrovarsi nella Casa del Popolo di Lambrate, di svolgere da servizio d'ordine nei cortei, ma non di iscriversi al partito.
Lo scopo primo dell'organizzazione, ben coperto da una facciata pubblica di circolo giovanile, è quello di pareggiare i debiti che i fascisti hanno con la giustizia popolare.
Tra le molte azioni compiute, la più famosa è quella ribattezzata degli "omicidi dei taxi", compiuta il 27 gennaio del '49 verso la fine della Volante Rossa. I fascisti destinati quel giorno a pagare il conto con la giustizia si chiamano Felice Ghisalberti e Leonardo Massaza. Il primo è colpevole di aver ucciso Eugenio Curiel, partigiano e militante comunista, il 24 febbraio del '45, e di essere stato assolto dai tribunali istituzionali; l'altro di essere una spia dell'Ovra, la polizia politica del regime, grazie alla quale erano stati fucilati diversi partigiani. Il nucleo che compie l'azione, formato da Marco (Eligio Trincheri), Lino (Natale Burato), Pastecca (Paolo Finardi), decide di condensare in un'unica volta i rischi delle esecuzioni.
La mattina del 27 Marco e Pastecca prendono un taxi per Milano, dove aspettano che Ghisalberti esca dalla trattoria dove è solito pranzare. Appena lo vedono aprono il fuoco da dentro l'auto, e poi si allontanano. Lasciano il taxista a Lambrate, e pagano la corsa dopo avergli consigliato di andare subito a denunciare il fatto alla polizia, alterando le descrizioni degli identikit. Il taxista è un comunista, e sembra capire.
La sera stessa tornano a Milano con Lino, e prendono un altro taxi fino a casa di Massaza. Lo freddano sulla porta del suo appartamento. Questa volta il taxista cerca di darsela a gambe, ma viene convinto a trattenersi. Questa volta devono insistere per pagare la corsa.

domenica 22 gennaio 2017

Visto che ...

Visto che non ce la farete mai
a procurarci un salario decente
ci mettiamo noi a dirigere le fabbriche
visto che, fatti fuori voi, sarà sufficiente.
Visto che allora ci minaccerete
coi fucili e coi cannoni
abbiamo deciso che una vita infame
la temeremo d'ora in poi più della morte.
Visto che non ci fidiamo del governo
quali che siano le sue promesse
abbiamo deciso che d'ora in poi ci costruiremo
una buona vita guidata soltanto da noi.
Visto che date retta ai cannoni
e a ogni altra lingua siete sordi
dobbiamo allora, e non ce ne pentiremo,
puntare i cannoni contro di voi!

(Bertolt Brecht, "I giorni della Comune")

sabato 21 gennaio 2017

Radio Onda Rossa

Il 22 Gennaio 1980 a Roma la polizia, su mandato del giudice Priore, procedette alla chiusura della sede di “Radio Onda Rossa” in Via dei Volsci 56 e all’arresto di Claudio Rotondi, Vincenzo Miliucci, Giorgio Trentin e Osvaldo Miniero, tutti redattori dell’emittente.
Tra gli obiettivi della magistratura figuravano anche i nomi di Riccardo Tavani e Giorgio Ferrari, i qual riuscirono però a sfuggire all’operazione rendendosi latitanti.
Durante gli anni precedenti l’emittente, fondata nel Maggio del ’77 su iniziativa di un gruppo di militanti di Autonomia Operaia, era già incorsa in altre operazioni repressive che si traducevano in arresti e chiusure preventive che miravano a contenere il diffondersi di una voce da molti ritenuta scomoda e pericolosa in quanto voce di riferimento per il movimento di quegli anni.
L’intervento del 22 Gennaio fu conseguenza dello sviluppo del cosiddetto teorema Calogero (dal nome dell’allora sostituto procuratore che lo formulò), secondo cui l’Autonomia Operaia rappresentava la testa pensante delle Brigate Rosse; le accuse a carico degli arrestati furono infatti di ‘istigazione a disobbedire alle leggi dello Stato’ e di ‘apologia di delitti’, reati commessi, stando agli atti della magistratura, diffondendo radiofonicamente comunicati delle BR e diffamando continuamente lo stato, la magistratura e le forze di polizia.
Il giorno successivo l’operazione venne salutata con favore da molti quotidiani nazionali che, con ingenuo entusiasmo, credevano di ravvisare in essa la fine del movimento del ’77 (L’Unità titolò in prima pagina “Chiusa l’ultima voce dell’Autonomia”).
La chiusura e gli arresti, tuttavia, non rappresentarono la fine dell’esperienza di Radio Onda Rossa; nei giorni successivi all’operazione un ascoltatore scrisse: ”..per me ascoltare Onda Rossa era come sentire la mia voce più forte, come un megafono...ecco il megafono del movimento! Adesso che è stata chiusa, il movimento deve essere la voce di Onda Rossa, perché si continui a sentire nelle case e nei posti di lavoro”.
In un comunicato diffuso dai Comitati Autonomi Operai si legge inoltre: “Con la chiusura di Radio Onda Rossa e l’arresto dei compagni Trentin, Miniero, Rotondi e Miliucci, in troppi credono di aver quadrato il cerchio e di essersi tolti dallo stomaco la scomoda preoccupazione dell’Autonomia Operaia. [...] L’intera operazione costituisce, per il momento, l’ultimo episodio di un processo iniziato da tempo...; essa chiarisce perfettamente bene che, democraticamente parlando, un regime dominato da una legislazione speciale totalizzante e universalmente repressiva può tranquillamente convivere con la partecipazione sempre più organica di partiti come il PCI e il PSI e dei sindacati alla gestione della dittatura capitalistica. Abbiamo sempre ribadito che ai proletari e a noi la clandestinità non piace e che non offriremo comunque questo regalo ai padroni e al loro stato; oggi, di fronte a questa sbracata operazione, non solo riconfermiamo questa linea di condotta, ma valutiamo che la partita non è affatto conclusa, che anzi, esistono le condizioni per un’ampia mobilitazione di tutti i settori del fronte di classe”.
Ed infatti il sostegno di chi fino a quel momento aveva trovato nell’emittente un mezzo per dar forza alla propria voce si concretizzò in una grande assemblea pubblica cittadina il 25 Maggio, al teatro Centrale di Roma, che determinò la riapertura della radio e la liberazione degli arrestati nel mese di Agosto.
Con la scarcerazione dei quattro redattori si palesò dunque l’infondatezza e la natura unicamente repressiva dell’operazione giudiziaria nei confronti di Radio Onda Rossa, così come di quelle che si erano susseguite negli anni precedenti, conclusesi tutte con l’assoluzione degli imputati.
Nel 1987 in Italia si attua il cosiddetto Piano di Ginevra  stilato dalla RAI ma mai ratificato dal parlamento): un accordo internazionale di divisione delle frequenze radio che di fatto cancellava dall'etere alcune radio a favore dello sviluppo dell'oligopolio delle reti commerciali private.
Nell'ambito di questo piano e nonostante avesse la disponibilità di altre frequenze, dal 1º luglio 1987 Radio Vaticana inizia a trasmettere sulla frequenza dei 93.300 MHz, frequenza già usata da Radio Onda Rossa. La potenza di trasmissione di Radio Vaticana è notevolmente più grande di quella di Radio Onda Rossa (20.000 watt contro 1.500) tale da oscurare di fatto il segnale di quest'ultima.
Nonostante le proteste di piazza e l'opposizione della radio, la situazione rimane immutata per più di otto anni, durante i quali la redazione decide di continuare a trasmettere sulla stessa frequenza rivendicando il diritto a una frequenza propria, libera da interferenze; finché nel 1995 si libera una frequenza nell'etere romano a causa del fallimento di Voglia di radio, una radio commerciale. Dopo vari, e vani, incontri al Ministero delle Comunicazioni, la redazione di Radio Onda Rossa decide di occupare la frequenza degli 87.900 MHz. Pochi giorni prima di Natale la radio organizza una manifestazione a piazza Venezia e trasmette per la prima volta, dagli altoparlanti di un furgone, sulla nuova frequenza occupata.
Il riconoscimento della frequenza di trasmissione è stato oggetto di una lunga controversia con il Ministero delle Comunicazioni, conclusasi solo nel 2006, dopo una rinnovata minaccia di interruzione delle trasmissioni nel 2002.
Nonostante i numerosi attacchi subiti (il 13 ottobre 1982, ore 2:15 un ordigno valutato in 3 kg di dinamite esplode davanti alla porta dell'appartamento di Radio onda rossa, provocando danni rilevanti all'interno dei suoi locali, in tutto il palazzo e nei palazzi vicini) e i tentativi di oscuramento del segnale da parte di Radio Vaticana, la voce di Radio Onda Rossa non si è mai spenta e continua ancora oggi a rappresentare “un segnale che disturba”

giovedì 19 gennaio 2017

19 gennaio 1979: La rivolta delle Nuove

Torino, 19 Gennaio 1979: nel carcere “Le Nuove” di Via Borsellino la quotidianità della vita penitenziaria viene sconvolta da una rivolta di detenuti destinata a protrarsi per diversi mesi sotto la guida dei CDL (Comitati Di Lotta), costituitisi pochi giorni dopo grazie all’iniziativa di alcuni compagni e compagne del carcere.
Ciò che i detenuti in rivolta chiedevano a gran voce erano migliori condizioni di vita all’interno del complesso penitenziario.
Da un comunicato diffuso dal CDL nei giorni immediatamente successivi al 19 si apprende infatti dell’invivibilità della maggior parte degli spazi (molti dei quali dichiarati fuori norma) e degli abusi a cui i detenuti erano sottoposti non appena alzavano la testa contro i soprusi quotidiani.
“..la convivenza diventa praticamente inumana sotto tutti gli aspetti, partendo da quelli igienici, tenendo conto della mancanza di mezzi per mantenere la pulizia [...]; le docce sono 3 di cui una funzionante e costrette purtroppo a restare sporche, l’acqua diventa quasi immediatamente fredda, quindi siamo impossibilitati a lavarci, incrementando così la percentuale di malattie già esistenti, senza nessuna assistenza medica per il menefreghismo delle guardie e brigadieri, marescialli che all’insistere delle richieste ripiegano con metodi di rappresaglia [...]. Noi siamo sprovveduti per combattere questi abusi, soprattutto perché si incorre in duri provvedimenti disciplinari. Davanti a queste azioni molti proletari desistono dall’agire materialmente, ma sono disposti ad ascoltare e condividere questa causa anche socialmente”.
Le rivendicazioni dei detenuti, in realtà, erano sorte già da diverso tempo ma la risposta da parte del Direttore del carcere, preoccupato unicamente di mantenere il quotidiano sistema di violenze con cui il centro veniva mandato avanti, erano state vane promesse destinate a rimanere sulla carta e a non avere mai una reale applicazione.
A tutto ciò va aggiunto il silenzio degli organi di stampa e delle istituzioni esterne al carcere, nonostante i detenuti più attivi si premurassero continuamente di far arrivare le proprie rivendicazioni oltre le spesse mura carcerarie e di portare all’attenzione pubblica una questione che non poteva più essere ignorata.
Solo a partire dalla fine di Gennaio, quando l’eco delle rivolte all’interno delle Nuove si era spinta troppo lontano per continuare a tenere la faccenda sotto silenzio, alcuni giornali, in primo luogo La Stampa, cominciarono a dedicare spazio alla questione; almeno inizialmente, però, gli articoli si limitavano ad una poco veritiera cronaca delle proteste, che venivano vendute dai giornali come pacifiche e destinate a concludersi di lì a poco grazie ad una presunta disponibilità al dialogo da parte della direzione del centro penitenziario.
La rivolta, in realtà, si protrasse fino ad Aprile, adottando metodi di lotta di volta in volta diversi: ritardare collettivamente il rientro in cella, rifiutarsi di presentarsi ai processi, scioperi della fame, diversi giorni di sosta sul tetto del carcere fino a vere e proprie devastazioni di alcune zone delle Nuove.
Di fronte all’intensificarsi della protesta anche le misure repressive da parte dei vertici del centro di detenzione si inasprirono: oltre ad autorizzare violenze sempre più vergognose (che spesso assumevano le forme di vere e proprie torture, come la permanenza sul famigerato letto di contenzione, dove i detenuti venivano tenuti legati fino a che tutto il corpo diventava una piaga), vennero disposti numerosi trasferimenti di detenuti in altri poli carcerari, nel tentativo di fiaccare il crescente rafforzamento del CDL tenendo separati i suoi componenti.
La protesta aveva però assunto dimensioni difficilmente contenibili, anche in virtù della costante comunicazione e collaborazione (per quanto vietate) tra il CDL della sezione maschile e quello della sezione femminile.
Col passare del tempo e con il costituirsi di una coscienza politica da parte di molti carcerati che dapprima avevano solo tiepidamente appoggiato la rivolta, anche le rivendicazioni seppero andare oltre le iniziali richieste di ambienti, cibo e assistenza sanitaria migliori e la consapevolezza di non poter slegare la propria battaglia dalle parole d’ordine che provenivano da situazioni sociali esterne al carcere (lotte di fabbrica e di quartiere) si fece strada fra i detenuti; in un comunicato del CDL femminile di Febbraio si legge infatti:
É emersa la necessità di una ricomposizione politica nel Comitato e la riaffermazione della capacità di direzione politica del Comitato nella crescita dei livelli di contropotere proletario all’interno del carcere. Il Comitato quale sintesi delle tensioni esistenti nella sezione ha aperto un ciclo di lotta che a partire dai bisogni immediati delle proletarie prigioniere portasse alla crescita del livello di contropotere interno e di una maggior unità fra tutte le proletarie prigioniere, e che vedesse l’impiego di lotte quanto più disarticolanti”.

mercoledì 18 gennaio 2017

18 gennaio 1965: Malcom X

Il 18 gennaio 1965 la Young Socialist Alliance, gruppo giovanile trockista del Partito Socialista dei Lavoratori (SWP), intervistò Malcolm X, leader della Muslim Mosque Inc. e noto attivista a favore dei diritti e dell’autodeterminazione degli afroamericani e dei diritti umani in generale. L’intervista, rilasciata a Jack Barnes e a Barry Sheppard appena un mese prima della morte del giovane leader afroamericano, fu lievemente rielaborata e accorciata su approvazione dello stesso Malcolm X e pubblicata nel numero di marzo-aprile della rivista “Young Socialist”.
Quanto emerge dalle dichiarazioni rilasciate a Barnes e Sheppard è il profilo di un uomo profondamente convinto della lotta e degli ideali che propugna, anche se la vera forza di queste parole si trova nella lucidità con cui Malcolm X rielabora e approfondisce gli aspetti più radicali della sua filosofia. Nella primavera del 1963 infatti egli si era pubblicamente distaccato dalla Nation Of Islam (NOI), la “setta islamica militante” la cui tesi centrale era quella secondo cui la maggior parte degli schiavi africani erano stati musulmani prima di venire catturati e che quindi i neri avrebbero dovuto riconvertirsi all'Islam, creando una nazione nera separata all'interno degli Stati Uniti (secondo l’ideologia del nazionalismo nero). La Muslim Mosque Inc. invece, nata nel 1963, abbandonò il presupposto religioso come elemento di coesione per il popolo nero impegnandosi in quelle battaglie civili, civiche e politiche che la NOI poneva in secondo piano. Nel frattempo Malcolm X si convertì all’islamismo ortodosso e nel 1964 partì per un viaggio che lo condusse in Egitto e poi a Jeddah, in Arabia Saudita, con destinazione finale La Mecca, luogo in cui arrivò per la prima volta a concepire l'Islam come una religione capace di abbattere qualsiasi barriera razziale, abbandonando definitivamente la tesi del nazionalismo nero per abbracciare la battaglia a favore dei diritti civili.
Insieme a A. Peter Bailey e altri, Malcolm fondò il distaccamento statunitense della Organizzazione per l'Unità Afro-americana (OAAU) Ispirandosi alla Organizzazione per l'Unità Africana (OAU), che aveva come scopo quello di utilizzare ogni mezzo necessario per creare una società in cui 22 milioni di afroamericani fossero riconosciuti e rispettati come esseri umani.
L’intervista del 18 gennaio, dunque, si colloca in un periodo di trasformazioni profonde nel pensiero del trentanovenne leader afroamericano, in bilico tra la folgorazione religiosa e lo spirito internazionalista che aveva caratterizzato molti leader rivoluzionari negli anni precedenti (basti pensare all’intensa attività che aveva svolto Che Guevara nei suoi viaggi in Africa e sud America), a dimostrazione di un ampliamento di vedute che superava i confini degli Stati Uniti e  faceva di Malcolm X un uomo capace di riconoscere i crimini dell’imperialismo americano nella guerra del Vietnam e nello sfruttamento dei popoli oppressi dell’Africa. La sua analisi politica infatti è lungi dal potersi ridurre alla semplice rivendicazione di alcuni diritti fondamentali e inalienabili: a differenza di altri leader afroamericani, cui Martin Luther King era l’esponente di maggior spicco, Malcolm X era conscio del fatto che la semplice protesta non poteva sostituire un sistema politico e culturale che diffondeva razzismo e violenza di classe fin dalla sua fondazione (anche per questo criticò aspramente la Marcia su Washington dicendo che non trovava nulla di eccitante in una dimostrazione "fatta da bianchi davanti alla statua di un presidente morto da cento anni e al quale, quando era vivo, noi non piacevamo" ) e nel quale non ci si poteva affidare tanto al Partito repubblicano quanto a quello democratico, indicato, anzi, come il bacino di raccolta dei maggiori esponenti del razzismo negli Usa. La disillusione e la cruda analisi sociale effettuata da Malcolm X fecero anche in modo che, in seguito all’assassinio di John F. Kennedy,  egli commentasse piuttosto freddamente che la violenza che i Kennedy non erano riusciti a fermare gli si era "ritorta contro", aggiungendo che questo genere di cose non lo intristiva ma lo rendeva felice, dimostrando ancor più di essere distante dalle posizioni nonviolente di una parte del movimento afroamericano. Quando Barnes e Sheppard gli domandarono come mai si facesse sostenitore della violenza, egli rispose piuttosto laconicamente che “A ognuno piacerebbe raggiungere il suo obiettivo pacificamente(…). Non ho mai sentito di qualcuno andare dal Ku Klux Klan per insegnar loro la nonviolenza, o dalla Birch Society o da altri elementi di destra. La nonviolenza è predicata solamente agli americani neri, e non procedo con chiunque voglia insegnare la nonviolenza alla nostra gente, finchè al contempo qualcuno non insegni al nostro nemico a essere nonviolento. Penso che dovremmo difenderci con ogni mezzo necessario quando siamo attaccati dai razzisti”.

lunedì 16 gennaio 2017

L’orologio

Nell’esatto momento in cui la rivoluzione industriale ha richiesto una maggiore sincronizzazione del lavoro, nasce l’esigenza dell’orologio. Il piccolo congegno che regola i nuovi ritmi della vita industriale rappresenta allo stesso tempo uno dei bisogni più urgenti tra quelli indotti dal capitalismo per stimolare il proprio progresso.
Così scopriamo, il senso del tempo nel suo condizionamento tecnologico e con il calcolo del tempo, il mezzo di sfruttamento del lavoro. Con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe , le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi, vengono plasmate le nuove abitudini di lavoro e viene imposta la nuova disciplina del tempo. E allorché viene imposta la nuova disciplina del tempo, gli operai iniziano a combattere non contro il tempo, ma intorno ad esso. La prima generazione di operai di fabbrica viene istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione forma le commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione sciopera per lo straordinario come tempo retribuito in modo maggiorato del 50 per cento. Gli operai hanno accettato le categorie dei propri padroni e hanno imparato a lottare all’interno di esse. Hanno appreso la lezione:il tempo è denaro.

sabato 14 gennaio 2017

15 gennaio 1990: occupazione della Sapienza da parte della Pantera

15 gennaio: La Pantera siamo noi.
Alla fine del 1989 una pantera nera venne ripetutamente avvistata intorno a Roma; seminò il panico e sfuggì ai safari organizzati per catturarla, e scomparve infine nel nulla. Non fu l'unica pantera ad aggirarsi per le città e a ruggire in quei giorni: proprio dal felino, che occupò le prime pagine dei giornali e i programmi televisivi, si diede il nome il movimento di studenti universitari e medi che agitò le scuole e occupò le facoltà del Paese: chi ha paura della Pantera?
Il 15 gennaio 1990 gli studenti occuparono la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma; questa occupazione segnò la nascita del movimento della Pantera. Già da qualche mese erano occupati un laboratorio e un'aula della Sapienza e fino a dicembre era stata occupata la biblioteca per protestare contro i ridotti orari di apertura, dovuti ai tagli al personale dell'università.
La prima città a muoversi era stata Palermo (6 dicembre 1989), dove la precaria situazione dell'istruzione era aggravata da problemi economici e sociali. Poi, quando il 15 gennaio la Pantera occupò alla Sapienza le facoltà di Lettere, Psicologia e Scienze Politiche, la protesta esplose: mentre l'ateneo romano resterà occupato fino alla primavera, in tutta Italia vennero occupate scuole e facoltà e bloccata la didattica.
Primo Ministo era Giulio Andreotti, al suo ultimo mandato; il ministro dell'Istruzione era Antonio Ruberti, socialista, craxiano. É l'ultima legislatura della cosiddetta Prima Repubblica, siamo alle soglie di Tangentopoli.
Il motivo aggregante della protesta fu la proposta di legge Ruberti che prevedeva l'autonomia degli atenei e l'ingresso dei privati nelle Università. Il primo aspetto segnava la fine dell'idea stessa di Università di massa, con la creazione di una gerarchia tra gli atenei, divisi tra atenei di eccellenza e atenei di seconda fila. La legge prevedeva poi la possibilità per le aziende di contribuire al finanziamento dei corsi di studio, in base alle necessità dei loro piani industriali, alleviando, secondo le intenzioni del Governo, l'onere contributivo dello Stato nella ricerca. Se un'azienda investiva capitali per un programma di ricerca, era ovvio pensare, secondo il movimento, che non avrebbe fatto beneficienza. Gli studenti rivendicavano un sapere slegato dal processo produttivo e una formazione culturale non necessariamente collegata alla sua spendibilità nel mondo del lavoro.
I motivi della protesta non si fermavano però alla sola opposizione alla riforma. Si voleva uscire dalla marginalità in cui si trovavano gli studenti all'interno, ma anche all'esterno dell'Università, privi di potere decisionale sul proprio futuro. Si contestava inoltre l'aumento delle tasse che avrebbe seriamente compromesso il diritto allo studio. Preoccupava poi l'entrata in Europa, con la nascita dell'Unione Europea. L'unione economica e finanziaria avrebbe condotto la ricerca, secondo la Pantera, ancora di più nelle mani delle grandi multinazionali. Infine, il movimento rivendicava l'accesso a un'informazione libera e autonoma, e contestava la manovra dell’allora solamente imprenditore Berlusconi (legittimata dall'allora ministro delle Comunicazioni Mammì, dopo la deregulation degli anni Ottanta) di accentramento dei canali di comunicazione.

giovedì 12 gennaio 2017

Autonomia operaia e autonomia dei proletari

Sono circa due anni che i giornali del Kapitale italiano (tutte le sue tendenze, dal Tempo all'Unità) sbraitano contro un nuovo gruppo: Autonomia Operaia, autore a loro dire di tutte le provocazioni e delle azioni teppistiche compiute negli ultimi tempi. In questi giorni poi la campagna giornalistica (soprattutto da parte della sinistra capitalistica) contro i provocatori si è accentuata poiché in fase di ristrutturazione il capitale italiano non può sopportare l'attività sovversiva dei compagni che non intendono più pagare sulla propria pelle il prezzo delle varie crisi capitalistiche o meglio il prezzo dell'esistenza capitalistica stessa. Compagni che sono usciti dalla logica politica dei partiti o gruppetti stalino-leninisti e che superando la falsa sfera della politica, alienante e separata, portano avanti un discorso basato sull'esigenza di negare la sopravvivenza capitalistica, la dittatura spettacolare-mercantile che il dominio reale del capitale ha imposto. Storicamente la classe operaia nei momenti di esplosione rivoluzionaria ha sempre mandato affanculo i preti radical-borghesi socialisti, sedicenti comunisti, che erigendosi a suoi rappresentanti si erano innalzati i propri templi imponendo ai protetti il pellegrinaggio dopolavoristico. Fin dalle sue origini la classe operaia ha trovato momenti di organizzazione e di collegamento al di là degli schemi delle varie organizzazioni radical-borghesi, non ha certo aspettato il messia rivoluzionario per reagire al capitalismo. Ha saputo trovare propri mezzi e modi: dagli scioperi selvaggi agli atti di sabotaggio. Cominciando dal 1811 in Inghilterra con il movimento Luddista, prima e grossa espressione dell'autonomia operaia, passando per il giugno 1848 con le giornate del proletariato rivoluzionario parigino, continuando con La Comune e con i movimenti del '900 con la rivoluzione sovietica (fino a quando rimane tale), fino al '68. In queste esperienze il proletariato ha però superato l'ambito riduttivo delle rivendicazioni economico-politiche; o meglio nel momento in cui il capitale superando la fase di dominio formale ha instaurato il suo dominio reale, il proletariato e con esso i proletarizzati ha cominciato un discorso totale contro il suo essere proletario (o proletarizzato), contro il lavoro, contro la sopravvivenza capitalistica rifiutando la sfera separata della politica. Concludendo si può parlare dell'autonomia degli operai che tendono a negare la loro sopravvivenza in quanto tali e ad affermare la loro vita in quanto comunisti, dell'autonomia dei proletarizzati che negano la società spettacolare-mercantile ponendosi contro di essa (al di fuori non ci crede nessuno). Cosa diversa è invece l'organizzazione Autonomia Operaia, rimasta interna alla logica politica, all'ideologia marx-leninista, all'ipotesi del partito rivoluzionario, negando il contrasto tra i due concetti: di partito, che implica una ideologia, una struttura verticale, dei quadri dirigenti, dei militari, dei simpatizzanti, degli iscritti, dei militarizzati e dei non...; e di rivoluzionario, che nega tutto ciò e afferma se stesso, il proprio corpo, le proprie esigenze (comuniste). Questi compagni (Aut. Op.) partono da una realtà rivoluzionaria: l’esigenza di sviluppo autonomo di bisogni proletari, per riproporre tuttavia la militanza rivoluzionaria(professionale) e il partito, con l'unico risultato di incanalare queste esigenze rivoluzionarie negli schemi capitalistici della politica e dell'ideologia. Pur muovendosi da premesse anti-revisioniste (il rifiuto della figura coscienziale del partito e l'innesco del movimento autonomo) l'autonomia operaia organizzata fa rientrare il partito dalla finestra, burocratizzando lo stesso concetto di autonomia.

(Volantino di: Neg/azione 1976)

sabato 7 gennaio 2017

Il processo dei sessantasei (Lione, 1883)

Il cosiddetto «processo dei 66» si riferisce al processo che avvenne in seguito ad un attentato causato dal lancio di una bomba al Teatro Bellecour di Lione (ottobre 1882), attribuito ad un gruppo di anarchici e che vide imputati Kropotkin, Emile Gautier, Felix Tressaud ed altri.
Il processo iniziò l'8 gennaio 1883, a Lione, l'accusa agli anarchici è «D'esser stati affiliati o fatto atto d'affiliazione ad una società internazione, avente per obiettivo di provocare la sospensione del lavoro, l'abolizione del diritto della proprietà, della famiglia, della patria, della religione e di aver anche commesso attentati contro la pace pubblica».
Il 19 gennaio, gli imputati lessero la seguente dichiarazione per spiegare l'essenza delle loro idee libertarie, e quello che è l'anarchia e chi sono gli anarchici.
“Che cos'è l'anarchia, che cosa sono gli anarchici, stiamo per dirvelo. Gli anarchici signori, sono dei cittadini che, in un secolo nel quale si predica ovunque la libertà delle opinioni, hanno ritenuto loro dovere di invocare la testimonianza della libertà illimitata. Si, signori, noi siamo, secondo l'opinione della gente, qualche migliaio, qualche milione forse “perchè non abbiamo altro merito che di dire ad alta voce ciò che la folla pensa a bassa voce“, siamo qualche milione di lavoratori che rivendicano la libertà assoluta, nient'altro che la libertà, tutta la libertà!
Vogliamo la libertà, cioè reclamiamo per ogni essere umano il diritto e i mezzi per fare tutto ciò che gli piace e di non fare ciò che non gli piace; di soddisfare integralmente tutti i suoi bisogni, senza limiti che le impossibilità naturali e i bisogni dei nostri vicini ugualmente rispettabili. Vogliamo la libertà e crediamo la sua esistenza incompatibile con l'esercizio di qualsiasi potere, quali che siano la sua origine e la sua forma, che esso sia eletto o imposto, monarchico o repubblicano, che si ispiri al diritto divino al diritto popolare, alla Santa Ampolla (l'ampolla che conteneva l'olio sacro col quale si consacravano i re di Francia) o al suffragio universale. Il fatto è che la storia è lì per insegnarci che tutti i governi si assomigliano e si equivalgono. I migliori sono i peggiori. C'è più cinismo negli uni e più ipocrisia negli altri. Nel fondo, sempre le stesse parole, sembra la stessa intolleranza. Non c'è alcuno, anche dei più liberali, in apparenza, che non abbia in riserva, sotto la polvere degli arsenali legislativi, qualche buona leggina contro l'Internazionale da usare contro le opposizioni fastidiose.
Il male, in altri termini, agli occhi degli anarchici, non risiede in questa forma di governo piuttosto che in quella. Esso è nell'idea stessa di governo, è nel principio di autorità. La sostituzione, in una parola, nei rapporti umani, del libero contratto, perpetuamente rivedibile e annullabile, alla tutela amministrativa e legale, alla disciplina imposta: ecco il nostro ideale. Gli anarchici si propongono dunque di insegnare al popolo di fare a meno del governo come comincia a imparare a fare ameno di Dio.
Imparerà anche a fare ameno dei proprietari. Il peggiore dei tiranni, infatti, non è colui che vi imprigiona, è colui che vi affama; non è colui che vi afferra per il collo, è colui che vi prende per il ventre. Nessuna libertà in una società dove il capitale è monopolizzato nelle mani di una minoranza che diminuisce di numero ogni giorno e dove nulla è equamente ripartito, neppure l'istruzione pubblica, sebbene pagata coi soldi di tutti.
Crediamo noi, che il capitale, patrimonio comune dell'umanità, dal momento che è il frutto della collaborazione delle generazioni passate e delle generazioni presenti, deve essere a disposizione di tutti, in modo tale che nessuno possa esserne escluso e nessuno, in cambio, possa accaparrarne una parte a detrimento degli altri.
Vogliamo in una parola, l'Uguaglianza: l'uguaglianza di fatto come corollario o piuttosto come condizione primordiale di libertà. A ciascuno secondo le sue facoltà, a ciascuno secondo i suoi bisogni: ecco quello che vogliamo sinceramente, energicamente; ecco ciò che sarà, poiché non c'è prescrizione che possa prevalere su rivendicazioni insieme legittime e necessarie. Ecco perchè si vuole offrire tutte le ignominie.
Scellerati che noi siamo! Noi reclamiamo il pane per tutti, il sapere per tutti, il lavoro per tutti, per tutti pure l'indipendenza e la giustizia”.
Il 28 gennaio, contro gli imputati, furono emesse condanne molto dure: 4 anni di carcere per gli anarchici Kropotkin, Emile Gautier, Joseph Bernard, Pierre Martin, Toussaint Bordat... e da sei mesi a tre anni per 39 altri loro compagni.

Estratto da Documents d'Histoire, Paris, 1964

giovedì 5 gennaio 2017

La battaglia di Wolf Mountain

Tashunka Uitko
Cavallo Pazzo
L'8 gennaio del 1877 ci fu l'ultima grande battaglia tra le truppe dell'esercito americano, condotte dal generale Miles, e una coalizione di Sioux e Cheyennes, sotto la guida di Cavallo Pazzo.
Dopo una tregua di più di 50 anni nel 1850 la guerriglia indiana era ripresa poiché i carri americani che andavano e venivano dalle miniere d'oro facevano fuggire i bisonti. Nel 1864 abbiamo uno degli episodi più atroci della guerra indiana: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek (Oklahoma) fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono e mutilarono 200 persone inermi, i cui scalpi furono poi esposti come trofei.
La guerra aperta riprese quando ne 1874 si scoprì l'oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il colonnello George Armstrong Custer decise di occupare la regione.
Il 25 luglio 1876 l'esercito degli Stati Uniti d'America, comandato dal colonnello Custer, subì una schiacciante sconfitta da parte di una forza combinata di Lakota, Sioux, Cheyenne e Arapaho nella battaglia del Little Big Horn, nel territorio orientale del Montana. I federali ebbero più di 270 morti e il resto dell'esercito dovette fuggire in ritirata davanti a più di 1200 indiani, usciti praticamente indenni dalla battaglia.
L’immediata reazione dei vertici dell’esercito degli Stati Uniti, alla inaspettata quanto scioccante notizia della disfatta del 7° cavalleria a Little Bighorn, fu quella di ordinare l’invio di parecchi reggimenti, guidati dal generale Miles, nel Montana sud-occidentale allo scopo di liquidare il più in fretta possibile la “pratica” degli indiani ostili.
La grande coalizione di Sioux e Cheyenne invece si era già divisa in numerose bande.
A differenza degli anni precedenti, la maggior parte dei gruppi famigliari Lakota e Cheyenne, quell’autunno del 1876, non rientrò nelle varie riserve per ricevere le razioni alimentari annuali. Rimase invece tra i propri parenti con i quali si erano ricongiunti in primavera per il tradizionale periodo di caccia.
A trattenerli lontano dalla riserva, nonostante la selvaggina cominciasse già a scarseggiare e i primi segnali dell’imminente arrivo dell’inverno fossero ormai evidenti, fu la decisione del Congresso di sospendere la distribuzione delle razioni come ritorsione per la mancata concessione delle Black Hills da parte degli indiani e di affidare il controllo delle agenzie ai militari.
L’impossibilità di stabilire i consueti campi invernali, i continui scontri con i soldati e la fame che ormai attanagliava donne, vecchi e bambini portarono la depressione più nera anche tra i capi più favorevoli alla guerra. Toro Seduto e il suo popolo decisero di rifugiarsi oltre il confine canadese.
Alla fine di quel dicembre 1876 anche nel campo di Cavallo Pazzo che contava ormai circa 800 tende, la fazione favorevole alla resa si era rafforzata sempre di più. Anche lo stesso capo, benché riluttante, non si oppose alla proposta di invio di una delegazione di capi per parlamentare con i soldati e negoziare una resa onorevole, che soprattutto ponesse fine alle sofferenze di coloro che erano più esposti ai disagi del freddo e della fame: vale a dire le donne, gli anziani e i bambini.
Una delegazione di 5 capi, scortati da alcuni guerrieri, raggiunse le vicinanze della postazione di Miles il 16 dicembre.
Tatanka Yotanka
Toro Seduto
Il gruppo venne uccise a tradimento dalla tribù dei Corvi, ingaggiati dai federali com scouts.
Non appena il destino subito dalla delegazione di pace fu noto nei campi Sioux e Cheyenne, ogni pensiero di resa pacifica fu immediatamente abbandonato. Cavallo Pazzo non tardò a parlare apertamente di vendetta. Il piano consisteva nell’utilizzare un gruppo di guerrieri come esca per attirare i soldati in un luogo adatto ad un’imboscata.
Il giorno prima della battaglia però un gruppo di donne e bambini cheyennes venne catturato dai soldati americani e il gruppo "esca" cercò di attaccare gli scouts dell'esercito. Questo attacco mise in allerta Miles; la mattina dopo vide l'esercito americano già schierato, eliminando così qualsiasi effetto sorpresa.
Erano circa le 7 del mattino dell’8 gennaio 1877 quando i guerrieri Lakota e Cheyenne Settentrionali attaccarono la compagnia K del 5° Fanteria dando così inizio alla battaglia di Wolf Mountain.
Quando gli indiani furono a distanza di tiro, i soldati risposero al fuoco e, grazie anche alle cannonate dei due pezzi di artiglieria, respinsero gli attacchi che a più riprese vennero loro portati.
Quando il gruppo di Cavallo Pazzo giunse fino a soli 50 metri dalle linee delle compagnie A e D, Miles ordinò alla compagnia C di muoversi in soccorso dei compagni, sostenendo la manovra con un fuoco di artiglieria. I Lakota furono quindi respinti ed inseguiti per un breve tratto.
I combattenti di entrambe le fazioni erano prostrati dalla fatica e dal freddo e avevano quasi esaurito le munizioni. Per queste ragioni, poco dopo mezzogiorno, la battaglia poteva dirsi conclusa.
Nonostante le migliaia di colpi sparati da entrambe le parti, oltre ai colpi di cannone, il bilancio della battaglia fu estremamente limitato in quanto a perdite umane. Tra i soldati ci furono 2 vittime ed alcuni feriti, mentre gli indiani contarono 2 morti tra i Lakota oltre al Cheyenne Grande Corvo e ad un certo numero di feriti.
la sensazione di sicurezza e potenza derivata dalla vittoria di Little Bighorn era venuta meno, e grande era l’incertezza in molti capi sul futuro del proprio popolo.
Nei mesi seguenti furono inviati molti messaggeri dai forti e dalle agenzie presso le varie bande con l’intento di convincere gli indiani “ostili” ad una resa pacifica. a partire dall’inizio della primavera, molti gruppi si arresero, arrivando alla spicciolata nei vari forti e agenzie.
Il 5 settembre 1877 morì Cavallo Pazzo, ferito a morte con una baionetta.
Sulla sua morte ci sono diverse versioni: alcune fonti indicano che sarebbe stato ucciso dalla baionetta di un soldato dopo essersi arreso con la sua tribù, altre fonti ancora narrano che avrebbe lasciato la riserva senza autorizzazione per accompagnare sua moglie malata dai genitori e il Generale George Crookne avrebbe ordinato l'arresto. Resosi conto che lo stavano portando in prigione Cavallo Pazzo avrebbe tentato la fuga e sarebbe stato ucciso in questa occasione da un soldato semplice.