..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 28 febbraio 2016

I fatti delle Tremiti: la rivolta del 1 marzo 1896

Correva l’anno 1894, la sinistra storica di Crispi, in seguito ad un attentato allo stesso Crispi da parte dell’anarchico Italiano Paolo Lega, e all’assassinio del presidente della Repubblica Francese Carnot per mano dell’anarchico Caserio, inasprì duramente le pene per chi commetteva reati di opinione contro il governo. Tra i provvedimenti di massima sicurezza vi era prevista la pena del confino politico e dell’allontanamento.
Quando quegli anarchici arrivarono su San Nicola, la popolazione non li accolse ovviamente bene, si barricò in casa per la paura, erano visti anche peggio dei detenuti per reati comuni, erano considerati degli efferati assassini senza pietà. Venne inviato anche un telegramma dagli isolani al loro deputato Matteo Imbriani, esortando che queste settecento persone venissero mandate altrove, o almeno venissero relegate solo a San Nicola, lasciando San Domino libera per le coltivazioni e per il lavoro.
Questi anarchici, che in quel periodo erano tanto importanti e tanto temuti dall’intera classe politica e borghese europea, avrebbero buttato le basi della sinistra socialista del ventesimo secolo.
Alcuni di loro erano ex o futuri parlamentari, altri erano semplici intellettuali con un odio comune verso le monarchie assolutiste di fine ottocento, altri ancora erano giovani esasperati dalla fame, con una comune linea ideologica, e che con le loro azioni cambiarono la storia del ‘900 creando la scintilla che avrebbe portato al primo conflitto mondiale.
Dopo il loro arrivo su San Nicola, i coatti riuscirono in breve tempo a farsi voler bene dalla popolazione. Il loro interesse per i problemi sociali della povera gente, la loro cultura e le loro proteste verso le forze dell’ordine, affascinò vivamente gli isolani. Istituirono addirittura una scuola, dove gli isolani portavano i loro figli, e venne pubblicato anche un giornale “La Boheme” stampato direttamente su San Nicola. Tale scuola venne in seguito chiusa dopo pochi anni, per paura di contaminazioni ideologiche.
I loro rapporti con le forze dell'ordine però non andavano bene, già dal 1895 cominciarono i problemi.
Le forze di polizia cercavano di istigare i coatti anarchici, per sobillare disordini, ed essere trasferiti altrove. Allo stesso tempo gli anarchici non ci stavano a queste provocazioni, rispondendo apertamente e spudoratamente alle guardie della colonia ed ai carabinieri.
Tali angherie, inasprite dalle pessime condizioni di vita, venivano riferite dagli anarchici ai vari giornali nazionali, e denunciate apertamente in parlamento degli esponenti della sinistra parlamentare più estrema.
Nel frattempo a San Nicola continuavano le rivolte, che scoppiavano a volte per i motivi più futili, una tensione crescente che sfociò in quella che sarebbe stata la tragedia del 1 Marzo 1896.
Quel giorno alcuni coatti stavano passeggiando verso le 9.00 di sera nella piazza di San Nicola; all’intimazione da parte di alcune guardie a rientrare nei loro dormitori, gli stessi si rifiutarono, cantando inni anarchici e sbeffeggiando le suddette guardie.
A tale rifiuto le guardie reagirono fortemente, chiamando i carabinieri e le altre forze di polizia, colpendo i coatti con sciabole e pugni. Partirono alcuni colpi di pistola. Una pallottola frantumò la finestra della bottega di Pasquale Cafiero, altri colpi raggiunsero il bar dell’isola.
Un colpo prese in pieno uno di quelli anarchici, mentre usciva dal bar. Il suo nome era Argante Salucci di Santa Croce sull’Arno. Tale Argante perse la vita senza neanchè aver partecipato agli scontri. Ci furono vari feriti, sia tra i coatti che tra le forze dell'ordine.
Quel 1 Marzo rimase impresso a lungo nella memoria dei tremitesi, un’isolana quel giorno abortì per la paura e rischiò anche di perdere la vita.
Una lettera venne firmata da 19 tremitesi ed inviata al Resto del Carlino, che la pubblicò il 2 Marzo del 1896:
“Ieri sera, domenica, poco dopo le otto e mezzo noi sottoscritti, isolani di Tremiti, fummo spaventati da vivissima scarica di rivoltelle. S’immagini che scompiglio: le donne e i bambini urlavano; e fortuna per noi che nessuno di loro restasse ferito od ucciso, quantunque una palla forasse la porta, rompendo un cristallo della casa e bottega di Pasquale Cafiero. Lo spavento si accrebbe per due altre scariche che, a brevissimo intervallo, e ancor più nutrite che la prima, rintronarono nell’aria. I sottoscritti, che nulla hanno a che vedere con gli anarchici e colla polizia, protestano contro l’ommissione (sic) dei sacramentali tre squilli che la legge impone come l’avvertimento di sciogliersi e di ritirarsi. Se alle nostre creature non toccarono disgrazie, fu un vero miracolo, ma chi può dire che sempre sarà così? Provveda dunque chi ne ha il dovere.”
Il 1 Marzo 1896 segnò inoltre la fine di tale nefasta epoca, sia a livello locale che nazionale; quello stesso giorno durante la battaglia di Adua morirono 15000 italiani; Crispi in seguito a questa sconfitta dovuta alla sua politica colonialista, diede le dimissioni, mentre da quella data in poi gli anarchici delle Tremiti vennero lentamente trasferiti tutti, chi per le prigioni del continente, chi per altri luoghi di confino.
Tutto ciò che lasciarono sulle isole fu il vivo ricordo di quegli inni anarchici, che rimase nella mente dei coloni tremitesi per molti e molti anni.

martedì 23 febbraio 2016

Black Sabbath – War pigs


Questa canzone risale al 1970 (apriva l'album "Paranoid") e la guerra a cui si fa riferimento è quella del Vietnam.
Doveva essere la title track dell'album, ma la casa discografica rifiutò e optò per il più innocuo titolo "Paranoid"


War pigs

Generals gathered in their masses
just like witches at black masses
evil minds that plot destruction
sorcerers of death's construction
in the fields the bodies burning as the war machine keeps turning
death and hatred to mankind
poisoning their brainwashed minds... Oh lord yeah!

 Politicians hide themselves away
they only started the war
Why should they go out to fight?
They leave that role to the poor

Time will tell on their power minds
Making war just for fun
Treating people just like pawns in chess
Wait 'till their judgement day comes, yeah!

Now in darkness, world stops turning
as the war machine keeps burning
No more war pigs of the power
Hand of god has sturck the hour
Day of judgement, god is calling on their knees, the war pigs crawling
Begging mercy for their sins
Satan, laughing, spreads his wings
all right now!
I maiali della guerra

Generali si riunirono in massa
Proprio come streghe alle messe nere
Menti malvagie che tramano distruzione
Stregone per la costruzione della morte
Nei campi bruciano i corpi
Mentre la macchina da guerra continua a portare
Morte e odio all’umanità,
Avvelenando le menti già plagiate...Oh Si Signore!

I politici si nascondono
Hanno solo fatto iniziare la guerra
Perché dovrebbero andare a combattere?
Lasciano questo ruolo al povero

Il tempo denuncerà le loro menti di potere,
A fare la guerra solo per divertimento
Trattare le persone come i pedoni degli scacchi,
Aspetta che venga il giorno del giudizio, si

Ora nell’oscurità il mondo smette di girare,
Ceneri dove bruciano i corpi
I Maiali della Guerra non hanno più il potere,
E dato che Dio ha spaccato il secondo:
Il giorno del giudizio, Dio chiama
I maiali della guerra strisciano sulle ginocchia,
Implorando pietà per i loro peccati
Satana, ridendo, spiega le ali
Va bene adesso!

sabato 20 febbraio 2016

Rapporti tra marxisti e anarchici

I rapporti tra marxisti e anarchici sono sempre stati particolarmente ambigui. Alcuni sottolineano momenti ed eventi particolari - i dissidi nella Prima Internazionale e Saint Imier, la rivoluzione bolscevica, la guerra di Spagna - per illustrare lo stacco incolmabile tra la visione della rivoluzione dei seguaci di Marx e quella dei seguaci di Bakunin. L'argomento forte è il seguente: ogni qualvolta che i comunisti marxisti hanno raggiunto il potere, una delle loro prime preoccupazione è stata quella di "far fuori" gli anarchici, sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista propriamente "fisico". È un'argomentazione probabilmente definitiva, ma nasconde un problema ulteriore. Infatti, i marxisti - in Russia come in Cina, a Cuba come nell'ex Jugoslavia - non si sono limitati a "far fuori" solo gli anarchici, ma hanno fatto la stessa cosa con altri radicali: i socialisti, i socialdemocratici, i liberali, i populisti, i "borghesi rivoluzionari", i vari "eretici" a sinistra, eccetera.
L'idea di una società anarchica fa quindi ripensare la stessa socialità umana, ovvero il rapporto fra persone, e quindi mostra che è artificiosa la distinzione fra persona e società. Una società anarchica è fondata sulla persona concreta e sulla sua capacità di creare forme sociali; si evita quindi di stabilire con un processo di astrazione dei valori morali assoluti e di creare strutture funzionali ad essi anche a discapito delle persone
L'idea di ciò che è buono e desiderabile è infatti soggettiva, multiforme, mutevole, e non si può rappresentare come sovrumana, né si deve adorare in quanto entità astratta, e tanto meno in forma coercitiva.
La società voluta dagli anarchici rifiuta che dei valori umani vengano mitizzati e considerati come superiori a uomini e donne concreti.
Il pensiero anarchico è in realtà un pensiero complesso, policromo, talvolta contraddittorio,come contradditorio è l'uomo.
Ma ciò che soprattutto lo distingue dalle altre dottrine politiche, è che per l'anarchismo non esiste una “umanità astratta” (di cui invece trattano tanto il liberalismo quanto il socialismo di stato e il comunismo autoritario), ma singoli uomini concreti.
Nell'anarchia è di fondamentale importanza l'autodeterminazione dell'individuo, di ogni singolo individuo, che è unico e diverso da tutti gli altri, e il suo totale e pieno diritto di scelta, di consenso o di rifiuto. Potremmo provare a definirla quindi una filosofia della libertà.
Non esiste distinzione tra i mezzi e il fine che si vuole raggiungere; non si può voler ottenere la libertà, ad esempio, restringendola o negandola.
Anarchia non significa affatto disordine: caso mai il suo contrario, nel senso che gli anarchici tentano di ritrovare, di ricostituire quello che per loro è l'”ordine naturale” delle cose e della vita, deformato e stravolto nel tempo dalle varie forme di sopraffazione, di dominio, di sfruttamento e di potere. Come pensare che uomini come Tolstoj e Godwin, Thoreau e Kropotkin, le cui teorie sociali sono state definite anarchiche, volessero portare nient'altro che il caos, il disordine, la violenza nella società?
Gli anarchici non vogliono conquistare il potere (neppure in “nome del popolo”), vogliono eliminarlo. In altre parole si può dire che vogliono frantumarlo e ridistribuirlo in migliaia e migliaia di piccole unità, tante quanti sono gli esseri umani.
Se per il socialismo il valore principale di riferimento è l'uguaglianza e per il liberalismo la libertà, per l'anarchismo tali valori sono del tutto inscindibili e non possono che darsi contemporaneamente. Non vi può essere libertà senza uguaglianza né uguaglianza senza libertà.

martedì 16 febbraio 2016

Horst Fantazzini

Io ho un carattere socievole e mi piace ridere e scherzare. Odio la volgarità, la prepotenza e l’ipocrisia. Dopo tanti anni di galera, ho acquisito la tendenza a rinchiudermi in me stesso per coltivare i miei sogni, i miei progetti, le mie speranze. Insomma, sono diventato un po’ “orso”, ma appena ho a che fare con persone vive e leali, mi apro completamente. Non è facile sopravvivere in queste paludi d’opportunismo e rassegnazione riuscendo a salvaguardare la propria personalità. Ci si riesce a condizione d’ergere steccati immaginari tra sé e gli altri, tra sé e l’ambiente? Io credo d’essere riuscito a mantenermi integro e ci sono riuscito perché ho avuto la fortuna di vivere rapporti intensissimi con compagni e compagne che, da fuori, non mi hanno mai fatto mancare la loro amicizia, il loro affetto, il loro amore. Ci sono riuscito perché da prigioniero sono sempre riuscito a difendere alcuni spazi inviolabili quali la dignità, l’orgoglio e il rispetto in me stesso? La difesa quasi trentennale della propria integrità è stata la lotta più dura e silenziosa. Il resto, i fatti di cronaca, le lotte, le evasioni riuscite e quelle tentate, sono episodi importanti ma non determinanti all’interno d’un percorso esistenziale complessivo … Quando qualche secolo fa iniziai a rapinare le mie prime banche mi trovai subito appiccicato addosso i soprannomi “Il rapinatore gentile”, “Il rapinatore solitario” e “La primula rossa”. “Rapinatore solitario” perché le banche le rapinavo da solo. “Primula rossa” per l’inventiva (scarsa) di un giornalista che aveva intervistato mio padre durante la mia latitanza. Ma perché “rapinatore gentile”?? Ecco, la spiegazione di questo e il racconto di alcuni particolari inerenti al mio “stile” di rapinare le banche? … Intanto, perché ad un certo momento mi sono messo a rapinare banche e perché solo banche? E perché le rapinavo da solo?? In realtà, dopo aver letto le vicende della “Banda Bonnot” e anche Brecht (“È più criminale fondare una banca che scassinarla”), parlai con alcuni compagni anarchici del mio progetto di rapinare (allora non si diceva ancora “espropriare”, al ’68 mancavano alcuni anni …) banche per rivitalizzare economicamente la stampa anarchica. Fui quasi preso per un pazzo. Se non fossi stato il figlio di Libero, m’avrebbero persino preso per un provocatore? Allora, mi misi a rapinare banche da solo?<Come le rapinavo le banche? Prima studiavo attentamente le strade del posto. Cercavo sempre le banche periferiche o situate in piccole città. Cercavo di capire dove ci sarebbero stati i primi posti di blocco e cercavo stradine periferiche, deviazioni, per non dover passare in quei punti “caldi”. Se possibile, dopo pochi km abbandonavo la macchina in un posto dove non l’avrebbero trovata subito e prendevo un pullman oppure un autobus e mi portavo fuori dalla “zona calda”.
Una volta rapinai una banca in provincia di Bergamo, sulla strada che da Bergamo scende ad Iseo. Il paese era Tagliuno. Rapinata la banca, scappai verso Iseo. Prima d’entrare in Iseo lasciai la macchina in un garage, dicendo di cambiare l’olio e di lavarla, affermando che sarei passato a riprenderla dopo alcune ore. Poco lontano c’era una fermata dell’autobus. Presi l’autobus e rifeci a ritroso la strada fatta per scappare. Arrivati a Tagliuno, davanti alla banca che avevo rapinato quindici minuti prima, c’erano i carabinieri e una gran folla. La gente sull’autobus faceva commenti pesanti e una signora accanto a me disse che ci voleva la pena di morte per chi rapinava banche … ed io le davo ragione. Arrivato alla stazione degli autobus di Bergamo salii su un pullman diretto a Milano. In quel periodo autobus e pullman di linea non venivano fermati ai posti di blocco, a meno che non si fosse trattato di fatti gravissimi. Ma perché “rapinatore gentile”? Perché non urlavo e mi rivolgevo agli impiegati fermamente ma con gentilezza, spesso scherzando per sdrammatizzare. Perché se nella banca c’era gente aspettavo pazientemente il mio turno, facendo finta di controllare delle cifre su di un foglio, finché la banca si svuotava. Allora mi avvicinavo alla cassa poggiavo la mia borsa sul tavolo e, al posto di una cambiale da pagare tiravo fuori la pistola e, tranquillamente dicevo all’impiegato: “Stai assolutamente calmo e non ti succederà nulla. Prendi tutti i soldi che hai in cassa e poggiali sul banco”. Gli altri impiegati non si accorgevano subito di ciò che succedeva. Quando realizzavano che c’era una rapina, alzavano subito le mani, allora io gli dicevo di poggiare le mani sul tavolo, di stare tranquilli, di comportarsi normalmente. Se per caso fosse entrato un cliente mentre la rapina era in corso, cosa che è successa molte volte, non si sarebbe accorto che era in corso una rapina. Poi quando arrivava vicino a me, gli mostravo la pistola e anche a lui dicevo di stare tranquillo e lo facevo andare in un angolo lontano dalla porta d’uscita. Quando mi avevano consegnato i soldi, dicevo a tutti di stendersi per terra e di non alzarsi per cinque minuti, che c’era un mio complice, fuori, che sarebbe intervenuto se si fossero alzati prima dei cinque minuti e lui non era così tranquillo come me … Solitamente, aspettavano realmente i cinque minuti. A volte entrava un cliente e vedendo gli impiegati per terra, era lui a dare l’allarme. Una volta, durante una rapina, un’impiegata ebbe un lieve malore per la paura. Il giorno dopo sul giornale lessi le sue generalità e tramite la Fleurop le mandai un mazzo di fiori scusandomi per la paura che le avevo causato. Ecco, così nacque il “Rapinatore gentile”. Ma la mia gentilezza è innata, non affettata. Diciamo che sono gentile per natura, fa parte del mio carattere e quindi traspare anche in situazioni anomale nelle quali, normalmente, la gentilezza non dovrebbe avere diritto di cittadinanza …

(Horst Fantazzini, 1998)

lunedì 15 febbraio 2016

Alenia. Blocco a Caselle

Nelle prime ore del mattino del 14 febbraio è stato bloccato l’accesso della strada che porta allo stabilimento Alenia di Caselle Torinese.
Segnali, luci e coni indicavano agli automobilisti nelle due direzioni di marcia che la strada era chiusa.
In mezzo al blocco uno striscione con la scritta “chiudere le fabbriche d’armi”.
La notizia è stata diffusa dal sito IndymediaSvizzera, che ha anche pubblicato foto e un comunicato che rivendica l’azione che vi riportiamo di seguito.
“Questa notte abbiamo chiuso la strada che porta ad una delle maggiori fabbriche d’armi del Piemonte, l’Alenia. L’Alenia produce aerei da guerra. A Caselle Torinese hanno costruito gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri europei, e gli AMX. A Cameri, nei pressi di Novara il nuovo stabilimento Alenia produce i cassoni alari per i cacciabombardieri statunitensi F35 della Loockeed Martin.
Gli aerei militari dell’Alenia sono stati impiegati nelle guerre di questi anni: dalla Somalia al Kosovo, dall’Iraq all’Afganistan, alla Libia.
Chi produce e vende armi è complice di chi le usa. I giocattoli dell’Alenia uccidono uomini, donne e bambini ovunque si giochi una partita di potenza tra Stati.
La commozione di fronte alle immagini dei bambini annegati nel Mediterraneo, deve tradursi in azione per inceppare le guerre da cui fuggono i profughi.
Mettersi di mezzo per impedire i massacri è possibile.
In questi giorni nel fragoroso silenzio dei media italiani, il governo turco sta massacrando la popolazione di Cezir e Sur, da 70 giorni sotto assedio. Hanno abbattuto le case con l’artiglieria e bruciato gli abitanti, hanno lasciato morire dissanguati i feriti, impedendo alle ambulanze di avvicinarsi. Hanno ammazzato centinaia di persone che si erano rifugiate nelle cantine.
 Sui social media hanno pubblicato le foto di donne curde denudate, torturate orrendamente e infine uccise. Queste donne sono il simbolo della lotta di libertà delle città che a luglio hanno proclamato l’autonomia dopo i primi attacchi dell’esercito turco.
Le Comuni di Cizir e Sur, come la Comune di Parigi, rappresentano un’esperienza di autogoverno che non vuole farsi Stato, perché aspira ad un mondo senza frontiere.
Un affronto che Erdogan non può tollerare. Un affronto che nessun governo, nessuno Stato può tollerare.
Il silenzio dell’Europa, il silenzio del governo italiano è complicità.
Erdogan sarà il gendarme che impedirà ai profughi di continuare il loro viaggio verso l’Europa.
In cambio riceve soldi e appoggio ai massacri in Bakur e in Siria, dove ha spezzato il fronte dei cantoni liberi del Rojava, occupando Jarablus. Truppe turche da due giorni stanno attaccando il Rojava in appoggio ad Al Nusra, la formazione della galassia di Al Qaeda, in difficoltà dopo le azioni delle YPG e dell’SDF che avevano liberato alcuni villaggi.
Finmeccanica, il colosso armiero italiano di cui fa parte anche l’Alenia, fa buoni affari con l’esercito turco. Di recente elicotteri da combattimento della consociata Agusta Westland sono stati venduti al governo di Ankara.
Se tra trenta o cinquant’anni qualcuno si chiederà perché la Turchia ha massacrato le Comuni di Cizir e Sur nel silenzio complice di chi avrebbe potuto parlare ed agire, noi vorremmo poter dire che qualcosa abbiamo fatto, che abbiamo provato a metterci di mezzo.
 Se la marea salisse, se l’indignazione di tanti diventasse azione, se il silenzio fosse rotto dalle grida di chi non ci sta, potremmo far sì che la storia di questi giorni cambi di segno.
In Bakur, in Rojava ma non solo.
In tutta l’Italia ci sono di aeroporti militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei droni.
Le prove generali dei conflitti dei prossimi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia. Le stesse basi da cui sono partite le missioni dirette in Libia, Iraq, Afganistan, Serbia, Somalia, Libano…
Le basi di guerra, le fabbriche d’armi sono a due passi dalle nostre case.
Fermarli è possibile. Dipende da ciascuno di noi.
Un pensiero solidale agli anarchici Kitapsi e Benol, uccisi dalle bombe integraliste ad Ankara, alle donne umiliate torturate ed uccise, agli uomini e bambini bruciati vivi.
Dedichiamo il blocco di Caselle a chi lotta per un mondo senza Stati né frontiere.
In Bakur, in Rojava,in ogni dove.”


venerdì 5 febbraio 2016

Indipendenza siciliana

Torna, quatto quatto, il desiderio di una Sicilia indipendente; ad ogni nuova ondata si scoprono nuovi soggetti e nuove aggregazioni, anche insospettabili, sventolare il bicolore giallo-rosso; tanto da generare qualche legittimo sospetto.
Ma non è questo il luogo per discutere degli indipendentisti vecchi e nuovi, argomento su cui torneremo senz’altro nei prossimi numeri. Vogliamo invece ribadire qual è la posizione di questo giornale in materia.
Anarchici, non siamo interessati alla conquista di nessuno Stato, men che meno di uno Statu Sicilianu, il quale, nell’ipotesi di una sua affermazione, propugnando un diffuso nazionalismo, che pone in primo piano cultura, storia, lingua siciliane, godrebbe di un forte potere mistificante nell’attuare la sua unica e vera missione: garantire il predominio e il privilegio delle classi dominanti.
Rivoluzionari, siamo nemici di ogni dominio di classe, compreso quello di una borghesia (più o meno mafiosa) siciliana. Lo sfruttamento non muta di colore se a sfruttarti siano multinazionali e padroni venuti da fuori, potentati economici colonialisti oppure di stretta etnia sicula. Anche perché, limitandoci ad un discorso prettamente culturale, non crediamo che la borghesia (o la classe al potere) possa rivendicare una cultura siciliana: tutte le borghesie del mondo sono portatrici della medesima cultura del profitto, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del capitale come unico valore. Al contrario, le culture subalterne sono forgiate, animate, vissute dalle classi oppresse, le uniche che hanno interesse a scardinare le catene dello sfruttamento e dell’oppressione.
Antiautoritari, non crediamo nelle virtù salvifiche di una nuova classe di rivoluzionari che – una volta conquistato il potere in una Sicilia libera da colonialismi e interferenze esterne – attuino politiche di trasformazione sociale in senso comunista e libertario. Come l’esperienza c’insegna,i poteri “nuovi” e innovativi finiscono sempre in dittature o a vendersi a potenze finanziarie e militari.
Una Sicilia indipendente, pertanto, può solo essere una Sicilia senza Stato e senza esercizio del potere, senza governo e organi autoritari. Una Sicilia autogestita e autogovernata. 
La lotta per l’indipendenza, passi per i meandri politico-parlamentari o si affermi attraverso percorsi di lotta rivoluzionaria, è destinata ad abortire anche quando dovesse risultare vincente, se vuole riprodurre in piccolo (su scala isolana) lo schema di uno Stato. Saranno energie sprecate, sacrifici e lutti per costruire un mostro che divorerà i suoi figli in nome dell’interesse sacro della nazione.
In varie aree del mondo dove sono in atto tentativi di cambiamento sociale radicale – Chiapas, Rojava fra tutti – viene messo in discussione lo Stato nazionale, privilegiando progetti che tentano di affermare una società costruita dal basso, attraverso strutture assembleari, autogestione diffusa. La lotta per raggiungere un obiettivo di questo tipo presuppone idee chiare già sull’organizzazione odierna, sui metodi, sulle alleanze, i quali devono essere coerenti con i fini.
Ben venga una lotta di lunga durata che rivendichi il diritto di un popolo ad affermare la propria cultura e tutte le peculiarità legate alla propria vicenda storica; ben venga una lotta che affermi diritto all’autodeterminazione, nel senso libertario di possibilità di progettare modalità di vita sul proprio territorio sganciate dallo sfruttamento, dall’intolleranza, dal patriarcato, dalla distruzione dell’ambiente. Ogni popolo deve poter decidere in autonomia quale tipo di società debba affermarsi sulla propria terra.
Nello stesso tempo sappiamo che nessun tipo di liberazione legata ad un determinato territorio sarà possibile in un mondo globalizzato e condizionato da forti interessi imperialisti e capitalistici: sarà sempre parziale e sotto minaccia; per questo si pone il problema dei collegamenti, della solidarietà internazionale, dell’allargamento del fronte, della diffusione dei propri contenuti, del mutuo appoggio, affinché possa rafforzarsi all’interno rafforzandosi all’esterno, dando contributi e ricevendo contributi.
Senza internazionalismo non vi può essere nessun nazionalismo, sia pure libertario o rivoluzionario. In Sicilia come altrove.


Pippo Gurrieri

giovedì 4 febbraio 2016

Per una Società libera

Nella società industriale dello sviluppo ad ogni costo la concentrazione di popolazioni massificate in spazi asfaltati e urbanizzati, le conurbazioni, sottomesse a una classe dominante alquanto mobile e gerarchizzata, ha bisogno di un apparato di potere complesso e rafforzato, una sofisticata megamacchina. Nei periodi di transizione il mantenimento delle condizioni essenziali al capitalismo costringe lo Stato non solo a sacrificare la politica autonoma ma anche a ridurre il personale burocratico, di modo che risulti infondata l’alternativa tra uno Stato democratico che trabocca di rappresentanti e un altro autoritario in cui le cariche arbitrarie siano cumulative. In una società schiava dei mercati lo Stato non ha altra scelta che quella di diventare creditore o debitore: l’uno può nascondersi dietro un’immagine più democratica quando si tratta di imporre le misure terroristiche necessarie al buon funzionamento dell’economia; l’altro deve piegarsi agli ordini di istanze esterne dettate da uno Stato più potente, come ad esmpio la Germania.
Al contrario, una società libera dai condizionamenti politici, quindi emancipata tanto dallo Stato quanto dal mercato. È una società senza cariche elettive, senza decisori né assessori, senza dirigenti né esperti, che deve funzionare al di fuori della politica professionale e dell’economia divenuta autonoma. Questo significa che deve ricreare al suo interno le condizioni non capitaliste sufficienti a garantire delle modalità di funzionamento democratico orizzontale abbastanza solide da rendere possibile un’esistenza senza capitale né Stato. Per citare Proudhon, essa deve: ”trovare una forma di transazione che, riducendo a unità la divergenza degli interessi, identificando il bene particolare e il bene generale, cancellando la diseguaglianza della natura per mezzo dell’educazione, risolva tutte le contraddizioni politiche ed economiche; in cui ogni individuo sia ugualmente e sinonimicamente produttore e consumatore, cittadino e principe, amministratore e amministrato; in cui la sua libertà aumenti sempre, senza che egli debba mai alienare nulla; in cui il suo benessere cresca indefinitamente, senza che egli possa subire, da parte della Società e dei suoi concittadini alcun pregiudizio, né nella sua proprietà, né nel suo lavoro, né nel suo reddito, né nei suoi rapporti d’interesse, di opinione e di affetto verso i suoi simili”.