..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 28 giugno 2015

Il TAV

Il TAV, e le infrastrutture in generale, sono uno strumento della riorganizzazione del territorio in favore degli agglomerati urbani, la forma spaziale idonea allo sviluppo capitalista. Dunque è un mezzo al servizio dell’espansione urbana illimitata, ovvero al servizio dell’urbanizzazione generalizzata. È un’esigenza della mondializzazione economica, una richiesta dei mercati globali. Facilita la penetrazione delle multinazionali negli Stati e contribuisce a trasformare in multinazionali le imprese e i monopoli statali. Di conseguenza l’opposizione al TAV è una lotta contro il capitalismo globalizzatore. Ma non solo su scala europea. Il TAV è anche un’ingiunzione dei dirigenti politici ed economici nazionali e rappresentanti delle autonomie: il capitalismo con nomi e cognomi di casa. Per questo motivo l’opposizione al TAV è in primo luogo una lotta contro la mafia politico-imprenditoriale nazionale. È l’espressione più chiara della lotta di classe moderna e bisogna tenerlo bene in mente quando si passa all’azione. Richiamare il Parlamento Europeo, la Commissione europea o i governi francese, spagnolo e italiano a riflettere sul presente e sul futuro delle reti trans-europee, come ha fatto la Dichiarazione di Hendaye nel gennaio del 2010, è completamente privo di senso.
La proliferazione delle infrastrutture è la prova della guerra totale che il capitalismo si è visto obbligato a muovere contro il territorio e la sua popolazione, i cui avamposti sono rappresentati dalle lobby partitiche e dai gruppi di pressione mediatici, finanziari e imprenditoriali. Sono l’espressione più autentica del nemico implacabile, la personificazione dello sviluppo predatore. Non si arrendono né concedono tregua e rappresentano una minaccia permanente. Non hanno radici. Muovendosi come lupi affamati i dirigenti si sono letteralmente dati alla macchia, o meglio, ci hanno mandato le loro macchine movimento terra e i bulldozer, scortate dalle forze dell’ordine, facendo di tutto per annientare territori che non hanno mai conosciuto né apprezzato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

lunedì 22 giugno 2015

I dannati di Ventimiglia)

Esiste un grave rimosso storico nella società italiana che, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, rappresenta un nodo irrisolto e quasi mai affrontato dal dibattito pubblico e che oggi si impone in tutta la sua stringente attualità. Il passato coloniale dell'Italia è infatti un fantasma del quale in pochissimi vogliono sentire parlare e che ogniqualvolta tenta di riemergere viene immediatamente sotterrato sotto anni di indifferenza e strumentalizzazioni. La narrazione tossica che negli anni ha descritto gli italiani delle colonie come “brava gente” ha avuto come conseguenza immediata il mancato sviluppo di una memoria collettiva in merito a questi avvenimenti. Una memoria collettiva che invece contribuirebbe a smuovere il dibattito dallo stagno della demagogia più pura nel momento in cui si pretende di prendere parola sul fenomeno della migrazione, soprattutto se questa proviene da paesi fino a pochi decenni fa occupati da potenze europee, Italia inclusa.
In questi giorni al confine italo-francese di Ventimiglia stiamo assistendo ad un vero e proprio spettacolo di cannibalismo politico il cui oggetto del contendere è un gruppo di centinaia di persone – uomini, donne e bambini – provenienti dall'Africa che da giorni vengono letteralmente “rimbalzate” da una frontiera all'altra senza che nessuno dei due paesi (entrambi fondatori dell'Unione Europea!) si azzardi a prevedere una soluzione che non passi attraverso l'impiego infame della forza pubblica. Non si trattasse di vite umane, per di più in fuga da guerre e povertà, ma di merci fatturabili il cui margine di guadagno può essere misurato in termini di plusvalore immediato il problema non si porrebbe: per gli autocarri che vanno oltralpe il trattato di Schengen è più valido che mai, anzi. L'importante è trovare il modo di spostare più merci, magari implementando il trasporto di queste ultime moltiplicando le vie di comunicazione, bucando montagne e devastando vallate che poi verranno attraversate da treni ad alta capacità.
Ma i rifugiati portano alla luce un problema di più ampio respiro inserendosi in un'ulteriore contraddizione: quella del mantenimento della sacralità dei confini e dello stato-nazione, che all'oggi costituisce uno dei nervi scoperti del sistema di governance europea e rappresenta, quindi, un possibile punto di rottura. Il continuo arrivo di persone dall'altra sponda del Mediterraneo smantella infatti dalle fondamenta la pretesa inespugnabilità e unità della Fortezza Europa. Le pratiche di resistenza messe in atto dai migranti nel rifiutare il Regolamento di Dublino – e quindi sottraendosi all'odiosa pratica del rilevamento delle impronte digitali rivendicando di fatto il diritto alla libertà di movimento - rivelano con forza un potenziale dirompente, capace di incrinare la divisione capitalistica dei confini e determinando così una dinamica di sfida radicale dal basso nei confronti dell'UE. In questo senso si inseriscono le parole di Angela Davis che è recentemente intervenuta a Berlino sostenendo: “Il movimento dei migranti è il movimento del ventunesimo secolo, è il movimento che sta sfidando gli effetti del capitalismo globale, è il movimento che reclama i diritti civili per tutti gli esseri umani”.
Queste persone, che dal momento in cui sono sbarcate sulle coste italiane non hanno fatto altro che spostarsi in cerca di un futuro un po' meno incerto (se nel frattempo siano riuscite anche a “rubarci il lavoro” è un'incognita alla quale non tentiamo nemmeno di dare una risposta), pretendono anche di ribellarsi alla situazione in cui vengono costrette e non possono essere immediatamente riciclate in un sistema di valorizzazione a fini economici che prevederebbe il loro inserimento in una cooperativa che li sfrutta – pardon, li impiega in lavoro volontario – intascandosi il danaro che riceve per la gestione dell' ”emergenza”. Mafia Capitale docet.
In questo modo il buon selvaggio da ammansire diventa caso senza speranza, talmente inferiore da non servire a niente e, quindi, da cacciare. E, se da un lato è la Francia uno dei prima responsabile dei maggiori conflitti che stanno devastando l'Africa e il Medio Oriente – bombardamenti della Libia, invasione del Mali... -, la totale indifferenza verso ciò che sta capitando a Ventimiglia e la quotidiana esaltazione mediatica della propaganda di Salvini palesano un razzismo istituzionale, dal sapore coloniale, ben radicato anche nel nostro paese.
Quello che accade oggi al confine non è altro che il frutto di una proletarizzazione in corso, dove molti giovani - la composizione delle centinai di migranti a Ventimiglia è fra i 16 e 25 anni più qualche gruppo di famiglie - provano ad assicurarsi un futuro migliore da quello prospettato nel loro paese di origine. Certo, l'ingerenza delle potenze occidentali (e le guerre che queste ingerenze producono per effetto della crisi economica) nei continente africano sono altrettanti fattori dei flussi migratori, ma il nodo politico della questione è la privazione di una vita migliore che oggi ci viene negata dalle politiche di austerità europee che provocano impoverimento, sfruttamento e precarietà.
A un capitalismo sempre più affamato che pretende di appropriarsi non solo dei mezzi di produzione, ma anche delle vite stesse, essere solidali con la lotta dei rifugiati di Ventimiglia non significa semplicemente aiutare “questi poveretti” - inserendosi così nella più sterile tradizione di stampo assistenzialista – ma lanciarsi nella sfida di riprenderci, tutti insieme, le nostre esistenze.

mercoledì 17 giugno 2015

L’illusione ottica della TV

Sullo schermo non c’è nessuna immagine: quel che vediamo è solo lo scintillio fosforescente di migliaia puntini luminosi che si accendono e si spengono in rapidissima successione 35 volte al secondo dando vita alle ombre. È una totale illusione ottica, fatta di luce fittizia, di forme fittizie, di movimenti fittizi, che crea un mondo di spettri. L’accendersi e spegnersi di migliaia puntini luminosi, di cui noi non abbiamo coscienza per via della velocità estrema del movimento provoca un effetto di scintillazione simile a quello della luce al neon. Si era pensato che non avesse effetti su di noi, ma ne ha, e come!
Effetti psichici: prima fra tutti la trance ipnotica che sta alla base della sua attrazione, fa della TV una droga vera e propria.
Noi nella vita non smettiamo mai di pensare, lo facciamo automaticamente, è la nostra attività mentale. Ma quando guardiamo la TV, lei ci riempie di immagini, e non pensiamo più. Lei non ci dà il tempo di pensare, non ci dà il tempo per elaborare, interpretare quello che vediamo. È come ingurgitare continuamente senza masticare mai. La norma è una TV fatta si dice per rilassare, calmare, scaricare. In realtà oltre a questo ci inebetisce riempiendoci di immagini. È noi ci perdiamo dentro.
Mentre l’automobile ci ha cambiato il paesaggio del corpo, la TV ci ha cambiato il paesaggio della nostra mente.
La nostra natura è ormai la TV, ed è una natura morta. E morte sono le mattine e le sere, morte le corte giornate d’inverno e le lunghe sere d’estate, morte le stagioni, morte ammazzate dai milioni di schermi che producono ombre, fantasmi di vite artificiali tutte costruite per scopi che ci sono alieni. Finzioni organizzate, in fondo, per farci consumare e produrre, produrre e consumare, senza altro orizzonte.
E cosa è successo, allo spettatore felice, in tutti questi anni di regno della TV?
È diventato più solo, meno vicino ai parenti, ai vicini di casa, agli amici. È diventato più ingordo, più avido, più insofferente, più insicuro. È diventato più mercenario e più menefreghista. È diventato più competitivo, più arrivista, più egoista. Più schiavo di miti di bellezza, ricchezza e giovinezza che lo schermo gli ha cacciato in testa: sottili digitali indistruttibili catene mentali. 

lunedì 15 giugno 2015

Proviamo a vivere senza orologio

L’immaginazione è l’arma più potente a nostra disposizione, e possiamo usarla nel miglior modo possibile applicandola alla trasformazione della realtà di tutti i giorni, anziché farne una rappresentazione simbolica. Dobbiamo smettere di sacrificare il nostro lavoro per la produzione di massa, dobbiamo stare attenti alla qualità della vita, valutare le nostre azioni in termini di esperienza e non di risultati, perché sappiamo bene che il principio democratico del siamo tutti eguali è una mistificazione bella e buona, imbastita dalle leggi della competizione. Ciò di cui necessitiamo ora è sperimentare un sistema nuovo nel quale tutti possano ricevere una quota di benessere equamente re-distribuita, proviamo a vivere senza orologio senza sincronizzare la nostra vita con il resto del mondo.
Dall’esperienza rivoluzionaria anarchica dobbiamo imparare quanto nessuno sia più qualificato di noi stessi a decidere che cosa sarà della nostra vita, e la versione della realtà che offriamo è incompatibile per natura con i progetti di socialità imposti dal capitalismo nel mondo. L’anarchia ci spinge a desiderare un modello consensuale dove poter scegliere individualmente (e se necessario collettivamente) sul come gestire presente e futuro delle nostre esistenze, senza dover essere necessariamente costretti nelle leggi della domanda e dell’offerta. Prendendo per buono il valore della ricchezza, calcolata sulla quantità di persone e cose che controlla, il libero mercato ha seminato pregiudizi di razzismo ovunque, addomesticando ogni zona vitale con la scelta forzata del lavoro.
L’dea di società consensuale che immaginiamo è fondata su un’economia del dono, in cui il tempo del lavoro possa emanciparsi dalla produzione per riempirsi di libertà, gioco, pigrizia e divertimento. All'accumulare le risorse preferiamo la condivisione totale, al dare le nostre energie l’atto dello scambiarle, e se pensiamo all'amore come ultimo atto sovversivo nella nostra guerra è solo perché vediamo troppo odio in giro a governare il mondo. 

sabato 13 giugno 2015

La massa in quanto tale ha il numero, ma non la ragione

La gestione statalizzata e gerarchica delle masse è talmente paradossale che le cose generalmente considerate giuste sono in realtà profondamente ingiuste e disumane. Ci fanno trascinare in mille e mille paradossi, e più la gente tenta di porvi rimedio -attraverso la legge del sistema, perché solo quella conosce e solo a quella crede- più non si riesce a venirne fuori. Pensiamo anche al paradosso della maggioranza, che poi è sempre condizionata dai media, e che non pensa mai autonomamente proprio perché è massa. Una maggioranza non può che avere come vittima la minoranza che essa stessa crea. Nel sistema statale e competitivo non si aspetta altro di vessare le minoranze per sentirsi superiori. E le minoranze non aspettano altro di diventare maggioranza più per vendetta che per altro, vendetta davvero infantile. Allora tutti corrono verso la maggioranza, e chi si pone su quel carrozzone si bea di appartenere all'alto numero, pensando così, solo in “virtù” di un numero, di dimostrare una propria superiorità di pensiero o di critica sociale. In realtà è esattamente tutto il contrario. Il fatto stesso di essere una maggioranza che crea una minoranza è una cosa ignobile, e pure ipocrita, visto che poi la maggioranza è anche quella che, nella retorica democratica, dice sempre di voler difendere i diritti delle minoranze. In questo senso è più coerente la dittatura palese, dove l'oppressione delle minoranze è accettata, condivisa, ostentata e premiata. La sedicente democrazia ha l'aggravante del paradosso e dell'ipocrisia. Diceva anche Faber: ”Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi, e dire: siamo 600 milioni, siamo 1 miliardo e 200 milioni... e approfittando del fatto di essere così numerosi pensano di poter essere in grado, di avere soprattutto il diritto, di vessare, di umiliare le minoranze”.
Se un popolo volesse davvero la propria unità, farebbe anzitutto in modo di non formare subalternità e spaccature, bandirebbe le competizioni. Ma a quel punto dovrebbe bandire anche il sistema e, prima ancora del sistema gerarchico, la cultura sistemica dominante. Roba per pochi coscienti. Roba da minoranza ribelle e fierA.

martedì 9 giugno 2015

2 giugno. La piazza dei senzapatria

Dal 1946 lo Stato italiano festeggia la nascita della Repubblica. Quest'anno, a Roma, Mattarella ha iniziato la festa un giorno prima quando si è dilettato nel Salone dei Corrazieri con musiche di Verdi, Bellini e Rossini. A Torino, per questo 2 giugno l'amministrazione ha invitato i cittadini, ad un assaggio di guerra nel rifugio antiaereo realizzato negli anni '40, per calarsi “nei panni di chi ha vissuto i giorni drammatici dei bombardamenti”. Occasioni per i rappresentanti dello Stato per parlare di eserciti, guerra e morti, declinando al passato i massacri avvenuti nel nome della patria, della nazione. Massacri di cui i principali responsabili sono sempre stati i governi e le autorità militari, che per la loro definizione richiedono la presenza degli eserciti, delle armi, delle guerre, della morte, “perché in ogni parte del mondo si affermi la pace”...
La “repubblica” nata il 2 giugno 1946 festeggiava la caduta del regime fascista. Ma oggi, dopo quasi settanta anni, le istituzioni statali appoggiano le formazioni (neo)fasciste e razziste come Casapound. Lo scorso 24 maggio a Gorizia i fascisti hanno organizzato, in sintonia con i rappresentanti dello Stato, una manifestazione militarista e nazionalista per celebrare l’ “esempio luminoso” di chi nelle trincee “sacrificò se stesso”. Ma per ricordare il massacro di migliaia di soldati mandati al macello ci hanno pensato più di mille antifascisti che sulle note di “O Gorizia, tu sei maledetta” ci hanno ricordato la necessità, ancora oggi, di contrastare qualsiasi forma di fascismo e militarismo.
Ieri come oggi, la disinformazione e la propaganda al servizio della visione militarista, nazionalista e patriottica degli Stati e dei loro servi, servono a tenere buone le coscienze sporche dei loro cittadini. Ieri chi si ribellava e disertava veniva giustiziato. Oggi chi si ribella, chi irride l’esercito o brucia una bandiera finisce in tribunale rischiando anni di galera.
I governi amano le feste come quella del 2 giugno. Le amano perché sono occasioni in cui le parate militari nascondono le ingiustizie, le oppressioni e le morti del presente. Oggi la “festa della Repubblica” dice niente delle circa 1800 persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi cinque mesi; persone che volevano uscire da una guerra di cui lo stato italiano è uno dei complici. Una festa che non dice niente di come in Libia si stia preparando una missione di guerra. Una “missione”, chiamata Eunavfor Med, in cui l'esercito italiano insieme ai suoi alleati europei, preparano da anni l'invasione di un altro territorio e che adesso, con il pretesto di “fermare gli scafisti”, pensano di aver trovato l'occasione giusta. Il fenomeno dell'immigrazione diventa così il pretesto dei governi per portare avanti i loro odiosi progetti per il potere geopolitico ed economico. La “festa” del 2 giugno ha nascosto la spesa militare del governo italiano. Quasi quattro miliardi di euro già spesi per i cacciabombardieri F-35; entro il 2027 si stima un'ulteriore spesa fino a dieci miliardi. Affari di morte con soldi pubblici, “perché in ogni parte del mondo si affermi la pace”...
La “festa” del 2 giugno con la sua parata militare ha nascosto l'investimento italiano nella militarizzazione dei quartieri in cui viviamo. “Interessi diplomatici”, “grandi eventi” (commerciali o religiosi), “riqualificazione”, “sicurezza” sono i cavalli di battaglia di un sistema statale repressivo che usa il proprio esercito come risposta ai problemi della società. Una forza del (dis)ordine che mette in galera chiunque mostri il coraggio di opporsi agli sfratti, alle deportazioni, al razzismo e al fascismo. Una forza che opprime chi lotta contro i centri di identificazione ed espulsione (CIE), galere pensate per gli stranieri senza documenti, per le persone colpevoli di … “clandestinità”. Una forza che opprime chi vive nei “campi rom”, luoghi di segregazione razziale creati dallo stesso Stato italiano. Non esiste stato senza esercito: e tutto questo“perché in ogni parte del mondo si affermi la pace”…