..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 26 marzo 2016

Il movimento Marge: L’affermazione del desiderio per una società liberata e diversa

La nostra concezione dell'azione è che i rivoluzionari non devono rappresentare una qualunque direzione politica, ma costituire dei gruppi d'azione composti da tutti gli strati e categorie sociali della società, riuniti sulla base di un accordo profondo, impegnati a lottare e a contribuire allo sviluppo delle lotte. A differenza dei gruppi politici non proponiamo un progetto di società. Pensiamo invece che nessuno può parlare per e in nome di nessuno, che ognuno deve essere il padrone del proprio discorso e dei propri desideri, che nessuno ha bisogno di essere "avanguardato", perché questo fa già pensare ad un carcere, alle sentinelle e al filo spinato.
Il rivoluzionario non deve essere un dirigente dell'azione, ma un portavoce. Prendere l'iniziativa per creare delle situazioni, questa deve essere la sua pratica. Per questo l'azione dei gruppi MARGE sarà quella di suscitare, sostenere, contribuire allo sviluppo delle lotte, qui ed oggi. Il nostro progetto politico è di marginalizzare la società, cioè rivoluzionarla, sconvolgere tutti i codici sociali; il movimento MARGE è proprio questo, una grande impresa di s-codicizzazione e di s-costruzione.
La fondazione del movimento MARGE è l'iniziativa di una minoranza che agisce, si auto-organizza, ma rifiuta qualunque tipo di centralismo, anche democratico, nel nome della sua convinzione profonda nella rivolta individuale come potenzialità rivoluzionaria.
Ma allora, come contribuire alla rinascita del movimento rivoluzionario in Francia e all'estero? Questa è la domanda che ci siamo posti.
Non è più necessario dimostrare perché l'azione rivoluzionaria individuale è impossibile. Ogni lotta rivoluzionaria il cui obiettivo sia la trasformazione della società, passa attraverso l'unione delle forze rivoluzionarie, è cioè l'estensione di questa unione. Questo è il motivo per cui qualunque attività rivoluzionaria presuppone una certa forma di organizzazione. Non è quindi questo principio che rifiutiamo, ma quello, della direzione politica rivoluzionaria.
La fondazione del movimento MARGE è il risultato di questa analisi e la sua volontà è quella di riunire tutti i ribelli, tutti i marginali ed emarginati, tutti i rivoluzionari della società nella molteplicità dei gruppi MARGE.
Perciò la nostra pratica vuole essere principalmente affermativa: affermazione del desiderio, desiderio di una società liberata e diversa. Non siamo qui per criticare la società capital-borghese.
Non la riconosciamo. Criticarla sarebbe già riconoscerla, cioè ammetterla, mentre siamo qui per combatterla.
Una pratica di contestazione è più forte quando, invece di cercare nella critica negativa la contestazione di ciò che esiste, negandolo, essa afferma e realizza un altro modo di vivere: questo è cambiare la vita. Dobbiamo già vivere diversamente e non aspettare all'infinito "il grande giorno” per iniziare. Praticando un lavoro da formiche riusciremo a distruggere i fondamenti di questa società.
I segni della rivoluzione li troviamo nelle lotte dei gruppi detti di "interesse", quello delle donne, degli antimilitaristi, degli ex carcerati, dei delinquenti che si politicizzano, dei giovani drogati, degli omosessuali per il loro diritto al piacere, dei lavoratori emigrati .di tutti i ribelli o rivoluzionari che rifiutano le costrizioni dell'ideologia, dell'organizzazione centrista, del comitato centrale, dell'ufficio politico, di. tatti coloro che lottano contro il potere ovunque esso sia e qualunque forma;esso assuma, di tutti coloro, insomma, che non accettano che si parli in loro nome e che si decida per loro.
Questi segni sono per noi premonitori, ci illuminano e ci confermano nella nostra lotta che non potrà che essere totale. Lanciamo quindi un appello per la costruzione di gruppi MARGE sia in Francia che all'estero. Questo appello giunge nel momento stesso in cui la fascistizzazione dei regimi e il potere dei denaro si accentuano giorno dopo giorno e questo in tutti i paesi capitalistici. La nostra lotta è forse quella di una generazione perduta; per questo diciamo: marginali, tutti insieme alla stessa lotta per la rivoluzione universale e per la libertà!
 CE N'EST QU’UN DEBUT, CONTINUONS LE COMBAT
QUI ED ORA PRENDIAMO INIZIATIVE PER CREARE SITUAZIONI

Movimento MARGE

(Da MARGE n. 2 luglio-agosto 1974)


venerdì 25 marzo 2016

L’umanità solidale di Michail A. Bakunin

Sono un amante fanatico della libertà, la considero l’unica condizione nella quale l’intelligenza, la dignità e la felicità umana possono svilupparsi e crescere. Non sto parlando di quella libertà che è puramente formale, concessa, misurata e regolata dallo stato, una menzogna eterna che in realtà non rappresenta nient’altro che il privilegio di pochi fondato sulla schiavitù di tutti; neppure intendo quella libertà individualista, egoista, meschina e illusoria, vantata dalla scuola di J.J.Rousseau, come da tutte le altre scuole del liberalismo borghese, che considera il cosiddetto diritto di tutti, rappresentato dallo stato, come limite del diritto di ognuno, e ciò in effetti porta necessariamente e senza eccezioni alla riduzione a zero del diritto di ognuno.
No, io intendo la libertà che sia veramente degna di tale nome, la libertà che consiste nel pieno sviluppo delle potenze materiali intellettuali e morali le quali si trovano allo stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non riconosce altre restrizioni all’infuori di quelle che sono tracciate dalle leggi della nostra stessa natura: così, propriamente parlando, in guisa che non vi siano restrizioni, poiché tali leggi non ci sono imposte da qualche legislatore posto forse accanto o al di sopra di noi stessi; esse ci sono immanenti, inerenti e costituiscono la base stessa di tutto il nostro essere, tanto materiale che intellettuale e morale. Invece dunque di trovare in esse un limite, noi dobbiamo considerarle come le condizioni reali e come la ragione effettiva della nostra libertà.
Intendo quella libertà di ciascuno che, lontana dall’arrestarsi come di fronte ad un confine davanti alla libertà altrui, trovi al contrario in quella libertà la propria conferma ed estensione all’infinito; la libertà illimitata di ognuno nella libertà di tutti, libertà nella solidarietà, libertà nell’uguaglianza; libertà trionfante vittoriosa sulla forza bruta e sul principio di autorità che non ne è mai stato altro che l’espressione ideale della stessa forza bruta; la libertà che, dopo aver rovesciato tutti gli idoli del cielo e della terra, stabilirà e organizzerà un mondo nuovo, quello dell’umanità solidale, costruito sulle rovine di tutte le Chiese e di tutti gli Stati.

sabato 19 marzo 2016

19 marzo 1977: il circolo Cangaçeiros

 Il 19 marzo del 1977 viene occupata a Torino "la villa" sede del circolo del proletariato giovanile "Cangaçeiros" situata in Corso Orbassano 170-172 nel quartiere Santa Rita a Torino.
Il circolo "Cangaçeiros" sarà uno dei luoghi di sperimentazione politica, sociale e culturale più interessante di Torino in quell'anno. Già dall'inizio il nucleo che condusse l'occupazione era circa di 300 persone in gran parte provenienti dal quartiere, a cui poi si aggiunsero un sempre crescente numero di giovani proletari provenienti da Santa Rita, dalla vicina Mirafiori, ma anche da moltissime altre parti della città.
Vent'anni dopo alcuni ex appartenenti al Circolo del proletariato giovanile con sede alla villa scriveranno parlando di quell'esperienza: "I propositi di chi vuole sconvolgere i rapporti di potere fra le classi e fra i generi, di chi vuole modificare l'organizzazione della società nella fabbrica e nella famiglia, nel lavoro e nel quotidiano, nel tempo libero e nella produzione di cultura è di fatto antagonista al potere costituito, anche quando non usa la violenza e soprattutto quando agisce come movimento in grado di unire componenti e culture estremamente diverse, che fino ad allora non erano state in grado di lavorare insieme. La radicalità del movimento del 1977 era insita nei suoi propositi e nella sua capacità di aggregazione e non nell'uso della violenza. Politici e creativi, femministe ed operaisti uniti, anche se in un labile equilibrio, per modificare da subito parti delle loro vite, per sperimentare, per quanto possibile, la costruzione di una società alternativa; con l'obiettivo di non affidarsi solo all'orizzonte lontano della rivoluzione ma di realizzare da subito modi di vivere che rispondessero ai nostri bisogni."
Il circolo del proletariato nacque da un nucleo preesistente che inizialmente si riuniva alla sede del comitato di quartiere denominato "Centomila" per discutere dei bisogni reali della gente di zona e dell'esigenza di degli spazi di aggregazione demercificati e di identità collettiva. Dopo il superamento delle organizzazioni molti compagni fluirono in massa in questa esperienza attraverso un ritorno alla dimensione territoriale. Scrive un compagno a riguardo: "Io credo però che il Circolo Cangaçeiros sia nato con l'occupazione: è stato in quel momento e da quel momento che tante anime così diverse hanno trovato un posto dove stare insieme e confrontarsi totalmente sulla loro esistenza. Penso infatti che il nostro circolo abbia avuto un'esperienza particolare ed unica (per lo meno a Torino) ed abbia saputo vivere appieno quello che era lo spirito del '77."
I "Cangaçeiros" condussero un lavoro radicale sul quartiere, tanto di aggregazione quanto di creazione di momenti e spazi sociali dove tutte le persone della zona potessero sentirsi partecipi.
Il circolo fu sgomberato in concomitanza con lo sgombero di quello di Via dei Volsci a Roma, nel tentativo diffuso sui territori di criminalizzare autonomia operaia e le sue espressioni sul reale.
Molti furono i nodi che il circolo si trovò ad affrontare e a dover sciogliere in quegli anni. Tra questi la questione della violenza su cui una frase su tutte espressa da un militante di allora è esemplificativa: "Noi a quel punto non è che potessimo far finta, per cui era quasi automatico prendere posizione. Se si diceva: partiamo dalla nostra vita, la nostra vita era quella: nel momento in cui ammazzano Walter Rossi, cosa fai, ti metti a fare un concerto con la chitarrina?"

Ravachol a Parigi

Il primo maggio 1891, a Clichy scoppia un tafferuglio tra anarchici e gendarmi. Gli anarchici Decamps, Dardare e Levillé sono arrestati, pestati a sangue e condannati a severe pene detentive. Il Tribunale era presieduto dal consigliere Benoit, il procuratore generale si chiamava Bulot. Due nomi che gli anarchici non dimenticheranno.
Qualche mese dopo in un piccolo appartamento di Saint-Denis, un gruppetto di libertari ascolta attentamente un anarchico che viene dalla provincia e si fa chiamare Léon Léger. Sono presenti alla riunione i coniugi Chaumartin, il monello Simon, detto il Biscuit, il quale non sogna altro che risse, un certo Béala e la sua amica Mariette Soubert.
Leon Lèger fa presente che tocca a loro passare all’azione. Bisogna punire severamente Benoit e Bulot. Per l’anarchia il tempo dei discorsi è finito: la parola alla dinamite.
Leon Léger che altro non è che Ravachol ha preso una camera a Saint-Denis, sul quai de la Marine. Molto curato, non esce che in redingote (è il nome in lingua francese di un capo di abbigliamento fra il mantello ed il cappotto) e il cilindro. Ogni tanto lo si vede rientrare carico di pacchettini. Nella sua camera, ha installato un piccolo laboratorio dove accumula glicerina, acido nitrico e solforico. Ravachol incrementa considerevolmente le sue scorte organizzando il furto con scasso di un deposito di dinamite, a Soisy-sous-Etiolles.
L'armamentario dell'officina di Ravachol
Ben presto Ravachol è pronto con la sua prima bomba destinata al presidente Benoit.
L’11 marzo , al calar della notte, Ravachol, Chaumartin, Biscuit, Béala e Mariette Saubert lasciano Saint-Denis. Passando davanti al dazio, alla porta della Chapelle, Mariette nasconde la bomba sotto la veste; poi rende l’ordigno a Ravachol e torna indietro con Chaumartin. I tre rimasti proseguono il loro cammino fino al numero 136 del boulevard Saint-Germain. Il trio si ferma e Biscuit va in avanscoperta dove riscontra che l’unico pericolo vista l’ora è la portinaia del palazzo.
Ravachol vestito in modo elegante entra nel palazzo dalla porta principale con passo tranquillo, passando tocca il cilindro con le dita; la portinaia non interroga un signore così distinto. L’anarchico sale due piani, accende la miccia, posa l’ordigno in terra e raggiunge i complici. Si allontanano leggermente dal palazzo per non farsi notare ed aspettano l’esplosione. Non devono attendere molto: una detonazione secca e violenta fa tremare tutti i vetri del quartiere.
Dopo aver creduto per qualche istante, che l’esplosione fosse dovuta ad una fuga di gas, la polizia ha scoperto le tracce d’una bomba. La stampa è esplicita: è un attentato anarchico.

mercoledì 16 marzo 2016

L’autorità

L’autorità fece appena la sua apparizione sulla terra che fu subito l'esca della competizione universale. Autorità, governo, potere, Stato, sono parole diverse che designano la stessa cosa: ciascuno vi vede il mezzo di opprimere e di sfruttare i propri simili.
Assolutisti, dottrinari, demagoghi e socialisti rivolgono incessantemente i loro sguardi all'autorità come verso il loro unico polo. Tutti i partiti che aspirano al potere, senza eccezione, sono varietà dell'assolutismo e non vi sarà libertà per i cittadini, né ordine per le società né unione tra lavoratori finché la rinunzia all'autorità non avrà nel catechismo politico sostituito la fede nell'autorità.

Proudhon


venerdì 11 marzo 2016

Ravachol: infanzia e adolescenza

Francois Claudius Koeningstein (Ravachol era il nome della madre) nacque a Saint-Chamond nel dipartimento della Loira, il 14 ottobre 1859 da madre francese e padre olandese. Il padre laminatore alle ferriere di Isieux, la madre filatrice di seta in una filanda. Il padre maltratta la madre e poi l’abbandona nella miseria più nera, sola con quattro figli, il più giovane dei quali di tre mesi.
Ravachol trascorre gli anni dell’adolescenza in campagna lavorando prima come pastore, poi come apprendista tintore. A diciotto anni la lettura de "L’ebreo errante" di Eugène Sue e alcune conferenze di militanti anarchici e collettivisti gli fanno perdere la fede e prendere coscienza dei problemi sociali. Nello stesso periodo Francois inizia a leggere i periodici anarchici come “La Révolte” e “Le Père Peinard”, che completano con indicazioni più ideologicamente precise, la sua formazione e le sue convinzioni politiche. Ai periodi di lavoro si alternano per Ravachol periodi sempre più lunghi di disoccupazione. Per non morire di fame la famiglia si adatta ad andare a rubare galline nelle campagne intorno a Saint-Chamond. Oltre a suonare la fisarmonica nelle balere per arrotondare il salario a Saint-Etienne dove si era trasferito con tutta la famiglia, Ravachol inizia la sua carriera di fuorilegge: contrabbandiere d’alcol, falsario e rapinatore.
La scelta dell’anarchico è basata sulla teoria di Max Stirner: “Solo attraverso il crimine l’individuo potrà distruggere la potenza dello stato”.
La sua prima vittima è un certo Jean-Marie Rivollier personaggio strano appartenente alla comunità cattolica dei “beghini”, ricco e avaro che aveva radunato una grossa fortuna vivendo di elemosine.
Due mesi dopo Ravachol si inventa un nuovo fantasioso colpo, rubare i gioielli della baronessa di Rochetaillée sepolti con lei sei mesi prima nel cimitero di Saint-jean-Bonnefond.
Dopo la profanazione della tomba della baronessa Ravachol viene arrestato per l’uccisione a scopo di rapina, di un vecchio eremita ricchissimo, ma riesce a fuggire mentre i gendarmi lo portano in prigione, correndo per diversi chilometri con le manette ai polsi. Per far perdere le sue tracce Ravachol inscena un finto suicidio, getta nel fiume Rodano i suoi vestiti e lascia in riva al fiume un biglietto con sopra scritto: “Compagni non volendo servire di trastullo alla giustizia borghese e stanco di veder perseguitare dei bravi compagni per causa mia, prendo la decisione di farla finita. Mio solo rammarico è di non aver potuto mettere al sicuro il denaro dell’eremita affinché altri potessero usarlo nell’interesse della causa”.
Ravachol si trasferisce a Parigi con una nuova identità: Léon Léger, ma questa è un’altra storia. 

mercoledì 9 marzo 2016

L’utopia anarchica

Al mondo dei bisogni creato dal capitale è necessario opporre il mondo nuovo che ci portiamo dentro. Questo mondo si fonda sulla praticabilità realizzativa dei nostri più propri desideri. Al giorno d’oggi pensiamo che non sia più valido dire semplicisticamente che sarà un dato modo di produzione a definire concretamente una società anarco-comunista. L’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Vogliamo essere artisti e non semplici manovali-artigiani. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa, in una parola, in attività artistica. Noi vogliamo realizzare la vita come arte, così non avremo più alcuna necessità di recarci ai musei, al cinema, al teatro, ecc. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.
Una società anarchica è, di per se stessa, comunista, essa sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di potere seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.
É logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. Nella visione anarchica rivoluzionaria, il comunismo appare epurato da tutti i suoi più odiosi aspetti religioso-autoritari e viene quindi valorizzato criticamente nei suoi aspetti positivi, in quanto non mutila ne appiattisce la personalità dei singoli che comunitariamente lo mettono in pratica, ma, al contrario, il loro associarsi dà modo di esaltare qualitativamente le singole diversità.
In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.
La vita, nel suo movimento, non ha alcun fine preordinato, siamo noi a riempirla di senso nel momento stesso in cui cerchiamo di viverla compiutamente.

lunedì 7 marzo 2016

Storia di una donna: Felicia Bartolotta Impastato

Felicia Bartolotta nasce a Cinisi, in provincia di Palermo, in una famiglia di piccola borghesia con qualche appezzamento di terreno di proprietà, coltivato ad agrumi e ulivi. Il padre era impiegato al Municipio, la madre casalinga, come sarà anche Felicia.
Si sposa, nel 1947, con Luigi Impastato, di una famiglia di piccoli allevatori legati alla mafia del paese: «Io allora non ne capivo niente di mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo» (così racconta nella sua storia di vita pubblicata nel volume La mafia in casa mia, da cui sono tratte anche le citazioni successive). In effetti Felicia sceglie di sposarsi con Luigi per amore, dopo avere preso una decisione non usuale a quei tempi nelle famiglie come la sua. Era stata fidanzata con un uomo scelto dal padre, mentre lei avrebbe voluto un giovane di un altro paese che le piaceva di più, ma non era benvoluto dalla sua famiglia. Ma poco prima del matrimonio, quando già era tutto pronto, disse al padre che non voleva più sposarsi e che non dovevano permettersi di prenderla con la forza (cioè, come si usava, non dovevano rapirla per la tradizionale fuitina).
Il 5 gennaio 1948 nasce Giuseppe; nel 1949 nasce Giovanni che morirà nel 1952; nel 1953 nasce il terzo figlio, anche lui Giovanni.
Luigi Impastato, durante il periodo fascista, aveva fatto tre anni di confino a Ustica, assieme ad altri mafiosi della zona, e durante la guerra aveva fatto il contrabbando di generi alimentari. Dopo non ebbe più problemi con la giustizia.
Uno dei suoi fratelli, soprannominato “Sputafuoco”, era impiegato come gabelloto (affittuario) in un feudo. Il cognato di Luigi, Cesare Manzella, marito della sorella, era il capomafia del paese. Manzella muore nel 1963, ucciso assieme al suo campiere (guardia campestre) dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo, durante la guerra di mafia che vide contrapposte la cosca dei Greco, con cui era alleato, e quella dei La Barbera. La morte dello zio colpisce profondamente Peppino, che aveva quindici anni e da tempo aveva cominciato a riflettere su quanto gli dicevano il padre e lo zio. Felicia ricorda che le diceva: «Veramente delinquenti sono allora».
L’affiatamento con il marito dura molto poco. Lei stessa afferma: «Appena mi sono sposata ci fu l’inferno. Attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava. Io gli dicevo: “Stai attento, perché gente dentro [casa] non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre”». Felicia non sopporta l’amicizia del marito con Gaetano Badalamenti, diventato capomafia di Cinisi dopo la morte di Manzella, e litiga con Luigi quando vuole portarla con sé in visita in casa dell’amico. Il contrasto con il marito si acuirà quando Peppino inizierà la sua attività politica.
Per quindici anni, dall’inizio dell’attività di Peppino fino alla morte di Luigi, avvenuta otto mesi prima dell’assassinio del figlio, la vita di Felicia è una continua lotta, che però non riesce a piegarla. In quegli anni non ha più soltanto il problema delle amicizie del marito. Ora c’è da difendere il figlio che denuncia potenti locali e mafiosi e rompe con il padre, impegnandosi nell’attività politica in formazioni della sinistra assieme a un gruppo di giovani che saranno con lui fino all’ultimo giorno.
Felicia difende il figlio contro il marito che lo ha cacciato di casa, ma cerca anche di difendere Peppino da se stesso. Quando viene a sapere che Peppino ha scritto sul giornale ciclostilato «L’idea socialista» un articolo sulla mafia fa di tutto perché non venga pubblicato: «…fece un giornalino e ci mise che la mafia era merda. Quando l’ho saputo io, salgo sopra e vedo… E dissi: “E dài, Giuseppe figlio, io ti do qualunque cosa se ti mi consegni quel giornalino. Tu non lo devi pubblicare quel giornale”…Andavo da tutti… dicendo di non presentare quel giornalino». E quando l’attività politica di Peppino entra nel vivo, non ha il coraggio di andare a ascoltare i suoi comizi, ma intuendo di cosa avrebbe parlato chiede ai suoi compagni di convincerlo a non parlare di mafia. E a lui: «Lasciali andare, questi disgraziati».
Morto il marito (in un incidente che può essere stato un omicidio camuffato), la cui presenza era in qualche modo una protezione per il figlio, Felicia intuisce che per Peppino sono aumentati i pericoli: «Guardavo mio figlio e dicevo: ‘Figlio, chi sa come ti finisce’. Lo andai a trovare che era a letto, gli dissi: ‘Giuseppe, figlio, io mi spavento’. E come apro quella stanza, ché ci si corica mia sorella là, io vedo mio figlio, quella visione mi è rimasta in mente».
La mattina del 9 maggio 1978 viene trovato il corpo sbriciolato di Peppino. Felicia dopo alcuni giorni di smarrimento decide di costituirsi parte civile (allora era possibile chiederlo anche durante la fase istruttoria). Una decisione che nelle sue intenzioni doveva servire anche per proteggere Giovanni, il figlio che le era rimasto e che, al contrario, in questi anni si è impegnato assieme alla moglie (anche lei Felicia), per avere giustizia per la morte di Peppino. Felicia ricorda: «Gli dissi: ‘Tu non devi parlare. Fai parlare me, perché io sono anziana, la madre, insomma non mi possono fare come possono fare a te’». Per questa decisione ha dovuto fare ancora una volta una scelta radicale, rompere con i parenti del marito che le consigliavano di non rivolgersi alla giustizia, di non mettersi con i compagni di Peppino, con i soci del Centro siciliano di documentazione di Palermo, successivamente intitolato a Peppino, di non parlare con i giornalisti.
Al contrario, da allora Felicia ha aperto la sua casa a tutti coloro che volevano conoscere Peppino. Diceva: «Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise«. Un figlio che: «… glielo diceva in faccia a suo padre: ‘Mi fanno schifo, ribrezzo, non li sopporto… Fanno abusi, si approfittano di tutti, al Municipio comandano loro’… Si fece ammazzare per non sopportare tutto questo».
Le delusioni, quando sembrava che non si potesse ottenere nulla, e gli acciacchi di un’età che andava avanzando non l’hanno mai piegata. Al processo contro Badalamenti, venuto dopo 22 anni, con l’inchiesta chiusa e riaperta più volte grazie anche all’impegno di alcuni compagni di Peppino e del Centro a lui intitolato, con il dito puntato contro l’imputato e con voce ferma lo ha accusato di essere il mandante dell’assassinio.
Badalamenti è stato condannato, come pure è stato condannato il suo vice.
Entrambi sono morti, e Felicia, che aveva sempre detto di non volere vendetta ma giustizia, a chi le chiedeva se aveva perdonato rispondeva che delitti così efferati non possono perdonarsi e che Badalamenti non doveva ritornare a Cinisi neppure da morto. E il giorno in cui i rappresentati della Commissione parlamentare antimafia le hanno consegnato la Relazione, in cui si dice a chiare lettere che carabinieri e magistrati avevano depistato le indagini, esprime la sua soddisfazione: «Avete risuscitato mio figlio».
Felicia ha accolto sempre con il suo sorriso tutti, in quella casa che soltanto negli ultimi tempi, dopo un film che ha fatto conoscere Peppino al grande pubblico, si riempiva, quasi ogni giorno, di tanti, giovani e meno giovani che desideravano incontrarla. Rendendola felice e facendole dimenticare i tanti anni in cui a trovarla andavamo in pochi e a starle vicino eravamo pochissimi. E ai giovani diceva: «Tenete alta la testa e la schiena dritta».


“La mafia non si combatte con la pistola ma con la cultura”

                                               Felicia Impastato
Cinisi (PA), 24 maggio 1916 – Cinisi (PA), 7 dicembre 2004


sabato 5 marzo 2016

Vi è molto di folle nella vostra cosiddetta civiltà

Vi è molto di folle nella vostra cosiddetta civiltà. Come pazzi voi uomini bianchi correte dietro al denaro, fino a che non ne avete così tanto, che non potete vivere abbastanza a lungo per spenderlo. Voi saccheggiate i boschi e la terra, sprecate i combustibili naturali, come se dopo di voi non venisse più alcuna generazione, che ha altrettanto bisogno di tutto questo. Voi parlate sempre di un mondo migliore, mentre costruite bombe sempre più potenti, per distruggere quel mondo che ora avete.

Bufalo che Cammina, Stoney

giovedì 3 marzo 2016

Gli scioperi del marzo 1943

Alle dieci, ogni mattina, nelle città dell'Italia in guerra suonavano le sirene. Era la prova quotidiana del funzionamento dei segnali d'allarme per gli attacchi aerei. Quel suono mattutino non era sinistro come quelli che, di giorno e più spesso nel cuore della notte, laceravano l'aria per alcuni minuti ad annunciare che arrivavano i bombardieri angloamericani con il loro carico di morte. Ma era pur sempre un lugubre richiamo alla situazione permanente di pericolo, alla prospettiva di nuove devastazioni.
La mattina del 5 di marzo del 1943 la sirena della FIAT a Torino, che per i lavoratori della fabbrica doveva essere il segnale che doveva far partire il primo sciopero dopo tanti anni, non suonò; era stata disinnescata dalla direzione. Qualcuno aveva avvertito la Fiat. Passano pochi minuti e i lavoratori dell'officina 19 di Mirafiori ruppero l'attesa incrociando le braccia, gridando sciopero da un reparto all'altro. Il loro silenzio politico era durato vent'anni.
Un piccolo corteo si mosse in direzione delle presse raccogliendo qua e là l'adesione di altri operai. Non era un blocco massiccio, ma era la prima volta. Da quel giorno le fabbriche di Torino cominciarono a fermarsi, con un crescendo che fece impazzire questura e partito fascista, fino al blocco totale del 12 marzo e all'estensione dello sciopero a Milano, all'Emilia, al Veneto. Un marzo di fuoco. Scioperi contro la guerra, contro la fame, contro il regime; quando la borghesia italiana è ancora muta, i partiti antifascisti solo l'ombra di quel che erano e ridotti alla dimensione di gruppetti clandestini, gli intellettuali combattuti tra fedeltà alla patria e disaffezione per l'uomo del destino; quando le fabbriche sono militarizzate e scioperare può costare il tribunale speciale, l'accusa di tradimento, la galera, e, poi, la deportazione, la prospettiva del lager. Il 5 marzo del `43 è la data del «risveglio operaio», il riannodarsi di quel filo spezzato nel ‘22 e reciso - sembrava definitivamente - con la guerra di Spagna.
Questo episodio è la miccia che darà fuoco alla grande ribellione operaia in tutte le fabbriche del Nord, passato alla storia come gli scioperi del marzo 1943, che segnarono l’inizio della fine per la dittatura fascista di Mussolini e rappresentarono il primo, vero, eroico episodio della gloriosa Resistenza.
Gli scioperi partono da Torino e si estendono a tutto il nord: continueranno fino alla fine della guerra, col costo amaro di migliaia di operai deportati nei lager nazisti, fino all'insurrezione del 25 aprile '45, alle fabbriche occupate e autogestite. E, tra un evento e l'altro, la migrazione dalle officine alle montagne, la scelta di combattere in armi, spesso individuale, a volte collettiva con centinaia di lavoratori che - quasi in corteo - abbandonano la fabbrica per aggregarsi alle formazioni partigiane, come i ferrovieri della Val Susa, come i cantieristi di Monfalcone.
«Non sapevo che stavo facendo uno sciopero, per me era una protesta, la parola sciopero mi era sconosciuta» - ricorderà molto più tardi un allora giovane operaio appena uscito dalla «scuola allievi Fiat» - «ho scoperto in quei giorni cosa volesse dire quella cosa di cui parlavano i vecchi, quel movimento solidale che fa di tanti corpi un'entità sola. E, poi, il senso di libertà: si diceva che in fabbrica c'erano dei comunisti, dei socialisti, ma nessuno sapeva chi fossero... erano qualcosa di mitologico. In quei giorni sono emersi dalle tenebre, si sono scoperti e in quella lotta si riconoscevano l'un l'altro».
Si calcola che negli scioperi di marzo siano scesi in lotta circa 200 mila lavoratori, la più grande lotta di massa a livello europeo in tutta la seconda guerra mondiale.
  

Nel 1975 gli Stormy Six composero la canzone “La Fabbrica” su questo episodio.

Cinque di Marzo del Quarantatré
nel fango le armate del Duce e del re
gli alpini che muoiono traditi lungo il Don
Cento operai in ogni officina
aspettano il suono della sirena
rimbomba la fabbrica di macchine e motori
più forte il silenzio di mille lavoratori
e poi quando è l’ora depongono gli arnesi
comincia il primo sciopero nelle fabbriche torinesi
E corre qua e là un ragazzo a dar la voce
si ferma un’altra fabbrica, altre braccia vanno in croce
e squillano ostinati i telefoni in questura
un gerarca fa l’impavido ma comincia a aver paura
Grandi promesse, la patria e l’impero
sempre più donne vestite di nero
allarmi che suonano in macerie le città
Quindici Marzo il giornale è a Milano
rilancia l’appello il PCI clandestino
gli sbirri controllano fan finta di sapere
si accende la boria delle camicie nere
ma poi quando è l’ora si spengono gli ardori
perché scendono in sciopero centomila lavoratori
Arriva una squadraccia armata di bastone
fan dietro fronte subito sotto i colpi del mattone
e come a Stalingrado i nazisti son crollati
alla Breda rossa in sciopero i fascisti son scappati

mercoledì 2 marzo 2016

Perché ho rapinato di Octave Garnier (Banda Bonnot)


Perché ho rapinato.
Perché ho ucciso.
Ogni essere che viene al mondo ha diritto alla vita, questo è indiscutibile perché è una legge di natura. Perciò mi chiedo perché su questa terra c’è gente che intende avere tutti i diritti. Pretendono di aver denaro, ma se gli si chiede dove l’hanno preso questo denaro che cosa risponderanno? A coloro che mi diranno che hanno denaro e perciò io debbo obbedire loro, io dirò: “quando mi potete dimostrare che una parte del tutto rappresenta il tutto, quando sarà una terra diversa da quella sulla quale voi siete nati come me e un sole diverso da quello che vi illumina che ha fatto germogliare gli alberi e maturare i frutti, quando mi avrete dimostrato questo, io vi riconoscerò il diritto di impedirmi di viverne, poiché donde esce il denaro: dalla terra, e il denaro è una parte questa terra trasformata in un metallo che è stato chiamato denaro e una parte degli uomini ha preso il monopolio di questo denaro ed ha obbligato, con la forza, servendosi di questo denaro, il resto degli uomini ad obbedirgli. Per questo hanno inventato ogni sorta di sistema di tortura come le prigioni ecc.”.
Perché questa minoranza che possiede è più forte della maggioranza che è stata spossessata? Perché questa maggioranza del popolo è ignorante e senza energia; sopporta tutti i capricci dei possidenti abbassando le spalle. È gente troppo vile per rivoltarsi e, ben peggio, se tra loro ce ne sono che escono dal gregge, si sforzano di ostacolarli. È per tutto questo che mi sono rivoltato, è stato perché non volevo vivere la vita della società attuale e non volevo aspettare di essere morto per vivere che mi sono difeso contro gli oppressori con ogni sorta di mezzi a mia disposizione.

(Tratto da Mémoires de Callemin dit Raymond la Science, 1911)