..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 31 dicembre 2016

Che crepi questo mondo!!!

È il nuovo anno! La voce chiara del ragazzo e la voce spezzata del vecchio intonano la stessa ballata: la ballata dei voti e degli auguri. L'operaio al suo padrone, il debitore al suo creditore, l'inquilino al suo proprietario, ripetono lo stesso ritornello del buono e felice anno. Bisogna che si rida! Bisogna che ci si diverta. Che tutti i volti assumano un atteggiamento di festa. Che tutte le labbra lascino sfuggire i migliori auguri. Che su tutte le facce si disegni il ghigno della gioia. È il giorno della menzogna ufficiale, dell'ipocrisia sociale, della carità farisaica, dell'imbroglio e del falso.
I volti si illuminano e le case si rischiarano! E lo stomaco è nero e la casa è vuota. Tutto è apparato, tutto è apparenza, tutto è artificiale, tutto è inganno! La mano che stringe la vostra è un artiglio o una zampa. Il sorriso che vi accoglie è un ghigno o una smorfia. L'augurio che vi riceve è una bestemmia o una beffa.
Si sente l'eco che rimanda la voce del cannone e che ripete il fischio della fabbrica. La mitraglia fuma ancora e ancora la caldaia lascia sfuggire il vapore. L'ambulanza trabocca di feriti e l'ospedale rifiuta i malati. La granata ha aperto questo ventre e la macchina ha tagliato questo braccio.
La bandiera bianca sventola: è l'armistizio, la tregua, per un'ora e per un giorno, le mani si tendono, i visi si sorridono, le labbra balbettano parole d'amicizia: sogghigni d'ipocrisia e di menzogne.
Lunga vita a te, proprietario, che mi getterai sul selciato della città senza preoccuparti del freddo e della pioggia!
Lunga vita a te, padrone, che mi hai sottratto questi ultimi giorni, perchè il mio corpo era indebolito dopo la dura malattia che ho contratto al tuo servizio!
Lunga vita, lunga vita a voi tutti, panettieri, droghieri, bottegai, che tenevate in pugno la mia povertà con i vostri vergognosi balzelli e che facevate commercio di ogni mio bisogno, di ogni mio desiderio!
E lunga vita e buona salute a tutti, maschi e femmine fiaccati dalla civiltà: buon anno a te, operaio onesto; a te, ruffiano regolare; a te, registrato nei libri della questura; a voi tutti di cui ogni atto, ogni passo, è un atto e un passo contro la mia libertà, contro la mia individualità!
AH! AH! Lunga vita e buona salute!
Volete degli auguri, eccoveli.
Che crepi il proprietario che possiede il posto dove distendo le mie membra e che mi vende l'aria che respiro!
Che crepi il padrone che, per lunghe ore, fa passare l'aratro delle sue esigenze sul campo del mio corpo!
Che crepino questi lupi famelici che riscuotono la decima sul mio sonno, sul mio riposo, sui miei bisogni, ingannando il mio spirito e avvelenando il mio corpo!
Che crepino i catalogati di tutti i sessi con i desideri umani che si soddisfano solo con promesse, fedeltà, denaro e insulsaggini!
Che crepi l'ufficiale che ordina l'assassinio e il soldato che gli ubbidisce; che crepino il deputato che fa la legge e l'elettore che fa il deputato!
Che crepi il ricco che si accaparra una così larga fetta del bottino sociale, ma crepi soprattutto l'imbecille che gli prepara il pastone.
Guardatevi dunque attorno. Sentite più viva che mai la menzogna sociale. Il più ingenuo di voi riconosce ovunque l'ipocrisia vischiosa dei rapporti sociali. La falsità appare ad ogni passo. Questo giorno, è la ripetizione di ogni altro giorno dell'anno. La vita odierna non è fatta che di menzogne e di artifici. I poveri ciondolano dal sorriso della custode al ghigno della bettola e i ricchi dall'ossequità del lacchè alle lusinghe della cortigiana. Facce glabre e maschere di gioia.
Perchè noi si possa un giorno cantare la vita in piena naturalezza, bisogna che crepi il vecchio mondo con la sua ipocrisia, la sua morale, i suoi pregiudizi che avvelenano l'aria e impediscono di respirare. Che si faccia un Capodanno in cui non si faranno voti e auguri bugiardi, ma in cui, al contrario, si getterà il proprio pensiero in faccia a tutti.
La Proprietà, la Patria, gli Dei, l'Onore saranno scaraventati nella fogna assieme a coloro che vivono di questi fetori.
Che crepi questo vecchio mondo!

Joseph Albert “Libertad”
(L'anarchie, n. 90, dicembre 1906)

venerdì 30 dicembre 2016

Le associazioni informali

Siamo anarchici che desiderano una libertà senza limiti. Lottiamo per la liberazione, per un rapporto decentrato e non mediato con il nostro ambiente e con coloro che amiamo e con cui abbiamo affinità. I modelli organizzativi ci offrono solo altra burocrazia, controllo e alienazione, uguali a quelli che riceviamo già dall’organizzazione attuale.
Occasionalmente può esistere una buona intenzione, ma il modello organizzativo deriva da una mentalità intrinsecamente paternalistica e diffidente, che sembra in contraddizione con l’anarchia. I veri rapporti di affinità nascono da una profonda comprensione reciproca nell’ambito di relazioni intime basate sui bisogni della vita quotidiana, non di relazioni basate su organizzazioni, ideologie, idee astratte.
Tipicamente, il modello organizzativo reprime i bisogni e i desideri dell’individuo per il bene della collettività, nel tentativo di uniformare sia la resistenza che l’immaginazione.
Dai partiti alle piattaforme e alle federazioni, sembra che con l’aumentare della scala dei progetti diminuiscano il significato e l’importanza che essi hanno per la vita di ciascuno.
 Le organizzazioni sono mezzi per stabilizzare la creatività, controllare il dissenso e indebolire le tangenti controrivoluzionarie (principalmente determinate dalla leadership o dai quadri d’élite). In genere insistono sull’aspetto quantitativo, anziché su quello qualitativo, e offrono poco spazio al pensiero o all’azione indipendente.
Le associazioni informali, basate sull’affinità, tendono a ridurre al minimo l’alienazione delle decisioni e della loro attuazione e la mediazione fra i nostri desideri e le nostre azioni.

(Green Anarchy)

mercoledì 28 dicembre 2016

Reinventarsi la vita ogni giorno

Solo dei morti o degli zombi possono ignorarlo, perché essere in vita significa, appunto, per ognuno, reinventarsi creativamente ogni giorno, lasciarsi portare spontaneamente dalla propria voglia/volontà di vivere a rifiutare a ogni tornante l’addomesticamento produttivista che insidia appunto la creatività e il dono da cui derivano istanti di felicità. Il susseguirsi di tali istanti nel’universo caleidoscopico di un’esistenza dà un senso alla nostra vita. Bene o male che ci si riesca, è comunque sempre su questo punto che si giocano tutte le prospettive dell’umano in una società disumanizzata dal profitto e dalle sue regole.
Quella che in mancanza di meglio (o di un termine adeguato) continuiamo a chiamare democrazia diretta, a differenza di tutte le altre forme di governo che l’hanno preceduta, non è una nuova forma di potere ma la primizia concreta della sua definitiva abolizione.
Una tale rottura di paradigma, tuttavia, implica anche un cambiamento radicale nei metodi e nei mezzi della lotta politica. Essa segna definitivamente la fine di ogni possibile leninismo, di ogni avanguardia che s’instauri per auto proclamazione nella gestione degli affari comuni.
Il vecchio mondo fondato sulla proprietà privata e sulla divisione del lavoro è disponibile a tutte le variazioni della scala gerarchica ma non può minimamente sopportare che la gerarchia sia abolita senza scomparire ipso facto.
In questo senso la democrazia diretta è incompatibile con la società dominante fondata sulla coppia Stato/mercato quanto con tutte le forme alienate di contestazione sociale.
Finché il potere in difficoltà riuscirà a identificare un’avanguardia separata come nemico, la recupererà o l’abbatterà per sopravvivere, indicandola alle masse confuse come capro espiatorio di turno.
Si può osservare con tristezza e consapevolezza che finora tutti i tentativi avanguardisti d’instaurazione di una democrazia diretta sono falliti nella repressione e nel sangue.
La vita appartiene a una nobiltà poetica di signori senza schiavi, il legame tra le nostre emozioni individuali, la loro valenza soggettiva e il loro depositarsi in dono e partecipazione sociale, trasforma l’ambito del politico in critica pratica della vita quotidiana.

lunedì 26 dicembre 2016

La pigrizia è godimento

C'è sicuramente un certo piacere nel non esserci per nessuno, nel volersi di un'assoluta nullità lucrativa, nel testimoniare tranquillamente della propria inutilità sociale in un mondo dove un identico risultato è ottenuto attraverso un'attività nella maggior parte dei casi frenetica. Il lavoro ha snaturato la pigrizia, ne ha fatto la sua puttana nello stesso momento in cui il potere patriarcale vedeva nella donna il riposo del guerriero. La pigrizia è godimento di sé oppure non esiste. Non abbiate nessuna speranza che vi sia accordata dai vostri signori o dai loro dei. Ci si arriva come il bambino per una naturale inclinazione a cercare il piacere ed a mettere da parte ciò che lo contraria. Nessuno può assicurare la propria felicità (e con più facilità la propria sventura) se non egli stesso. Vale per i desideri ciò che vale per la materia prima da cui l'alchimista cerca di ricavare la pietra filosofale. Costituiscono un loro proprio fondo e non se ne può estrarre che ciò che vi si trova. 

venerdì 23 dicembre 2016

La leggenda di Natale di Albert Libertad

C'era una volta, molto tempo fa, verso l'anno 1900, un grande ammasso di pietre e di fango che i naturali di allora chiamavano Parigi. Era la capitale di un paese favorito da un clima temperato e dove i cereali, le vigne, i più bei frutti crescevano in abbondanza. Avvicinandosi a questi ammassi di pietre, vincendo gli odori pestilenziali che se ne sprigionavano, li si vedeva solcati da vie di ogni genere: le une larghe, costeggiate da belle case; le altre, strette, con, da ogni lato, in fila e strette, delle case dall'aspetto di topaie. Quel giorno, l'anno finiva; era festa in ogni città, ma la natura sembrava imbronciarsi e la neve cadeva a larghe falde. Malgrado ciò, lungo le strade, i magazzini gettavano fasci di luce e gli occhi erano attirati da ammassi di vettovaglie stranamente fornite di clienti.
I passeggiatori, gli acquirenti erano numerosi: gli uni, ricoperti da calde pellicce, andavano ridendo beati, fregandosene del freddo; gli altri, al contrario, camminavano con timore, erano ricoperti di stracci, attraverso i quali si disegnavano le loro ossa o si vedeva la loro pelle.
Di quando in quando, i secondi assumevano verso i primi degli atteggiamenti di supplica, che non conoscete, cari bambini, ma che consistevano nel tendere la mano pronunciando delle parole senza senso, in tono dolente. Essi chiedevano l'elemosina, e cioè pregavano i fortunati di dar loro una parte del loro superfluo allo scopo di poter acquistare il necessario per essi e i loro figli. I tre quarti dei ben vestiti passavano indifferenti; altri, parsimoniosamente, cercavano nella loro tasca la più piccola offerta da dar loro.
Quando i pezzenti si mostravano troppo intraprendenti, degli uomini vestiti tutti allo stesso modo, molto animatamente, li maltrattavano e li cacciavano dalle larghe vie; qualche volta li portavano anche via dopo aver messo delle catene alle mani. E vi era, allo stesso tempo, così poca umanità, così poco rispetto della dignità umana, che le persone benvestite facevano cerchio e gettavano del lazzi ai poveri diavoli così trattati, e che i malvestiti curvavano il capo, abbassavano le loro spalle, cercando di far dimenticare il loro crimine di essere poveri avvallando gli atti degli uomini in uniforme.
Questi ultimi erano chiamati agenti della forza pubblica, erano mantenuti grandi e grossi; avevano come missione di difendere i benvestiti, i ben nutriti, contro i pezzenti, i miserabili. Essi appartenevano, il che vi sorprenderà, a questa classe così sfortunata. Però chiacchieriamo molto senza entrare nel merito. Una donna si era persa tra questa folla. La sofferenza si leggeva sui suoi tratti, e la miseria dagli abiti poveri che la ricoprivano. Ma osservandola, la si capiva essere giovane, la si vedeva bella. Molte volte la sua mano aveva disegnato il gesto dell'elemosina, mai essa aveva avuto la forza di eseguirlo. Un'ultima fierezza irraggiava dai suoi occhi, tutto il suo essere si rivoltava contro l'avvilimento, la supplica.
Spesso dei benvestiti l'avevano avvicinata e rivolto degli inviti volgari e, non appena indugiava davanti a una vetrina di alimenti deliziosi e invitanti, sentiva sul collo l'alito caldo di un uomo che le sussurrava: "Se vuoi salire da me, la camera e la stanza rotonda". È con grande difficoltà, cari bambini, se osate capire queste parole, tanto esse vi sembrano sorprendenti. La dignità della donna, il suo libero arbitrio, in quei tempi barbari, non erano più rispettati della dignità e libertà umana. La bellezza, la grazia, la giovinezza delle donne povere erano comprate dai benvestiti, i ricchi. Nulla secondo il loro volere era rispettato e i più vecchi, i più brutti in pelliccia avevano, quasi per un pezzo di pane, le più giovani e le più belle donne.
Si ostentava allora una più grande morale e un grande pudore e le nostre libere unioni dei nostri tempi erano fortemente bandite: l'amore si faceva sempre attraverso intermediari, o si vendeva in appositi mercati. La nostra povera sconosciuta arrossì, si girò. L'uomo era vecchio, era brutto, degli occhi affondati nel grasso delle sue guance, due o tre menti, un grosso ventre... Oh, la sua giovinezza a questo vecchiaccio, a questo lurido gaudente. Esitò, poi apparve sul suo bel viso una contrazione, alzò le spalle... accettò.
Seguì l'uomo in un albergo, in qualche strada vicina alla grande arteria. E in una camera banale in cui si udivano le carreggiate venali, vendette il suo corpo alle bestiali carezze del passante. Soddisfatto, l'uomo se ne andò verso altri piaceri. Lei davanti all'albergo, guardava la "stanza rotonda" come smarrita, poi tornava in sé. L'atto che aveva appena commesso, era per quel metallo. Quel metallo, era del pane per il bambino che aveva fame; quel metallo era del carbone, per il bambino che aveva freddo... per il suo bambino, nella mansarda.
Entrò come un turbine in un negozio, dove era esposto il pane dorato in tutte le sue forme. Delle inservienti che si affrettavano vicino a dei benvestiti, la osservarono con sospetto: "Una libbra di pane, per favore".
Perché il pane, cari bambini, quest'indispensabile nutrimento, si vendeva così come ogni altra cosa. La servirono e, felice di avere del pane per sé, la poveretta, gettò la moneta sul bancone. Emise un suono sordo... Una voce cattiva diceva: "falsa, non bisogna farla a noi, piccola mia". Delle mani brutali le strapparono il pane e la spinsero fuori. Capì: era stata derubata, ingannata. Il sacrificio ultimo della madre per il figlio era stato inutile. Delle ingiurie venivano alla sua bocca contro l'avido che aveva mangiato la sua carne, respirato la sua giovinezza, senza volerle lasciare una briciola del suo benessere. Ma la sua testa vuota si curvò, grosse lacrime scorsero lungo le sue guance; scoraggiata, stanca, prese la strada delle vie strette, delle case nere, lasciandosi alle spalle il quartiere di lusso e abbondanza.
E, nella strada più stretta, davanti la più nera casa, si fermò, seguì un lungo viale, salì la scala, e, in alto, trattenendo il respiro, lentamente aprì la porta della sua camera. Oh, l'orribile mansarda, oh il nero tugurio. Per terra un materasso sul quale due o tre sacchi erano gettati, vicino una tavola dagli assi malgiunti, un fornello i cui tre buchi spalancati sembravano gettare freddo, un baule grigio in un angolo ed era tutto. Un giorno smorto scivolava da un lucernaio il cui vetro rotto lasciava passare la brezza. Era tutto, dicevamo? No. In un angolo, gettando quasi una nota allegra, una culla. In questa culla tutto l'amore materno si disegnava vincitore; i mille nulla abbellivano questo nido. Un bambino di cinque o sei anni vi riposava.
Il primo sguardo della donna fu per lui. Ahimè! Ritornava a casa così come vi era partita, le mani vuote, niente pane, niente legna, era la morte, l'inevitabile morte. La sua morte, quella del cherubino, di quell'avvenire. I suoi occhi versarono lacrime, si avvicinò a passo lento alla culla. O ironia, il bambino sognando, sorrideva alla vista di qualche remoto paradiso, del vostro, oh cari bambini. Allora, trattenne il respiro, ma un desiderio di baciare questa carne innocente, questa carne della sua carne, nacque, imperioso, e posò le sue labbra sulla fronte del bambino.
Questi aprì lentamente i suoi grandi occhi ancora pieni di gioia estatica, li gettò sulla madre in lacrime, sulla tavola vuota, sulla stufa spenta, e triste: "Oh, mamma! Non era che un sogno... ma che bel sogno! Non avevamo più fame... Non avevamo più freddo... mai più".


Albert Libertad, dicembre 1899

giovedì 22 dicembre 2016

Libri di scuola e TV? Solo propaganda di sistema

Come si fa a capire, che ne so..., il Medioevo? Uno dice: beh, prendi un testo scolastico e te lo studi, o guardi i documentari in tv. Commetteremmo un grave errore. Il Medioevo viene alterato dai testi ufficiali in modo davvero sfacciato e criminale, come gli altri capitoli. Per capire un'epoca storica si dovrebbero prendere tutti i riferimenti originali, si dovrebbero fare delle ricerche infinite, si dovrebbero raccogliere le testimonianze più dirette senza escludere il punto di vista del popolo e fare dei paralleli, e soprattutto si dovrebbe pubblicare il tutto senza anteporre alcun punto di vista personale, quindi opportunista, si dovrebbe pubblicare senza anteporre filtri, insomma si dovrebbe raccontare il periodo storico obiettivamente, per quel che è, e ognuno poi si farebbe una propria opinione.
Questo è proprio ciò che ha fatto Kropotkin per tanti anni in merito al Medioevo e non solo. I suoi scritti storici comprendono tutte le sfaccettature, e allora scopri tante belle cose che la scuola e la tv non ti diranno mai, cose che ti fanno sobbalzare dalla sedia, e capisci che ti hanno voluto fregare, riuscendoci. La censura del sistema è micidiale, essa tende a filtrare tutto al fine di dare alla gente una visione delle cose vantaggiosa al sistema stesso. E il vantaggio del sistema è quello di far pensare la gente solo in funzione della presunta bontà dello stato e della chiesa, sì da perpetuare le istituzioni e questo tipo di società. É semplice: se nascondi una cosa, se non la fai conoscere, nessuno potrà utilizzarla mentalmente. E noi agiamo in base a ciò che abbiamo nella mente. La conoscenza, se è filtrata e manipolata, non è conoscenza, è frode. Vi inviteremmo volentieri a leggere Kropotkin, forse il più grande medievalista di tutti i tempi (e non scherza neanche riguardo agli altri periodi storici). Magari potete iniziare da questo pdf che si intitola 'Scienza e Anarchia', dove si può leggere un capitolo dal titolo 'La nascita dello Stato', e ne scoprirete delle belle, non solo riguardo al Medioevo. 

mercoledì 21 dicembre 2016

La scomparsa del denaro

Che cosa rischia di succedere il giorno in cui il crac finanziario o qualunque altro trucco del capitale toglierà al denaro il suo valore e la sua utilità?
La sua scomparsa, non c’è dubbio, sarà salutata come una liberazione da quanti gli negano il diritto di tiranneggiare la loro vita quotidiana. Tuttavia, il feticismo del denaro è talmente incrostato nei nostri costumi che molti individui assoggettati al suo giogo millenario, finiranno per trovarsi in preda a quegli scompensi emotivi in cui regna la legge della giungla sociale, in cui si scatenano la lotta di tutti contro tutti e la violenza cieca in cerca di capri espiatori. Non dobbiamo sottovalutare i tentacoli della piovra intrappolata nei suoi ultimi rifugi. Il crollo del denaro non implica, infatti, la fine della depredazione, del potere, dell’appropriazione degli esseri e delle cose. L’esacerbarsi del caos, tanto utile alle organizzazioni statali e mafiose, propaga un virus di autodistruzione i cui rigurgiti nazionalisti, gli sfoghi sfocianti in genocidi, i conflitti religiosi, i rigurgiti della peste fascista, bolscevica o integralista rischiano di avvelenare gli spiriti se l’intelligenza sensibile del vivente non rimette al centro delle nostre preoccupazioni la questione della felicità e della gioia di vivere. Per contro, non bisogna che la disumanità del passato cancelli la memoria dei grandi movimenti di emancipazione in quel che ebbero di più radicale: la volontà di liberare l’uomo alienato e di far nascere in lui quella vera umanità che riappare di generazione in generazione.
La società a venire non ha altra scelta che quella di riprendere e sviluppare i progetti di autogestione che dalla Comune di Parigi alle collettività libertarie della Spagna rivoluzionaria, hanno fondato sull’autonomia degli individui una ricerca di armonia in cui la felicità di tutti fosse solidale con la felicità di ciascuno.
Il fallimento dello Stato obbliga le collettività locali a mettere in atto una gestione del bene pubblico più adatta agli interessi vitali degli individui. Sarebbe illusorio pensare che liberare dei territori dal dominio mercantile e instaurare delle zone in cui i diritti umani sradichino il diritto del commercio e della redditività si possa compiere senza urti. Per tanto dovremo immaginare di difendere le enclavi della gratuità che cercheremo di impiantare in un mondo rastrellato e controllato da un sistema universale di depredazione e di cupidigia con strumenti nuovi efficaci consapevoli del fatto che non potremo mai competere sul piano strettamente militare con i professionisti della violenza che il sistema può mettere in campo.

martedì 20 dicembre 2016

La solidarietà

Ogni essere umano vive e prospera in virtù di un principio che gli è inerente e che determina la sua natura particolare; principio che non gli è imposto da qualsiasi legislatore divino ma é invece il risultato prolungato e costante di una combinazione di cause e di effetti naturali. E questo principio non é nell'uomo come un'anima nel suo corpo, secondo l’assurda immaginazione degli idealisti, ma non è che un effetto del modo in cui si manifesta la sua esistenza reale.
Per la specie umana, come per tutte le altre specie animali, ha principi che le sono propriamente inerenti; e tutti questi principi si riducono o si riassumono in uno solo che noi chiamiamo Solidarietà.
Tale principio può formularsi in questo modo:
"Nessun essere umano può riconoscere la sua umanità, né per conseguenza realizzarla nella vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando per tale realizzazione. Nessun uomo può emanciparsi finché non procuri di emancipare gli altri. La mia libertà sta nella libertà di tutto il mondo, poiché io non posso essere realmente libero, e libero non solo nelle idee ma anche nelle azioni, se la mia libertà e il mio diritto non abbiano conferma e sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini a me eguali" (Michele Bakunin).
Le condizioni d'esistenza degli altri uomini é per me fatto importante, perché l'individuo più indipendente che io mi immagini o che mi sembri tale per la sua posizione sociale, sia esso papa, re, presidente o primo ministro, é sempre il prodotto dello stato sociale in cui vivono gli altri uomini, i più umili. Se essi sono ignoranti, miserabili e schiavi, la mia esistenza viene determinata dalla loro ignoranza, dalla loro miseria e dalla loro schiavitù. Io, uomo illustre ed intelligente, per esempio, sono una bestia davanti alla scempiaggine altrui: io valoroso, sono schiavo per la loro servitù; io ricco, tremo davanti alla loro miseria; io privilegiato, impallidisco davanti alla loro giustizia; io infine, cercando di essere libero, non posso esserlo se intorno a me gli uomini non abbiano pari aspirazione, e quindi impieghino contro di me tutti gli strumenti della loro oppressione.

giovedì 15 dicembre 2016

Il gusto rabbioso di vivere

L’obbligo produttivo aliena la passione di creare. Il lavoro produttivo rientra nei procedimenti di mantenimento dell’ordine. Il tempo di lavoro diminuisce proporzionalmente alla crescita dell’impero del condizionamento.
In una società industriale che confonde lavoro e produttività, la necessità di produrre e sempre stata antagonista del desiderio di creare. Quale scintilla umana, ossia quale creatività possibile, può restare in un essere strappato dal sonno ogni mattina alle sei, sbattuto sui treni suburbani, assordato dal fracasso delle macchine, torchiato, spremuto dalle cadenze, dai gesti privati di senso, dal controllo statistico, e rigettato alla fine della giornata nelle sale di stazione, cattedrali di partenza per l’inferno delle settimane e l’infimo paradiso dei week-end, quando la folla si comunica nella fatica e nell’abbruttimento?
Dall’adolescenza all’età della pensione, i cicli di ventiquattr’ore si susseguono con il loro uniforme macinare del vetro spezzato: incrinatura del ritmo congelato, incrinatura del tempo-che-è-denaro, incrinatura della sottomissione ai capi, incrinatura della noia, incrinatura della fatica. Dalla forza viva dilaniata brutalmente alla lacerazione sempre aperta della vecchiaia, la vita barcolla da ogni parte sotto i colpi del lavoro forzato. Mai una civiltà ha raggiunto un tale disprezzo della vita; allevata nel disgusto, mai una generazione ha provato fino a questo punto il gusto rabbioso di vivere. Coloro che si assassina lentamente nei macelli meccanizzati del lavoro sono gli stessi che si trovano a discutere, cantare, bere, ballare, fare l’amore, tenere la strada, prendere le armi, inventare una poesia nuova. Già si costituisce il fronte contro il lavoro forzato, già i gesti di rifiuto modellano la coscienza futura. Ogni appello alla produttività, nelle condizioni volute dal capitalismo e dall’economia sovietizzata, è un appello alla schiavitù.

lunedì 12 dicembre 2016

Autoproduzione

Noi intenderemo qui, per “autoproduzione”, ogni attività che degli individui, o dei gruppi, rinunciando volontariamente a ricorrere alle possibilità esistenti sul mercato, scelgano di svolgere con forze proprie per fruirne essi stessi, da soli o insieme con altri, ma sempre in uno spirito di gratuità e senza chiedere contraccambio alcuno.
Autoproduzione tradizionale e diffusissima è quella che si svolge ai margini delle metropoli negli orti abusivi, lungo la ferrovia e nei raccordi autostradali.
Ma anche attività più complesse e meno alimentari, come i giornali, i cd, le fanzine, i manifesti, i volantini, sviluppati in proprio, con propri strumenti, magari assemblati senza passare per la cassa di alcun negozio. Affini all’autoproduzione sono il riciclaggio e l'autocostruzione, appunto, di strumenti informatici, elettronici, meccanici, di mobili, abiti, giocattoli, le mille soluzioni creative alla complessità delle esigenze e alla banalità delle soluzioni offerte dal bazar delle merci e delle bugie.
Si tratta di un fenomeno che, a mano a mano che il capitalismo convertiva in merce ogni possibile attività umana, è divenuto sempre meno funzionale agli equilibri sociali e perciò sempre meno accettato, con la conseguenza di essere crescentemente sospinto ai margini e anche oltre i margini della legge. Si pensi a tutte le regole igieniche e sanitarie, chiaramente concepite per definire igienico il veleno industriale e antigienico l’orto individuale; si pensi alle regole sul copyright, che praticamente considerano illegale tutto ciò che non nasce e muore in forma di merce; si pensi alle normative sulla sicurezza, che presuppongono la fabbrica come luogo “naturale” della produzione. Si impiantano orti su terreni demaniali non più utilizzati, si autocostruisce su aree spesso abbandonate e occupate abusivamente, ecc.
L’autoproduzione, comunque la si guardi, non riesce proprio ad essere legale: prima ancora che a causa dell’ostilità aperta dell’industria (che vi intuisce una concorrenza inafferrabile) e dello stato (che vi scorge un’evasione totale dal meccanismo fiscale), a causa della sua indefinibilità. È una materia su cui è impossibile legiferare validamente: è un terreno in cui, per definizione, ciascuno fa quel che gli pare.
L’autoproduzione è perciò, diciamolo pure, costitutivamente anarchica.

sabato 10 dicembre 2016

Il mondo libero non è libero

Il mondo libero non è libero; il mondo comunista non è comunista. Il vecchio movimento proletario non è riuscito a rovesciare la società di classe e si è smarrito nelle varianti riformiste o burocratico-totalitarie del capitalismo classico. Ovunque nel mondo la gente è ancora alienata dalla propria attività (ciò che è obbligata a produrre le si rivolta contro come una potenza estranea) e dunque tutti sono alienati gli uni dagli altri. Lo sviluppo moderno del capitalismo ha generato un nuovo stadio di quest’alienazione: lo spettacolo, nel quale ogni comunicazione tra gli individui è mediata dalle immagini che sono presentate loro, dalle “informazioni” o dalle avventure vissute per procura fino alle lodi encomiastiche delle merci e dei burocrati.
Ma questo sistema non ha risolto tutte le sue contraddizioni; nel corso degli ultimi due decenni sono apparse, in tutte le regioni del mondo, nuove lotte che mettono in causa diversi aspetti del sistema e che tendono a rifiutare la mediazione burocratica. Il progetto fondamentale implicitamente implicato in queste lotte, è l’abolizione dello Stato e di ogni potere gerarchico, dell’economia mercantile e del lavoro salariato. Le precondizioni tecnologiche per una simile trasformazione esistono già. La forma di organizzazione sociale capace di realizzarla è stata prefigurata dai consigli operai che apparvero durante le rivoluzioni represse nei primi decenni di questo secolo: assemblee generali democratiche degli operai e di tutti gli altri che si riconoscono nel loro progetto, assemblee che dissolvono ogni potere esterno e si federano a livello internazionale, eleggendo delegati incaricati di compiti precisi e che possono essere revocati in qualsiasi momento.
Non si può contribuire a tale rivoluzione facendo ricorso ai metodi manipolatori che riproducono le relazioni gerarchiche dominanti. Il compito dei rivoluzionari è di favorire la coscienza, l’autonomia e la coerenza delle lotte radicali senza diventare una nuova direzione che le dominerebbe. Per questa ragione, ed anche perché l’opposizione costruttiva tende ad integrarsi nel sistema, le tattiche appropriate sono in grande misura negative o critiche: si tratta di attaccare le istituzioni e le ideologie che rafforzano la sottomissione al sistema, e di segnalare le possibilità ed i limiti delle lotte contro di esso, pur lasciando la gente libera di scegliere in che modo rispondere alle situazioni così esposte.
Si tratta di fronteggiare il mondo reale nel quale viviamo; di legare teoria e pratica in un’attività sperimentale, per resistere alla tendenza della teoria a pietrificarsi in ideologia. Tutto ciò che aveva qualche valore nell’arte o nella religione può essere realizzato soltanto superandole come sfere distinte, mettendo in gioco la creatività e la ricerca della realizzazione sul terreno della vita quotidiana. In una società che ha soppresso ogni avventura, la sola avventura possibile resta la soppressione di questa società.

giovedì 8 dicembre 2016

Siamo parte della terra - Il Manifesto dei Diritti della Terra

Nel 1854 il “grande capo bianco”di Washington (il Presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce) si offrì di acquistare una parte del territorio indiano e promise di istituirvi una riserva per i pellerossa. Il documento qui integralmente riprodotto è lettera di risposta che fu scritta dal capo dei Pellirossa Capriolo Zoppo nel 1854 al Presidente degli Stati Uniti. La lettera è senz’altro una delle più elevate espressioni di sintonia dell’uomo col creato ed esprime la ricchezza universale dei “popoli nativi”, dei veri “indigeni” di ogni luogo della terra ed è la più bella e la più profonda dichiarazione mai fatta sull'ambiente.

“Il grande Capo che sta a Washington ci manda a dire che vuole comprare la nostra terra. Il grande Capo ci manda anche espressioni di amicizia e di buona volontà. Ciò è gentile da parte sua, poiché sappiamo che egli ha bisogno della nostra amicizia in contraccambio. Ma noi consideriamo questa offerta, perché sappiamo che se non venderemo, l’uomo bianco potrebbe venire con i fucili a prendere la nostra terra. Quello che dice il Capo Seattle, il grande Capo di Washington può considerarlo sicuro, come i nostri fratelli bianchi possono considerare sicuro il ritorno delle stagioni.
Le mie parole sono come le stelle e non tramontano. Ma come potete comprare o vendere il cielo, il colore della terra? Questa idea è strana per noi. Noi non siamo proprietari della freschezza dell’aria o dello scintillio dell’acqua: come potete comprarli da noi?
Ogni parte di questa terra è sacra al mio popolo. Ogni ago scintillante di pino, ogni spiaggia sabbiosa, ogni goccia di rugiada nei boschi oscuri, ogni insetto ronzante è sacro nella memoria e nella esperienza del mio popolo. La linfa che circola negli alberi porta le memorie dell’uomo rosso. I morti dell’uomo bianco dimenticano il paese della loro nascita quando vanno a camminare tra le stelle. Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo e l’aquila sono nostri fratelli. Le creste rocciose, le essenze dei prati, il calore del corpo dei cavalli e l’uomo, tutti appartengono alla stessa famiglia. Perciò. Quando il grande Capo che sta a Washington ci manda a dire che vuole comprare la nostra terra, ci chiede molto. Egli ci manda a dire che ci riserverà un posto dove potremo vivere comodamente per conto nostro. Egli sarà nostro padre e noi saremo i suoi figli. Quindi noi considereremo la Vostra offerta di acquisto. Ma non sarà facile perché questa terra per noi è sacra. L’acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non è soltanto acqua ma è il sangue dei nostri antenati. Se noi vi vendiamo la terra, voi dovete ricordare che essa è sacra e dovete insegnare ai vostri figli che essa è sacra e che ogni tremolante riflesso nell’acqua limpida del lago parla di eventi e di ricordi, nella vita del mio popolo.
Il mormorio dell’acqua è la voce del padre, di mio padre. I fiumi sono i nostri fratelli ed essi saziano la nostra sete. I fiumi portano le nostre canoe e nutrono i nostri figli. Se vi vendiamo la terra, voi dovete ricordare e insegnare ai vostri figli che i fiumi sono i nostri fratelli ed anche i vostri e dovete perciò usare con i fiumi la gentilezza che userete con un fratello.
L’uomo rosso si è sempre ritirato davanti all’avanzata dell’uomo bianco, come la rugiada sulle montagne si ritira davanti al sole del mattino. Ma le ceneri dei nostri padri sono sacre.
Le loro tombe sono terreno sacro e così queste colline e questi alberi.
Questa porzione di terra è consacrata, per noi. Noi sappiamo che l’uomo bianco non capisce i nostri pensieri. Una porzione della terra è la stessa per lui come un’altra, perché egli è uno straniero che viene nella notte e prende dalla terra qualunque cosa gli serve. La terra non è suo fratello, ma suo nemico e quando la ha conquistata, egli si sposta, lascia le tombe dei suoi padri dietro di lui e non se ne cura. Le tombe dei suoi padri e i diritti dei suoi figli vengono dimenticati. Egli tratta sua madre, la terra e suo fratello, il cielo, come cose che possono essere comprate, sfruttate e vendute, come fossero pecore o perline colorate.
IL suo appetito divorerà la terra e lascerà dietro solo un deserto.
Non so, i nostri pensieri sono differenti dai vostri pensieri. La vista delle vostre città ferisce gli occhi dell’uomo rosso. Ma forse ciò avviene perché l’uomo rosso è un selvaggio e non capisce.
Non c’è alcun posto quieto nelle città dell’uomo bianco. Alcun posto in cui
sentire lo stormire di foglie in primavera o il ronzio delle ali degli insetti. Ma forse io sono un selvaggio e non capisco. Il rumore della città ci sembra soltanto che ferisca gli orecchi. E che cosa è mai la vita, se un uomo non può ascoltare il grido solitario del succiacapre o discorsi delle rane attorno ad uno stagno di notte?
Ma io sono un uomo rosso e non capisco.
L’indiano preferisce il dolce rumore del vento che soffia sulla superficie del lago o l’odore del vento stesso, pulito dalla pioggia o profumato dagli aghi di pino. L’aria è preziosa per l’uomo rosso poiché tutte le cose partecipano dello stesso respiro.
L’uomo bianco sembra non accorgersi dell’aria che respira e come un uomo da molti giorni in agonia, egli è insensibile alla puzza.
Ma se noi vi vendiamo la nostra terra, voi dovete ricordare che l’aria è preziosa per noi e che l’aria ha lo stesso spirito della vita che essa sostiene. Il vento, che ha dato ai nostri padri il primo respiro, riceve anche il loro ultimo respiro. E il vento deve dare anche ai vostri figli lo spirito della vita. E se vi vendiamo la nostra terra, voi dovete tenerla da parte e come sacra, come un posto dove anche l’uomo bianco possa andare a gustare il vento addolcito dai fiori dei prati. Perciò noi consideriamo l’offerta di comprare la nostra terra, ma se decideremo di accettarla, io porrò una condizione. L’uomo bianco deve trattare gli animali di questa terra come fratelli. Io sono un selvaggio e non capisco altri pensieri. Ho visto migliaia di bisonti che marcivano sulla prateria, lasciati lì dall’uomo bianco che gli aveva sparato dal treno che passava. Io sono un selvaggio e non posso capire come un cavallo di ferro sbuffante possa essere più importante del bisonte, che noi uccidiamo solo per sopravvivere.
Che cosa è l’uomo senza gli animali? Se non ce ne fossero più gli indiani
morirebbero di solitudine. Perché qualunque cosa capiti agli animali presto capiterà all’uomo. Tutte le cose sono collegate.
Voi dovete insegnare ai vostri figli che il terreno sotto i loro piedi è la cenere dei nostri antenati. Affinché rispettino la terra, dite ai vostri figli che la terra è ricca delle vite del nostro popolo. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri, che la terra è nostra madre. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a se stesso. Ma noi consideriamo la vostra offerta di andare nella riserva che avete stabilita per il mio popolo. Noi vivremo per conto nostro e in pace. Importa dove spenderemo il resto dei nostri giorni.
I nostri figli hanno visto i loro padri umiliati nella sconfitta. I nostri guerrieri hanno provato la vergogna. E dopo la sconfitta, essi passano i giorni nell’ozio e contaminano i loro corpi con cibi dolci e bevande forti. Poco importa dove noi passeremo il resto dei nostri giorni: essi non saranno molti. Ancora poche ore, ancora pochi inverni, e nessuno dei figli delle grandi tribù, che una volta vivevano sulla terra e che percorrevano in piccole bande i boschi, rimarrà per piangere le tombe di un popolo, una volta potente e pieno di speranze come il vostro. Ma perché dovrei piangere la scomparsa del mio popolo? Le tribù sono fatte di uomini, niente di più. Gli uomini vanno e vengono come le onde del mare. Anche l’uomo bianco, il cui Dio cammina e parla con lui da amico a amico, non può sfuggire al destino comune.
Può darsi che siamo fratelli, dopo tutto. Vedremo.
Noi sappiamo una cosa che l’uomo bianco forse un giorno scoprirà: il nostro Dio è lo stesso Dio. Può darsi che voi ora pensiate di possederlo, come desiderate possedere la nostra terra. Ma voi non potete possederlo. Egli è il Dio dell’uomo e la sua compassione è uguale per l’uomo rosso come per l’uomo bianco. Questa terra è preziosa anche per lui. E far male alla terra è disprezzare il suo creatore. Anche gli uomini bianchi passeranno, forse prima di altre tribù. Continuate a contaminare il vostro letto e una notte soffocherete nei vostri stessi rifiuti.
Ma nel vostro sparire brillerete vividamente, bruciati dalla forza del Dio che vi portò su questa terra e per qualche scopo speciale vi diede il dominio su questa terra dell’uomo rosso. Questo destino è un mistero per noi, poiché non capiamo perché i bisonti saranno massacrati, i cavalli selvatici tutti domati, gli angoli segreti della foresta pieni dell’odore di molti uomini, la vista delle colline rovinate dai fili del telegrafo. Dov’è la boscaglia? Sparita. Dov’è l’aquila? Sparita. E che cos’è dire addio al cavallo e alla caccia? La fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.
Noi potremmo capire se conoscessimo che cos’è che l’uomo bianco sogna, quali speranze egli descriva ai suoi figli nelle lunghe notti invernali, quali visioni egli accenda nelle loro menti, affinché essi desiderino il futuro. Ma noi siamo dei selvaggi. I sogni dell’uomo bianco ci sono nascosti. E poiché ci sono nascosti noi seguiremo i nostri pensieri.
Perciò noi considereremo l’offerta di acquistare la nostra terra. Se accetteremo sarà per assicurarci la riserva che avete promesso. Lì forse potremo vivere gli ultimi nostri giorni come desideriamo. Quando l’ultimo uomo rosso sarà scomparso dalla terra ed il suo ricordo sarà l’ombra di una nuvola che si muove sulla prateria, queste spiagge e queste foreste conserveranno ancora gli spiriti del mio popolo.
Poiché essi amano questa terra come il neonato ama il battito del cuore di sua madre. Così, se noi vi vendiamo la nostra terra, amatela come l’abbiamo amata noi. Conservate in voi la memoria della terra com’essa era quando l’avete presa e con tutta la vostra forza, con tutta la vostra capacità e con tutto il vostro cuore conservatela per i vostri figli ed amatela come Dio ci ama tutti.
Noi sappiamo una cosa, che il nostro Dio è lo stesso Dio.
Questa terra è preziosa per Lui. Anche l’uomo bianco non fuggirà al destino comune.
Può darsi che siamo fratelli, dopo tutto. Vedremo!”


Capriolo Zoppo, 1854

martedì 6 dicembre 2016

Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil

Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici mostra rigore di pensiero e richiama quella più alta moralità, a partire dalla quale Weil basa il senso della rivoluzione. Moralità e pensiero sono sostenuti dall’amore per la verità. Mentendo alla verità, i paladini dei poteri costituiti e dei partiti politici ammutoliscono il pensiero in dogmi e dottrine inconfutabili; Weil parla della verità vissuta in anima e corpo secondo le parole del Cristo: «sono venuto per rendere testimonianza alla verità».
“Per apprezzare i partiti politici secondo il criterio della verità, della giustizia e del bene pubblico conviene cominciare distinguendone i caratteri essenziali”, scrive Simone e ne attesta tre. Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva (e per passione collettiva si intende fanatismo); un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte; il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. “Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade perché quelli che lo circondano non lo sono di meno”. Considerando la terza caratteristica, Simone la illustra come caso particolare di un fenomeno che si verifica ovunque la collettività prenda il sopravvento sugli esseri pensanti. “I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale in tutta l’estensione di un paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità”.
Weil prosegue ammettendo che il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica nella sua lotta contro l’eresia. E se, nonostante l’Inquisizione, la chiesa non ha soffocato del tutto lo spirito di verità è perché la mistica offriva un rifugio sicuro. Rifugio sicuro non tanto per l’incolumità fisica o la scomunica morale, ma per mantenere viva la verità, la testimonianza della quale “è costituita dai pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante, unicamente, totalmente, esclusivamente desiderosa della verità”.
I partiti le sembrano, in conclusione, un male senza mezze misure. La loro soppressione “costituirebbe un bene quasi allo stato puro”, giacché l’operazione di prendere partito, anche in termini più generali, “di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero”.

giovedì 1 dicembre 2016

Fidel Castro: quando i miti son duri a morire

In una certa parte della sinistra circolano, su Cuba, alcuni miti e alcuni luoghi comuni difficili non dico da rimuovere ma perlomeno da scalfire. Si tratta, perlopiù, di idee preconcette e pesantemente inquinate dall’ideologia, che si manifestano anche in altri ambiti: quando, per esempio, si parla degli Stati Uniti o del conflitto arabo-israeliano. Questi pregiudizi e queste gabbie mentali entrano in gioco anche quando si parla di Cuba. Occorre pertanto, a mio avviso, sgombrare il terreno dagli equivoci e affrontare, punto per punto, le principali obiezioni che vengono comunemente mosse a chi si permette di criticare il regime dispotico di Fidel Castro.
Una prima obiezione che viene avanzata consiste nel ritenere poco opportuno affrontare problemi come la violazione dei diritti umani a Cuba, mentre nel mondo imperversano ben altrimenti gravi violazioni di diritti umani. Resta nondimeno vero che tali violazioni sono effettivamente commesse a Cuba, e a chi, ancora oggi, nello Stato cubano, subisce la mano pesante della repressione del regime credo sia di poca consolazione sapere che in altre parti del mondo si stiano usando, nei riguardi di altri popoli, gli stessi sistemi o anche peggiori. Qualunque violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei cittadini merita a mio giudizio di essere denunciata: a Cuba come in Turchia, in Italia come in qualunque altro paese.
Una seconda obiezione consiste nel ritenere gli Stati Uniti e il loro embargo la causa principale delle sofferenze del popolo cubano. Di fronte all’embargo, sostengono i difensori della dittatura rossa, ben poca cosa risultano le misure di polizia prese da Fidel Castro contro i suoi oppositori. A questo proposito rispondo con le parole scritte dallo scrittore Mario Vargas Llosa: «qualunque embargo economico, da parte di un solo paese, sebbene tanto potente come gli Stati Uniti, è una burla. Se Cuba fosse in condizioni di farlo, potrebbe comprare tutti i prodotti manifatturieri (...) di cui necessita dalla Francia, dalla Spagna, dal Canada, dalla Germania, dall’Italia, dal Giappone, dalla Corea del Sud e da dozzine di altri paesi ansiosi di vendergliele e, molti di essi, a prezzi più competitivi di quelli delle industrie nordamericane», se ciò non avviene, continua poco oltre Vargas Llosa, «ciò accade solo perché la penuria economica dell’isola la rende priva di denaro per pagare le merci in contanti e priva di qualsivoglia credibilità per ottenere prestiti di qualunque specie. Il motivo principale del collasso economico di Cuba non ha nulla a che vedere con l’imperialismo nordamericano, ma con il socialismo cubano».
Un’altra obiezione può essere sintetizzata dall’idea che, nonostante i suoi “difetti”, la rivoluzione cubana (cioè la dittatura di Fidel Castro) debba essere comunque difesa per le conquiste sociali che essa ha conseguito; tali conquiste sociali (si citano, di solito, soprattutto l’istruzione e la sanità) porrebbero Cuba all’avanguardia rispetto a molti altri paesi dell’America centro-meridionale, governati anch’essi da dittature ma mancanti di quel minimo di servizi pubblici essenziali di cui invece godrebbero i sudditi di Fidel Castro. Come anarchico e come libertario, sono dell’idea che le dittature debbano essere condannate senza se e senza ma: senza alcuna reticenza. Nessuna conquista sociale può giustificare la privazione delle libertà fondamentali dei cittadini e la violazione sistematica dei loro più elementari diritti. Se io dico: «a Cuba non c’è libertà» non è una risposta dire «a Cuba ci sono molti laureati». Vale a dire: può darsi che a Cuba ci siano molti laureati, o molti ospedali, o molte scuole, ma questa non è un’obiezione alla constatazione che a Cuba manchi la libertà. Con questo, non voglio naturalmente sostenere che scuole, ospedali e altri servizi sociali siano elementi accessori o poco importanti per una società che voglia dirsi civile: tuttavia è del tutto evidente che non è necessario impiantare dittature o Stati totalitari per far funzionare i servizi pubblici.
La recente scomparsa di Fidel Castro non è detto che provochi automaticamente la caduta del regime. Il controllo dell’economia e della struttura militare è saldamente in mano al fratello Raúl. Già da tempo, c’è una parte consistente dell’apparato che è preoccupata e pensa seriamente al da farsi nel caso in cui le cose si mettano male. Gli anarchici di tutto il mondo possono dare il proprio contributo ad accelerare l’agonia del regime e a restituire al popolo cubano una libertà che gli spetta, come spetta a qualunque altro popolo del mondo. In un recente comunicato, il Movimento Libertario Cubano, esule negli Stati Uniti, «reclama, dai suoi compagni anarchici a livello mondiale, la solidarietà e la richiesta di libertà del nostro popolo e che coloro che ancora lo mantengono rompano finalmente il mutismo complice con la dittatura castrista. Il potere non lo sostiene un solo uomo. Sicari della repressione, eunuchi intellettuali e collaboratori silenziosi fuori e dentro Cuba sono i complici colpevoli di mantenere in catene un popolo da più di cinquant’anni. È ora che come anarchici reclamiamo e proclamiamo la libertà e la giustizia. Speriamo che tutti i compagni di tutti i paesi che non lo hanno ancora fatto si uniscano a questa protesta collettiva contro il dispotismo castrista e occupino il loro posto tra gli esseri umani liberi del mondo».
Che dire alla fine, posso comunque piangere il Fidel rivoluzionario che è riuscito a far sollevare un popolo, ma quel Fidel è morto il 2 gennaio del 1959, il giorno successivo alla vittoriosa rivoluzione; ma non piango assolutamente l’altro Fidel Castro, quello nato lo stesso 2 gennaio 1959, vale a dire quello che si è fatto Stato, quello che ha tradito la rivoluzione in cui credevano tutti i cubani, quello che si è trasformato in un sanguinoso dittatore. A tal proposito porto l’esempio di Che Guevara che, da perfetto rivoluzionario, non sentendosi a suo agio nelle vesti di uomo di governo, si dimise dalle cariche ricevute dopo la rivoluzione, quella di Ministro dell’industria e di presidente della Banca Nazionale di Cuba, per continuare a fare la rivoluzione nel resto del mondo fino a trovare la morte.

mercoledì 30 novembre 2016

Godzilla e il referendum

Fate fatica ad arrivare alla fine del mese? Siete nei guai con il padrone di casa? Stanno per sfrattarvi? Vi portano via i mobili perché avete perso il lavoro e non avete pagato le rate?
Di che vi lamentate? Il governo dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo. Intanto per la povera gente vivere è sempre più difficile.
La destra fascista e leghista all’opposizione ci dice che è tutta colpa di chi è più povero di noi, dell’immigrato, del profugo di guerra: basta chiudere le frontiere e il nostro paese diventa l’Eldorado, dove tutti sono ricchi e felici.
Pure i Pentastellati vorrebbero chiudere le frontiere e cacciare tutti i senza documenti. Vorrebbero anche più galere per rinchiudere i corrotti e i corruttori. Poi tutto andrebbe a posto: noi saremo tutti felici di far ricchi i padroni per bene, saremo contenti che vi siano governi saggi che decidono cosa è meglio per noi.
Gli antagonisti invece hanno trovato la formula magica che risolve tutti i problemi. Votare No alla riforma costituzionale voluta dal governo, per far cadere Renzi e mandare al suo posto i 5 stelle, un partito autoritario, giustizialista e razzista.
Leghisti, fascisti, forza italici, pentastellati, rifondati ed antagonisti andranno tutti a votare No per cacciare Renzi. Anche la minoranza dello stesso PD voterà No per indebolire il governo.
La Carta costituzionale è solo carta. Nei fatti la Costituzione reale del paese è sempre stata lontana da quella formale, comunque condizionata dal trovare un equilibrio tra i maggiori partiti, in un paese destinato all’orbita statunitense. Al di là di qualche generico proclama, la Costituzione difende la proprietà privata e quindi il diritto allo sfruttamento del lavoro, delle risorse e delle nostre stesse vite.
La distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale dimostra che le stesse regole del gioco del potere sono solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lustrando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.
I richiami alla Resistenza farebbero infuriare i tanti partigiani che combatterono perché volevano che la sconfitta del fascismo fosse il primo passo verso la rivoluzione, senza padroni e senza un governo dei pochi su tutti.
In questi ultimi trent’anni chi ha governato ha distrutto diritti e tutele, strappati in decenni di lotte, di chi aspirava ad una totale trasformazione sociale.
Il governi di questi decenni ci hanno detto che non c’erano soldi. Mentivano. I soldi per le guerre, per le armi, per le grandi opere inutili li hanno sempre trovati. Da anni aumenta la spesa bellica e si moltiplicano i tagli per ospedali, trasporti locali, scuole.
Non vogliono spendere per migliorare le nostre vite, perché preferiscono usarli per le guerre non dichiarate, che in barba alla Costituzione, i governi di destra e di sinistra hanno fatto in ogni dove.
Costruire un’opposizione sociale radicale e radicata è un percorso che non consente scappatoie.
Cacciare Renzi per far governare Di Maio? O Salvini, Berlusconi…
Non fa per noi. Cacciamoli tutti! Vadano via tutti!
Il gioco della Carta Costituzionale è come quello delle tre carte: non si vince mai. O, meglio, vince il ceto politico, vincono i populisti, il popolo del no euro, quello degli spaventati dalla finanziarizzazione dell’economia. Non si caccia un mostro evocandone un altro. Il Godzilla che esce dalle acque del Mediterraneo è un mostro nazionalista, che si nutre di muri e filo spinato, che sogna il protezionismo e l’autarchia. Può sconfiggere Renzi, come Trump ha sconfitto Clinton.
Tra i due o tre mostri che governano o aspirano a governare noi rifiutiamo di scegliere, scegliamo il rifiuto. Non vogliamo decidere la foggia delle nostre catene, perché vogliamo spezzarle.
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali, le occupazioni e riappropriazioni dal basso degli spazi di vita.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

Federazione Anarchica Torinese