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giovedì 16 febbraio 2017

17 febbraio 1977: Lama cacciato dalla Sapienza

È il 17 febbraio 1977, il giorno scelto da PCI e sindacato per dare una sferzata che lasci il segno a quel movimento di estremisti che ha occupato la Sapienza di Roma.
Hanno deciso che il segretario della CGIL, Luciano Lama, andrà a parlare in università. Dalle 6 del mattino tra servizi d'ordine di FGCI, PCI e vari funzionari sono quasi in duemila; tutti in permesso sindacale per andare a difendere il loro segretario. Bloccano le entrate per non far passare nessuno, e cominciano a cancellare le scritte dai muri. Lama, protetto dai poliziotti di partito, inizia a parlare da un furgone, amplificato da un impianto a 20.000 watt. Assordante, e che non permette replica.
Perché questa scelta? Perché gridare in università che il movimento è composto di fascisti, e sbandierare il vessillo "della politica dei sacrifici" nella casa del "tutto e subito"? Diverse sono le interpretazioni. Chi del PCI ricorda quell'evento, parla di una leggerezza politica, di un errore di analisi, di non aver compreso che in università non c'erano piccoli gruppi autonomi, ma un movimento che già allora avrebbe salvato ben poco dell'esperienza pcista. Ma forse è più saggio pensare che all'interno della dirigenza si volesse cauterizzare quella ferita che il movimento aveva aperto nella base sociale del partito, sospingendo "quelli del '77" su posizioni radicali che ne limitassero il contagio.
Ben prima di quel giorno si era cercato ghettizzare, isolare e rinchiudere il movimento in università; poi di presentare il PCI come il solo portatore reale dell'interesse di classe, e quindi l'unico legittimato a rappresentarla; dopo la cacciata di Lama si decide che nel movimento ci sono i buoni e gli autonomi.
La mattina del 17 febbraio, studenti e lavoratori dei collettivi fronteggiano il servizio d'ordine di Lama. L'aria è tesa, scandita dal coro "sa-cri-fi-ci!" degli indiani metropolitani, che hanno issato un fantoccio del segretario della CGIL con scritto "nessuno lama". E poi succede, anche se nessuno nell'assemblea del giorno prima se lo sarebbe potuto aspettare.
"Ci fu uno sciocco servitore del servizio d'ordine del PCI [...] che brandiva un estintore enorme e stupidamente cominciò a scaricarlo sugli studenti... Quello fu il segnale per mandarli affanculo definitivamente." (V. Miliucci in un'intervista a C. Del Bello).
Succede che Lama è costretto a correre giù dal furgone e darsela a gambe, incalzato dall'attacco dei compagni. C'è chi se lo ricorda sconvolto e sudato, preoccupato di venire catturato dagli autonomi.
Il capo delle "giubbe blu", del legittimo e regolare esercito di classe, messo in fuga dagli "indiani", dai dissidenti, dalla classe.


Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn,
Capelli Corti generale ci parlò all'università,
dei fratelli "tute blu" che seppellirono le asce.
Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace.
E a un dio "fatti il culo" non credere mai.

(da Coda di lupo - Fabrizio De Andrè)


Ore 7.   Suona la sveglia. Il calendario segna giovedì 17 Febbraio 1977, l’agenda rossa del movimento, quello dei sindacati e del PCI coincidono: identico luogo, stessa data, medesimo appuntamento. Alle ore 10 è previsto un comizio di Luciano Lama, segretario generale della Cgil. L’università è occupata per la protesta degli studenti contro la Riforma Malfatti. Étempo di crisi petrolifere e sacrifici per i lavoratori, è tempo di disoccupazione giovanile, è tempo di astensione e compromessi storici.
Ore 8.   Il cielo è grigio, pioggia probabile. Keeway e ombrelli. Siamo nel Piazzale della Minerva, luogo e simbolo della sapienza. Il servizio d’ordine della CGIL e del PCI sta coprendo con la vernice alcune scritte: “Provocatori sono PCI e il sindacato che pieni di paura…invocano lo stato”; “I Lama stanno in Tibet”. Le firme sono di “Autonomia Operaia”, l’ala dura del movimento, e degli “Indiani Metropolitani”, l’ala creativa e irriverente del movimento. Gli indiani osservano, hanno meditato una contestazione ironica, goliardica in un primo momento, pronta a mutare con il crescere della contestazione. Alcuni indiani spingono una scala da biblioteca, di quelle con ruote, palchetto e ringhiera, sopra c’è un fantoccio in polistirolo di Luciano Lama. Attaccati al fantoccio, tanti cuori e palloncini con scritto “L’ama non Lama” oppure “Non Lama nessuno”. I sindacalisti ridono bonariamente, come dei genitori verso i figli goliardici ma qualche comunista ortodosso reputa la provocazione inammissibile.
Ore 9.   Dietro il fantoccio si accalcano i movimenti in aperta contestazione mentre il servizio d’ordine del PCI stende un cordone che perimetra la piazza. Qualcuno intona Guantanamera: “Fatte ‘na pera, Luciano fatte ‘na pera”. Si oltrepassa il limite, la “pera” è gergalmente riferita all’eroina di gran moda in quegli anni, la moda distruttiva che si rivelerà letale per la piazza e quella generazione. Fino ad ora, la contrapposizione politica si è limitata allo scontro verbale.
Ore 10.   Luciano Lama puntuale non manca all’appello, vuole dimostrare che nonostante il compromesso storico e i sacrifici imposti dalla crisi, i giovani e i movimenti sono con loro, studenti e lavoratori ancora insieme come da un decennio a questa parte. Circondato da operai in tuta blu, con passo svelto e guardingo procede verso il palco, la strada per raggiungere il centro della piazza l’ha fatta respirando l’aria intorno. Non mancano i fischi, gli slogan ironici e violenti, non è più il ’68, l’accoglienza è diversa rispetto al passato, ma Luciano Lama ha fegato, nonostante la situazione, non si tira indietro e svelto sale sul palco.
“Il Corriere della Sera ha scritto che saremo venuti qui con i carri armati, si è sbagliato, noi siamo qui…”. Lama, orgoglioso della scelta, parlerà poco più di venti minuti, ma nessuno lo ascolta. Il palco è l’arena, il pubblico è protagonista, Lama diventa una comparsa quasi spettatore, ai suoi piedi, c’è lo spettacolo. Gli Indiani fanno piovere palloncini pieni di vernice sul pubblico, la furia non è più del solo servizio d’ordine, ma dei tanti che erano lì per ascoltare il comizio. Volano fra le due parti pugni, schiaffi, calci, perfino scontri fisici uno contro uno. La scala con il fantoccio di Lama si muove, viene utilizzata come ariete per sfondare il servizio d’ordine ma uno dei capi del servizio d’ordine del PCI usa un estintore contro i collettivi. Si alza una nube bianca, l’aria è fitta e non si vede più nulla, si sentono le grida e le botte: la rissa selvaggia continua.
Ore 10:30.   Lama ha concluso il suo discorso, qualcuno sbrigativo sale sul palco per dire che la manifestazione è sciolta, che non si accettano provocazioni. Qualcuno grida basta, che fra i compagni non ci si picchia, intanto, una carica violentissima ha spazzato via il servizio d’ordine, si è diretta contro il camioncino del sindacato e l’ha capovolto e distrutto. Il camioncino era un Dodge rosso americano che dalla fine della guerra era presente in tutte le feste di liberazione, Feste dell’Unità, ogni primo maggio a San Giovanni. Quel camioncino era il simbolo di 25 anni di lotte del partito, del sindacato e un tempo del movimento. La rabbia cresce e gli studenti militanti del PCI prendono le spranghe di ferro, le mazze di legno, affrontano il movimento, lo scontro è violento, le armi sono anche le più improbabili: chiavi inglesi, pezzi di asfalto, bottiglie spaccate. Una catastrofe. Non doveva andare così. Troppe teste rotte.
Sono ore di follia. La Facoltà di Lettere e Filosofia straripa di infortunati, i militanti del PCI sono trasportati al Policlinico. In giornata la cittadella universitaria viene sgomberata e lo scontro prosegue in serata nelle strade di San Lorenzo con alcuni focolai di guerriglia.
Si potrebbero ipotizzare diverse cause – comunque semplificative e non esaurienti – in merito alla frattura fra CGIL-PCI e i movimenti: dalla riduzione del peso politico acquisito a partire dall’autunno caldo dal sindacato, la rinuncia al conflitto e l’adesione a uno scambio politico oppure il compromesso storico. D’altra parte la frattura non va rinchiusa nelle singole scelte partitiche-sindacali ma ricondotta anche a quei mutamenti rigeneranti del movimento, ben diverso dal ’68, che ha posto una serie di contraddizioni interne alla sinistra di massa e a quella extraparlamentare.