..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 30 novembre 2016

Godzilla e il referendum

Fate fatica ad arrivare alla fine del mese? Siete nei guai con il padrone di casa? Stanno per sfrattarvi? Vi portano via i mobili perché avete perso il lavoro e non avete pagato le rate?
Di che vi lamentate? Il governo dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo. Intanto per la povera gente vivere è sempre più difficile.
La destra fascista e leghista all’opposizione ci dice che è tutta colpa di chi è più povero di noi, dell’immigrato, del profugo di guerra: basta chiudere le frontiere e il nostro paese diventa l’Eldorado, dove tutti sono ricchi e felici.
Pure i Pentastellati vorrebbero chiudere le frontiere e cacciare tutti i senza documenti. Vorrebbero anche più galere per rinchiudere i corrotti e i corruttori. Poi tutto andrebbe a posto: noi saremo tutti felici di far ricchi i padroni per bene, saremo contenti che vi siano governi saggi che decidono cosa è meglio per noi.
Gli antagonisti invece hanno trovato la formula magica che risolve tutti i problemi. Votare No alla riforma costituzionale voluta dal governo, per far cadere Renzi e mandare al suo posto i 5 stelle, un partito autoritario, giustizialista e razzista.
Leghisti, fascisti, forza italici, pentastellati, rifondati ed antagonisti andranno tutti a votare No per cacciare Renzi. Anche la minoranza dello stesso PD voterà No per indebolire il governo.
La Carta costituzionale è solo carta. Nei fatti la Costituzione reale del paese è sempre stata lontana da quella formale, comunque condizionata dal trovare un equilibrio tra i maggiori partiti, in un paese destinato all’orbita statunitense. Al di là di qualche generico proclama, la Costituzione difende la proprietà privata e quindi il diritto allo sfruttamento del lavoro, delle risorse e delle nostre stesse vite.
La distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale dimostra che le stesse regole del gioco del potere sono solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lustrando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.
I richiami alla Resistenza farebbero infuriare i tanti partigiani che combatterono perché volevano che la sconfitta del fascismo fosse il primo passo verso la rivoluzione, senza padroni e senza un governo dei pochi su tutti.
In questi ultimi trent’anni chi ha governato ha distrutto diritti e tutele, strappati in decenni di lotte, di chi aspirava ad una totale trasformazione sociale.
Il governi di questi decenni ci hanno detto che non c’erano soldi. Mentivano. I soldi per le guerre, per le armi, per le grandi opere inutili li hanno sempre trovati. Da anni aumenta la spesa bellica e si moltiplicano i tagli per ospedali, trasporti locali, scuole.
Non vogliono spendere per migliorare le nostre vite, perché preferiscono usarli per le guerre non dichiarate, che in barba alla Costituzione, i governi di destra e di sinistra hanno fatto in ogni dove.
Costruire un’opposizione sociale radicale e radicata è un percorso che non consente scappatoie.
Cacciare Renzi per far governare Di Maio? O Salvini, Berlusconi…
Non fa per noi. Cacciamoli tutti! Vadano via tutti!
Il gioco della Carta Costituzionale è come quello delle tre carte: non si vince mai. O, meglio, vince il ceto politico, vincono i populisti, il popolo del no euro, quello degli spaventati dalla finanziarizzazione dell’economia. Non si caccia un mostro evocandone un altro. Il Godzilla che esce dalle acque del Mediterraneo è un mostro nazionalista, che si nutre di muri e filo spinato, che sogna il protezionismo e l’autarchia. Può sconfiggere Renzi, come Trump ha sconfitto Clinton.
Tra i due o tre mostri che governano o aspirano a governare noi rifiutiamo di scegliere, scegliamo il rifiuto. Non vogliamo decidere la foggia delle nostre catene, perché vogliamo spezzarle.
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali, le occupazioni e riappropriazioni dal basso degli spazi di vita.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

Federazione Anarchica Torinese

sabato 26 novembre 2016

Civiltà, tecnologia e consumismo

Questa nostra era postmoderna trova la sua espressione fondamentale nel consumismo e nella tecnologia, che si uniscono nella stupefacente forza del mass media. Immagini e parole semplici e accattivanti ci fanno dimenticare di essere proprio loro, quelle immagini accattivanti e quelle semplici parole, a tenere insieme questa orrenda dominazione. Anche i più grandi fallimenti della società possono essere utilizzati per narcotizzare i suoi sudditi. È il caso della violenza, un’eterna fonte di distrazione. Siamo titillati dalla rappresentazione di ciò che ci minaccia, come se la noia fosse un tormento peggiore della paura.
La natura, o meglio quel che ne è rimasto, ci ricorda amaramente quanto depravata, gelida e ingannevole sia la nostra vita moderna. La morte del mondo naturale e la penetrazione della tecnologia in ogni stilla di vita, o in quel che ne resta, procede con impegno sempre maggiore. Facebook , giochetti, cyber tutto, realtà virtuale, Intelligenza Artificiale, sempre più oltre, fino a giungere alla Vita Artificiale, l’ultimo traguardo della scienza postmoderna.
Nel frattempo la nostra postindustriale età del computer ha avuto come risultato pratico quello di renderci più che mai appendici della macchina. Le statistiche rilevano che ogni anno vengono perpetrati un milione di crimini contro la persona che hanno per teatro proprio quei luoghi di lavoro sempre più sotto sorveglianza informatica, e che negli ultimi anni il numero dei dirigenti uccisi è raddoppiato.
Questa macchina immonda si aspetta, nella sua arroganza, che le sue vittime continueranno ad accontentarsi di votare, riciclare e fingere che andrà tutto bene. Per citare Debord:<”Ci si aspetta che lo spettatore semplicemente non sappia nulla e non meriti nulla".
Civiltà, tecnologia e un ordinamento sociale spaccato sono gli elementi di un tutt’uno indissolubile, un viaggio verso la morte intimamente ostile al miglioramento qualitativo. Le nostre risposte devono dunque essere qualitative, e non quantitative come lo sono i palliativi che oggi perpetuano ciò a cui dobbiamo porre fine.

giovedì 24 novembre 2016

80 anni di Cross Road Blues di Robert Johnson

Cross Road Blues (più comunemente nota come Crossroads) è una canzone blues che quest'anno compie 80 anni. È stata scritta e registrata nel 1936 da quello che è considerato il più grande artista blues di tutti i termpi: Robert Johnson. Johnson ha eseguito il brano da solista con la sua chitarra slide e acustica nel tipico stile del Delta blues. La canzone fa parte parte della mitologia del musicista, come un riferimento al luogo in cui si suppone che abbia venduto la sua anima al diavolo in cambio per il suo talento musicale, anche se i testi non contengono riferimenti specifici.
Poco si sa della vita di Johnson e la sua carriera musicale, anche se le sue registrazioni sono ben documentate. Nel mese di ottobre 1936, Johnson fece un provino per il proprietario di un negozio di musica e il talent scout Henry Columbus Speir ia Jackson, nel Mississippi; Speir trasmise le informazioni per il contatto di Johnson a Ernie Oertle, che era un rappresentante dell'ARC Records. Dopo un secondo provino, Oertle organizza il viaggio per Johnson a San Antonio, nel Texas, per una sessione di registrazione. Johnson ha registrato 22 canzoni per l'ARC Records nell'arco di tre giorni dal 23 al 27 novembre 1936. Durante la prima sessione, ha registrato i sui più importanti brani.
Una seconda e la terza data di registrazione ha avuto luogo sempre a San Antonio dopo una pausa di due giorni, con materiali che riflettono lo stile country blues di artisti come Charley Patton e Son House, che ha influenzato Johnson in gioventù.
Cross Road Blues è stata registrata durante la terza sessione di Johnson a San Antonio, il Venerdì 27 novembre 1936. Questo, come tutti gli altri brani, fu registrato in uno studio improvvisato nella camera 414 del Gunter Hotel, dove Johnson suonava seduto su una sedia in un angolo della stanza e rivolto verso la parete (si dice per migliorare l'acustica) e con delle coperte che coprivano le finestre per non far passare i rumori provenienti dalla strada..
L'ARC Records fece uscire Cross Road Blues nel maggio 1937 su disco a 78 giri; del singolo, con il suo lato “B” Ramblin' on My Mind, sono state vendute poche copie.
Nella storia di Cross Road Blues c'è da annotare un fatto curioso: nei primi mesi del 1966, pur facendo parte dei Bluesbreakers di John Mayall, Eric Clapton mise insieme, per una session di registrazione in studio, un gruppo chiamato Eric Clapton and the Powerhouse. Il produttore dell'Elektra Records, Joe Boyd, mise insieme per il progetto Steve Winwood alla voce, Clapton alla chitarra, Jack Bruce al basso, Paul Jones all'armonica, Ben Palmer al pianoforte, e Pete York alla batteria. Crapton e Boyd hanno discusso tanto per la registrazione di una canzone; Clapton voleva registrare “Crosscut Saw” di Albert King, ma Boyd preferiva adattare un vecchio country blues. La loro attenzione si rivolse alle canzoni di Robert Johnson e Boyd propose "Cross Roads Blus", ma Clapton scelse "Traveling Riverside Blues”. Dopo questa session Clapton riprese a suonare con Mayall e i suoi Bluesbreakers.
Poco tempo dopo, nel luglio dello stesso anno, Clapton fondò i Cream con Jack Bruce e Ginger Backer, e il nostro brano “Cross Roads Blus” si riprese la rivincita sul chitarrista, diventando parte integrante del repertorio dei gruppo. I Cream registrarono la canzone, rielaborandola e chiamandola semplicemente Crossroads, il 28 novembre 1966 per il programma radiofonico Guitar Club trasmesso dalla BBC.
Molti dei concerti della band inglese iniziavano con Crossroads, ed anche dopo il loro scioglimento Clapton ha sempre eseguito la canzone di Robert Johnson.
Ma non finisce qui. Clapton ha utilizzato anche il nome del brano per il Centro Crossroads, un centro di riabilitazione dalla droga da lui fondato, e per i vari Crossroads Guitar Festival organizzati a scopo benefico per il centro.



Crossroad Blues

Ah went to the crossroad fell down on mah knecs.
Ah went to the crossroad fell down on mah knees.

Asked the Lord above «Have mercy, now save poor Bob, if you please».
Yeeoo, standin' at the crossroad tried to flag a ride
ooo ooee eeee. Ah tried to flag a ride.

Didn't nobody seem to know me, babe, everybody pass me by.
Standin' at the crossroad, baby, risin' sun goin' down.
Standin' at the crossroad, baby, eee eee eee, risin' sun goin' down.
Ah believe to mah soul, now po' Bob is sinkin' down.
You can run, you can run teli mah friend Willie Brown
'at Ah got the crossroad blues this mornin',

Lord, babe, Ah'm sinkin' down.
And Ah went to the crossroad, mama,
Ah lookes east and west.
Ah went to the crossroad, baby,
Ah looked east and west.
Lord, Ah didn't have no sweet woman ooh-well, babe in mah distress.
Crossroad Blues

Sono arrivato al crocevia sono caduto in ginocchio.
Sono arrivato al crocevia e sono caduto in ginocchio.
Ho chiesto al Signore lassù «Abbi pietà, ora salva il povero Bob, per piacere».
Sììì, lì al crocevia mi sono sbracciato per un passaggio
oooo ooee eeee. Mi sono sbracciato per un passaggio.
Ma pare proprio che nessuno mi fili, cara, hanno tirato tutti dritto.
Lì al crocevia, baby, mentre il sole tramontava.

Lì al crocevia, baby, eee eee eee, mentre il sole tramontava.
Io sono pronto a giurare sull'anima mia che ora il povero Bob sta andando a fondo.
Puoi correre, puoi correre e dire al mio amico Willie Brown
che stamani ho quella malinconia che mi prende al crocevia,
Signore, cara, sto andando a fondo.
E sono arrivato al crocevia, cara,
ho guardato ad est e ad ovest.
Sono arrivato al crocevia, baby,
ho guardato ad est e ad ovest.
Signore, non ho nessuna dolce donna con me, ooh, beh, cara, nella mia angoscia.





sabato 19 novembre 2016

Il fiocco anarchico alla lavallière


Quello che vedete nell'immagine è il compositore Reynaldo Hahn, fotografato da Nadar, con un fiocco lavallière al collo, una sorta di cravatta anticonvenzionale e antiborghese che ha una storia molto interessante. Solitamente, nell'iconografia tradizionale ottocentesca, la troviamo al collo degli artisti. In effetti la indossavano anche gli artisti, dal momento che la grandissima parte di questi era anarchica, ma nessun libro a marchio Siae lo dice. La lavallière, a partire dalla prima metà dell'Ottocento, la indossavano anche i poeti, i letterati, i musicisti, gli intellettuali in generale, come segno distintivo del loro impegno politico a favore del popolo oppresso. Voi direte: «ma erano tutti anarchici»? Probabilmente vi stupireste di più se facessimo anche i nomi dei personaggi che mai al mondo avreste pensato che lo fossero, ma la lista è troppo lunga. Come dicevamo, i libri censurano ogni riferimento all'anarchia, e interi capitoli dovrebbero essere riscritti o addirittura ancora scritti. Comunque no, non erano tutti anarchici, ma un buon 80% sì, soprattutto tra il 1850 e i primi del Novecento.
Inizialmente, come dicevamo, la lavallière era un segno distintivo che rompeva fortemente con la tradizione borghese, e infatti la borghesia e i militari dovevano osservare la ferrea regola di cravatte molto strette al collo e rigide, ferme, bloccate. La lavallière invece aveva come caratteristica anche quella di possedere due lembi che, penzolando, svolazzavano col vento: un gran bel segno evidente di libertà, come lo fu per i capelli arruffati di quei poeti chiamati appunto «gli scapigliati», ma questa è un'altra storia. Andiamo avanti.
Se all'inizio la lavallière poteva anche essere variopinta o a pois o a strisce, dopo l'esperienza della Comune di Parigi, in cui le istanze anarchiche presero forma concreta in un'autogestione del popolo, la lavallière si fece prevalentemente nera e con un significato molto profondo. Qual è questo significato?
Quando le truppe del governo regolare francese si unirono a quelle nemiche prussiane per fare strage degli anarchici e della loro splendida autogestione parigina e marsigliese, la lavallière divenne simbolicamente un fiocco ricavato da un lembo della bandiera nera anarchica, la stessa bandiera che sventolava sulle barricate della Comune. La lavallière rappresenta quindi anche il lutto profondo nei confronti delle decine di migliaia di anarchici (e non) che vennero ammazzati nel 1871 a Parigi, a Marsiglia e nelle altre città di Francia in cui vi era una Comune Anarchica e di cui i libri non parlano.
Solo per praticità utilizziamo qui le parole al maschile, in realtà l'anarchismo, in fatto di diritti, non fa distinzione neppure di genere, perciò quando ad esempio parliamo di artisti ci riferiamo anche alle artiste. E non è un caso che la lavallière venne adottata anche da molte donne come segno di libertà e di quell'emancipazione che soltanto l'anarchia poteva garantire già nell'Ottocento, concretizzatasi effettivamente nella Comune.
Poi avvenne il colpo di mano dello Stato. La lavallière era diventata un simbolo anarchico molto forte anche se in giro se ne vedevano di colorate. Che fare? Molto semplice. C'è un modo di dire che suona più o meno così: quando non puoi eliminare il nemico, alleati con lui. E questa strategia l'abbiamo vista adottare parecchie volte dagli Stati contro il popolo. La lavallière divenne allora una moda istituzionalizzata, fino a vederla nelle scuole sul grembiule dei ragazzini. In questo modo, a lungo andare, la simbologia anarchica iniziale venne stemperata, fino a farla dimenticare del tutto. Noi oggi abbiamo fatto in modo di riportarla alla memoria. 

lunedì 14 novembre 2016

I Guarani hanno deciso: ammazzateci e seppelliteci qui

Contro la decisione della “Giustizia” Federale e del governo brasiliano che vogliono occupare tutte le terre del popolo Guarani Kaiowá, è stato scritto il seguente appello tanto tragico quanto dignitoso da parte di queste persone pacifiche e native che vivono sulle rive del fiume Hovy. L'appello può essere interpretato come un'azione suicida collettiva (ricordiamo anche i Mapuche), o come un invito per l'esercito a sparare contro queste persone.

“Noi, 50 uomini, 50 donne, 70 bambini Guarani Kaiowá del Brasile, esponiamo qui la nostra situazione e la nostra decisione definitiva di fronte all'ordine di espulsione della Giustizia Federale, dossier nº 00000 32-87. 2012.4.03.6006 del 29/09/2012. Noi siamo stati avvisati che saremmo stati attaccati ed espulsi dalle rive del fiume da parte della pulita Giustizia Federale di Navirai. Così, è evidente che l'azione stessa della Giustizia del Brasile genera e aumenta le violenze contro di noi, violando il nostro diritto di sopravvivere sulle nostre terre ancestrali, le rive del fiume Hovy. E' chiaro che la decisione della Giustizia Federale fa parte del genocidio storico dei popoli indigeni. Noi proclamiamo al Governo e alla Giustizia Federale che abbiamo perduto la speranza di sopravvivere degnamente e senza violenza, e che noi non crediamo più nella loro Giustizia. A chi andremo a denunciare il genocidio praticato contro di noi? A quelli che lo alimentano?
Noi abbiamo valutato la nostra situazione e abbiamo concluso che, a breve, moriremo. Noi non abbiamo e non avremo la possibilità di vivere degnamente né sulla riva dell'Hovy, né lontano da qui. Siamo accampati a 50 metri dal fiume, e quattro dei nostri sono già stati uccisi, due per suicidio indotto, due sotto la tortura degli uomini armati al servizio dei grandi proprietari. Viviamo su queste rive da più di un anno, senza protezione, isolati e accerchiati da questi uccisori; noi mangiamo una sola volta al giorno; tutto questo lo subiamo per ritrovare la nostra terra, al centro della quale c'è il cimitero dei nostri antenati, parenti, anziani, padri, nonne. Fino ad oggi abbiamo resistito, ma tutti insieme, a questo punto, abbiamo deciso di non andare via da qui. Noi allora vogliamo essere uccisi e seppelliti qui. Abbiamo già sofferto molto, veniamo massacrati e moriamo a un ritmo rapido. Non andremo via da qui. Abbiamo deciso di lasciarci uccidere qui, collettivamente. Domandiamo una volta per tutte alla Giustizia Federale di decretare il nostro sterminio totale, di far entrare dei trattori per scavare una fossa e di seppellirci tutti insieme. Noi non abbiamo altra opzione, questa è l'ultima decisione unanime di noi, i Guaranti”.




domenica 13 novembre 2016

La Chiesa sfrutta e opprime l’uomo

Del sentimento religioso si fa strumento la Chiesa per opprimere l’uomo; le Chiese hanno bisogno del dogma per elevare sull'umanità quella potente macchina di oppressione, che, affiancata sempre dallo Stato, ci dà come risultato la dominazione e lo sfruttamento dell'uomo su l'uomo.
Che l'idea d'un Dio abbia servito allo scopo di mantenimento di privilegi, di autorità e di proprietà, è fatto storicamente provato.
Che cosa è stato, e che cosa è Dio nel campo sociale?
È stato ed è «l'essere» in nome del quale si eressero sette parassitarie, a sostegno di tutte le altre classi di tiranni e di parassiti!
È stato, ed è il fantasma, in nome ed in onore del quale furono sprecate una quantità di energie umane, erigendo a lui miliardi di campanili, di cupole d'oro, di altari scintillanti... mentre a fianco di queste immense ricchezze, tanti e tanti uomini, restavano e restano senza pane e senza tetto!
È stato, ed è, questo Dio, il fantasma per cui una gran parte dell'attività umana si perde nella contemplazione, nella preghiera, nelle opere inutili... onoranti questo supposto creatore dell'universo; e mantenenti un numero smisurato di «impiegati delle fedi», che fra tutte, occupano attualmente qualche milione di parassiti in tutto il mondo!
La Chiesa trasforma i suoi praticanti in fanatici, intolleranti, disumani verso chi non crede, o crede in un altro Dio. Allora questi esseri comporranno nel Medio Evo i cortei che cantano alleluja! attorno al rogo su cui la Chiesa fa ardere vivo «l'eretico, la strega, l'indemoniato, la posseduta».
La Chiesa farà quindi dei suoi credenti il suo esercito di dominazione: se ne varrà per mantenere le tenebre nel mondo; per condannare la vita, l'amore, la bellezza, il pensiero e il lavoro.
Il lavoro, infatti, è una pena ed è un castigo, secondo la Bibbia. Il castigo imposto all'uomo, allorché là, nel famoso paradiso terrestre, dove tutto era luce, colore, armonia, riposo, l'uomo osò disubbidire a Dio: l'uomo volle indagare; l'uomo volle sapere mangiando il frutto dell'albero proibito.
Il pensiero, dunque, è un peccato. Adamo ed Eva dovevano ignorare: vivere ravvolti nelle tenebre più profonde.
«Lo stato di innocenza» di cui vi parlano i preti, è lo stato di ignoranza: meglio ancora: di imbecillità. L'uomo scemo... ecco l'ideale dell'uomo secondo Dio!
La Bibbia è diabolicamente... simbolica! ...Quando essa fa intervenire Dio, ad impedire il lavoro nella «Torre di Babele» colla confusione delle lingue, essa vuol significare che l'uomo non deve innalzarsi; non deve elevare la fronte in alto, se non ad occhi chiusi, unicamente per pregare: non mai per investigare i fenomeni della natura e della vita.
Si comprende così la condanna di Galileo Galilei, che l'universo guarda come un medico guarda il corpo del malato; come un geologo guarda alle stratificazioni della terra; come un fisico esamina la materia.
La religione è la condanna del progresso: Il progresso, essa dice, deve solo cercarsi «per grazia e per dono divino».
«Tu, uomo, lavorerai con gran sudore» dice il vecchio testamento.
E allora è naturale... è naturale allora che gli unti dal signore non lavorino affatto. Ma debbono invece lavorare gli uomini, i condannati. E se essi sapranno espiare con una vita orrida di miserie, il loro peccato, avranno di certo il Paradiso... Ma se, invece, si ribelleranno... saranno, dopo morti, precipitati fra le fiamme dell'inferno! Il mondo così concepito è una notte tenebrosa.
Conventi; chiese; inginocchiatoi; preghiere; ignoranza grassa e beata! Miracoli; paure; streghe e terribili diavoli dappertutto... sempre pronti a circondare l'uomo, a seguirlo... dalla nascita alla morte, per... «indurlo in tentazione!». Ma il diavolo che contende l'anima dell'uomo a Dio, altro non è che la ragione: la ragione che esige e vuole i suoi diritti di critica, e di libera indagine. Altro non è che la ribellione umana contro tutto quanto è tenebre ed oppressione. Ribellione contro tutte le Chiese.
Si intensifichi intanto la guerra alla religione, alle religioni; e non si speri mai che vi sia uno Stato che ci aiuti in questa umanissima opera di demolizione.
Lo Stato sarà sempre a fianco della Chiesa, come questa sarà al fianco di lui, per la reazione spietata contro i progressi indipendenti del pensiero; per la reazione selvaggia contro la rivoluzione.

giovedì 10 novembre 2016

Antimilitarismo anarchico

Una tematica sempre attuale e ricorrente, proporzionale purtroppo a tutte le volte che l’uomo ha considerato “l’altro” un nemico da abbattere, in nome di un confine, di una bandiera, della retorica della razza o della nazione. Lo Stato, o l’autorità in generale, ha opportunisticamente ed ossessivamente eretto sempre un muro, una gabbia, un carcere, tra un uomo ed un suo “simile”. La convinzione della natura intrinsecamente malvagia dell’uomo, lupo verso l’altro, è stata ampiamente confutata da una ricca corrente filosofica, antropologica e sociologica capace di svelare la strumentalità di tale concezione a solo discapito del potere, come garanzie di controllo e stabilità raggiunte, inducendo ed imponendo nella psiche dell’uomo il terrore sociale, al punto tale da generare incessantemente divisioni, leggi, guerre e paure.
Tutti gli anarchici non possono che essere antimilitaristi, perché tutti gli anarchici rifiutano l’autoritarismo, la gerarchia militare e l’uso degli eserciti come strumento di repressione o di sostegno al capitale. Tutti gli anarchici odiano la violenza ed auspicano una società  pacifica ed egualitaria.
Con il termine Antimilitarismo si cerca di delineare e definire un movimento sociale, e al contempo un ideale, che si pone in netta opposizione alla guerra e alle sue istituzioni militari, e si schiera fortemente contro le pratiche di esaltazione e diffusione dello spirito militaristico.
Gli eserciti “moderni” nascono accanto alla nascita, ma soprattutto all’affermazione delle Entità Statali, con il compito della repressione tramite l’utilizzo della forza. In sostanza il compito principale degli eserciti è sempre storicamente stato quello di difendere le classi dominanti e i loro interessi, arrivando con l’affermarsi del Capitalismo a livello nazionale e mondiale a difendere sempre più l’interesse del capitale, rimanendo di fatto assoggettati ad esso.
Bisogna cominciare a muoversi seriamente per la costruzione di società non più militarizzate, dove perda di senso l’esistenza stessa degli eserciti e dei corpi paramilitari. Il bisogno della difesa è innanzitutto bisogno di difesa dalle logiche di guerra e da chi le sostiene e le organizza. Basta dunque con l’esistenza degli eserciti, di ogni base militare e di caserme su tutti i territori. La lotta contro le basi militari non può limitarsi a non volerle dalle proprie parti, per tutti i problemi di presenza territoriale che comportano, bensì deve chiaramente esprimersi per il ripudio della loro esistenza da qualsiasi parte. Bisogna inoltre cominciare a lottare per la fine della ricerca tecnologica e della costruzione di armi. La richiesta forte di riconversione delle industrie di armi in luoghi di fabbricazione e costruzione di cose utili a vivere meglio e in pace è sempre più urgente. Se il pacifismo vuole veramente essere coerente e diventare efficiente, deve così collegarsi a logiche e a pratiche generali di emancipazione e di ricerca di nuovi modelli di vita e di convivenza, fondati sulla solidarietà, su relazioni reciproche e condivise e avulsi da logiche di sopraffazione, di egemonia e di dominio.

venerdì 4 novembre 2016

Niente pace per chi fa guerra!

Il 4 novembre è la festa delle forze armate. Viene celebrata nel giorno della “vittoria” nella prima guerra mondiale, un immane massacro per spostare un confine.
Il 4 novembre è la festa degli assassini. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa, bombarda, in eroe.
Cent’anni fa, a rischio della vita, disertarono a migliaia la guerra, consapevoli che le frontiere tra gli Stati demarcano il territorio di chi governa, ma non hanno nessun significato per chi abita uno o l’altro versante di una montagna, l’una o l’altra riva di un fiume, dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno ricchi sul loro lavoro.
Cent’anni dopo, quelle trincee impastate di sangue, sudore, fango e rabbia la retorica patriottica, il garrire di bandiere e le parate militari nascondono i massacri, i pescecani che si arricchivano, le “decimazioni”, gli stupri di massa.
In questi anni lungo i confini d’Italia si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi fugge conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
In Iraq battaglioni d’élite dell’esercito tricolore partecipano all’assedio di Mosul, per cacciare i jihadisti dello Stato Islamico.
Sono in Iraq da mesi per difendere gli interessi della Trevi, la ditta italiana che si è aggiudicata i lavori alla diga di Mosul, uno snodo strategico per chi intende fare buoni affari nel paese.
I governi alleati dell’Italia hanno finanziato e protetto i soldati della jihad prima in Afganistan, poi in Siria. A Mosul si sta consumando in nostro nome un altro immane massacro di uomini, donne e bambini, pedine di un gioco feroce di potenza.
Ad Aleppo si muore da anni nel silenzio fragoroso dei più. Le lacrime ipocrite per i bimbi morti non hanno fermato le bombe.
In Rojava, dove dal 2012 la popolazione ha deciso di attuare un percorso di autonomia politica, di solidarietà e di mutuo appoggio, nella cornice del confederalismo democratico, il governo turco bombarda le città nel silenzio fragoroso di chi, proprio sulle milizie maschili e femminili della regione a maggioranza curda della Siria, ha fatto leva per fermare l’avanzata dell’Isis. La rivoluzione democratica in Rojava apre una crepa nelle logiche di potere che caratterizzano le grandi potenze che si contendono il controllo del Mediterraneo all’Eufrate.
Sei conflitti armati muoiono più civili che militari. I soldati sono professionisti super addestrati, strumenti costosi e preziosi da preservare, mentre le persone senza divisa diventano obiettivi bellici di primaria importanza per suscitare il terrore, per piegare la resistenza delle popolazioni da sottomettere, per realizzare i propri obiettivi di dominio. La propaganda di guerra all’Isis marchia come terroristi i militari della jihad, ma usa gli stessi mezzi. Solo la narrazione è diversa. Torture, rapimenti extragiudiziali, detenzioni senza processo, sono normali ovunque. L’Isis ama di più lo spettacolo e lo usa per dimostrare la propria forza e attrarre a se nuovi adepti.
Al riparo delle loro basi, a dieci minuti di auto dalle loro case, i piloti dei droni, osservano in uno schermo le possibili vittime, le puntano e le colpiscono come in un videogioco. La guerra virtuale diventa reale, ma accresce la distante onnipotenza di chi dispensa morte da una base lontana migliaia di chilometri dal sangue, dalle feci, dagli arti straziati, dall’inenarrabile dolore di chi vede morire i propri figli, amici, genitori.
Questi giocattoli letali costano molto meno di un bombardiere. Un Predator armato costa 4 milioni di dollari contro i 137 di un F35.
L’Italia è in guerra da decenni ma la chiama pace.
È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
La guerra diventa filantropia planetaria, le bombe mezzi di soccorso.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano uomini, donne e bambini.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista.
Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.
Sono cinque le aziende piemontesi, leader nel settore: Alenia Aermacchi, Thales Alenia Space, Avio Aero, Selex Es, Microtecnica Actuation Systems / UTC. 280 SMEs.
L’industria di guerra è un buon business, che non va mai in crisi. L’industria bellica italiana fa affari con chiunque. I soldi non puzzano di sangue e il made in Italy va alla grande.
L’Europa ha pagato miliardi il governo turco perché trattenesse i profughi che lo scorso anno premevano alle frontiere chiuse. La verità cruda ma banale è che in Siria, in Iraq, in Afganistan, in Libia si combatte con armi che spesso sono costruite a due passi dalle nostre case.
A Torino e Caselle c’è l’Alenia, la sua “missione” è fare aerei militari. Nello stabilimento di Caselle Torinese hanno costruito gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblati dall’Alenia.
Un business milionario. Un business di morte.
Lo Stato italiano investe ogni ora due milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri armati. Gli altri servono per le missioni militari all’estero, per il mantenimento del militari e delle strutture. Si tratta, per il 2016, di 48 milioni di euro al giorno. Il governo nei prossimi anni ha deciso di spenderne ancora di più. Alla faccia di chi si ammala e muore perché non riesce ad accedere a esami specialistici e cure mediche.
Nel nuovo Documento programmatico pluriennale della Difesa – 2016-2018 – sono previsti: 13,36 miliardi di spese nel 2016 (carabinieri esclusi), l’1,3 per cento in più rispetto all’anno scorso. Cifra che sale a 17,7 miliardi (contro i 17,5 del 2015) se si considerano i finanziamenti del ministero dell’Economia e delle Finanze alle missioni militari (1,27 miliardi, contro gli 1,25 miliardi dell’anno precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo Economico ai programmi di riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50).
Finanziamenti, quelli del Mise, che anche quest’anno garantiscono alla Difesa una continuità di budget per l’acquisto di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i 4,7 del 2015). Le spese maggiori per quest’anno riguardano i cacciabombardieri Eurofighter (677 milioni), gli F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Ppa (472 milioni), le fregate Fremm (389 milioni), gli elicotteri Nh-90 (289 milioni), il programma di digitalizzazione dell’Esercito Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi elicotteri Ch-47f (155 milioni), i caccia M-346 (125 milioni), i sommergibili U-212 (113 milioni).
La vocazione umanitaria delle forze armate italiane ha fame di nuovi costosissimi giocattoli.
In tutto il paese ci sono aeroporti militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei droni.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia.
La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni sono maturate esperienze che provano a saldare il rifiuto della guerra con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi, gli antimilitaristi sardi che lottano contro poligoni ed esercitazioni. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono ricette universali, c’è chi non accetta di vivere da schiavo, c’è chi si oppone alla militarizzazione delle periferie, ai rastrellamenti, alle deportazioni.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Contro tutti gli eserciti, contro tutte le guerre!

giovedì 3 novembre 2016

Che il 4 novembre diventi una giornata in omaggio a tutti i disertori (2)


Che il 4 novembre diventi una giornata in omaggio a tutti i disertori

Bruno Misefari nacque a Palazzi (Reggio Calabria). Aderì assai giovane al Partito Socialista e, tra il 1910 e il 1912, all’anarchismo. Nel 1911 fu arrestato per avere diffuso un manifestino contro la guerra di Libia e nel 1912 fu condannato a due mesi e mezzo di carcere. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu assegnato al 40° Reggimento di fanteria a Benevento. Lo si teneva relegato in caserma e non lo si inviava al fronte per paura che le sue idee contagiassero gli altri commilitoni, da cui era molto stimato. Nel 1916 disertò e nel 1917 raggiunse la Svizzera. Nel 1918 fu arrestato dalla polizia svizzera, con numerosi altri compagni , col pretesto di un complotto inesistente, e restò in carcere per sette mesi. Espulso dalla Svizzera, tornò in Italia dove fu assai attivo durante il biennio rosso. Divenuto ingegnere, le sue opere di notevole utilità sociale furono sistematicamente ostacolate dal regime fascista. Nel 1931 fu inviato al confino a Ponza e poi nuovamente in carcere, dove sposò la sua compagna Pia Zanolli, a cui fu legato da un profondo affetto sino alla sua morte, nel 1936, per un tumore al cervello.
Di seguito un suo scritto tratto dal suo libro: Diario di un disertore.
Sì, sono un traditore della patria. Ho tradito le leggi statali, ho tradito gli interessi dell’Alta Banca Internazionale, trafficante sulla guerra per l’aumento dei suoi dividendi fantastici. Ho tradito le leggi di odio, di morte, di corruzione, di vergogna: leggi antisociali, antiumane, antinaturali. Le ho tradite per non tradire la grande e fondamentale legge dell’amore universale, la solidarietà umana, che è l’unica legge comprensibile, perché umana, sociale e naturale. Mi sono sottratto alla morte di stato per dare la morte allo stato. È una lotta ardua poiché sono solo e debole, e lo stato ha tutto con sé ed è forte. Sono un traditore ma non un vile. Chi è vile non insorge contro lo stato. Guai per la vita della specie se gli individui disobbediscono alle leggi sociali e umane della natura per obbedire a quelle dei poteri che congiurano, insidiano, uccidono la vita della specie. Senza questa umanissima rivolta alle leggi di odio e di morte, la specie perirebbe fatalmente. Quando la giustizia non sarà come oggi la druda infame delle tirannidi, quando l’amore non sarà deriso, quando l’oro non sarà Dio, quando la libertà sarà religione e unica nobiltà il lavoro, solo allora il mio rifiuto alla guerra sarà benedetto perché ho lottato alla salvezza di tutti, per la conservazione della vita organica e morale della specie. Imbecilli della mia epoca, chinate la fronte. E voi giovani di anni e di fede inalberate il vessillo della rivolta, rivendicate il diritto alla vita che è pane, amore e libertà! Distruggete tutte le forze antinaturali, antisociali e anti umane. È questione di vita o di morte. O vivono loro o vivete voi. Non esistono accomodamenti. Tra voi e loro esiste un abisso. Chi vuol mettervi un ponte vi precipita dentro. Viva l’umanità e muoia la patria, cioè muoiano il capitale e lo stato!”