..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 29 aprile 2015

Primo Maggio a Torino (e Milano)

Il primo maggio spezzone anarchico al corteo da piazza Vittorio. Appuntamento alle 8.
Dopo la manifestazione torinese saremo a Milano per il Primo Maggio No Expo.
Partenza in auto da corso Palermo 46.
Di seguito il comunicato della Federazione Anarchica Milanese.

1 maggio 2015
"Expropriamo Expo"
Le compagne e i compagni della Federazione Anarchica Milanese invitano le realtà anarchiche, anarcosindacaliste e libertarie a dare vita, in modo caratterizzato, comunicativo e ben visibile con bandiere e fazzoletti anarchici, ad uno spezzone rosso-nero all'interno del corteo "MayDay - No Expo".
Per tutt* il concentramento per il corteo è a partire dalle ore 13 in via Torricelli 19 (sedi del gruppo anarchico "Bruzzi-Malatesta" e della sezione USI-AIT "Ticinese") per poi da qui raggiungere la partenza della MayDay - No Expo" prevista per le ore 14 in piazza XXIV Maggio (900 mt).
Lo spezzone rosso-nero sarà aperto dallo striscione "Expropriamo Expo" con A cerchiata.
Logistica:
1) - Via Torricelli 19 si può raggiungere con la metropolitana MM2 fermata Romolo e 700 mt a piedi (oppure due fermate di autobus linea 91)
- Piazza XXIV maggio si può raggiungere con la metropolitana MM2 fermata Pta Genova e 500 mt a piedi.
2) Dalle ore 9 la sede del gruppo anarchico "Bruzzi - Malatesta" sarà aperta per chi arriva da fuori Milano.

3) Nei pressi della sede della sezione USI-AIT "Ticinese" vi sarà una piazza tematica rievocativa delle origini storiche del "1 Maggio" e la possibilità di pranzare presso il CSOA "Cox 18".

Il noexpo fa paura… a loro! Sgombero della Base solidarietà popolare a Milano

I movimenti che si mobilitano contro l'Expo 2015 stanno decisamente riuscendo a mettere in difficoltà la macchina dell'evento milanese mostrando gli interminabili casi di lavoro nero, lavoro gratuito, speculazione e devastazione del territorio: insomma tutto quello che Matteo Renzi prepara per l'Italia. E allora, come democrazia impone, si moltiplicano le operazione di repressione preventiva in vista della grande manifestazione no expo del primo maggio.
Dopo gli arresti di Torino della settimana scorsa, stamattina la polizia ha invaso il quartiere Giambellino irrompendo nella base di solidarietà popolare, sede del comitato degli abitanti del quartiere, "a caccia di black-bloc". Per ora magro bottino, otto ragazzi francesi che dormivano alla base sono stati fermati e la polizia ha sequestrato addirittura … un pericoloso sacchetto di addobbi natalizi. Insomma ancora una goffa operazione della questura per cercare d'intimidire e scoraggiare la partecipazione alla grande manifestazione di venerdì.
La mattinata è stata anche l'occasione per sgomberare tre appartamenti vuoti che erano stati occupati per organizzarsi contro l'emergenza abitativa, a riprova che sfratti e polizia sono la sole manifestazione della fiera del food nei quartieri popolari.
Diversi solidali si stanno radunando in questo momento al mercato comunale di via lorenteggio per reagire all'ennesima provocazione della polizia.
Solidarietà e vicinanza ai compagni milanesi. Il noexpo fa paura… a loro!

domenica 26 aprile 2015

Gli anarchici e la Resistenza


Gli anarchici e la Resistenza. C’entrano, dunque? C’entrano eccome! C’entrano da molto prima della guerriglia partigiana del ’43-’45. C’entrano fin dal 1920, prima ancora che lo squadrismo si facesse governo e poi regime. Gli anarchici erano, all’epoca, una componente importante del movimento operaio. Il loro quotidiano, «Umanità Nova», tirava cinquantamila copie, non molto meno del socialista «l’Avanti» e del «Corriere della Sera». Influenzavano in modo determinante l’Unione Sindacale Italiana, che aveva centinaia di migliaia di iscritti ed il cui segretario era per l’appunto un anarchico, Armando Borghi. E anarchici erano molti leader sindacali dei marittimi, dei ferrovieri, dei metalmeccanici, dei braccianti.
Nulla da stupirsi se gli anarchici hanno resistito o, meglio, se si sono attivamente opposti al fascismo fin dalle sue prime manifestazioni. Erano incompatibili. Libertari per definizione gli anarchici. Autoritario il fascismo. Egualitari gli anarchici, disegualitario e gerarchico il fascismo. Rivoluzionari gli anarchici, contro-rivoluzionario il fascismo. Gli anarchici: «Né servi né padroni». Il fascismo strumento di vecchi e nuovi padroni, ideologia di una servitù di massa.
Gli anarchici resistono anche con le armi in pugno alla resistibile ascesa del fascismo. Gli Arditi del Popolo, ex combattenti organizzati per l’autodifesa popolare, sono essenzialmente appoggiati da anarchici e socialisti «massimalisti» e osteggiati ufficialmente dai partiti socialista e comunista. Gli Arditi si oppongono al terrorismo squadrista, spesso spalleggiato dai carabinieri. E più di una volta mettono in fuga carabinieri e fascisti. Come a Sarzana nel ’21. Come, sempre nel ’21, a Parma. A Parma l’insurrezione popolare contro i fascisti alza le barricate. Su una barricata, tenuta dagli anarchici, c’è anche un giovanotto di Carrara, Ugo Mazzucchelli, che ritroveremo vent’anni dopo a capo di una delle formazioni partigiane anarchiche. Non è l’unico nome che ritorna, in questa storia.
Durante il ventennio continua senza tregua la lotta antifascista degli anarchici. Sia in Italia sia all’estero, in Francia soprattutto, dove emigrano a migliaia, per sfuggire alla repressione. In Italia testimonia della resistenza anarchica il numero dei loro confinati, ben superiore ai dati ufficiali perchè i tribunali fascisti tendono a etichettare gli anarchici come «comunisti».I libertari sono stati da un quarto ad un terzo di tutti gli antifascisti passati per il confino. Significativamente, gli anarchici non vennero mai ufficialmente liberati dal confino. Neanche dal governo Badoglio. Dal confino vennero dapprima liberati, nel luglio ’43, i «moderati», poi i socialisti e i comunisti. I più cattivi, gli anarchici, per lo più segregati nell’isola di Ventotene, vengono trasferiti nel campo di concentramento di Renicci d’Anghiari, in provincia di Arezzo, dove erano rinchiusi i prigionieri di guerra slavi e albanesi. L’otto settembre, tuttavia, i carcerieri se la squagliano e anche gli anarchici sono liberi. Direttore delle guardie a Ventotene è un certo Marcello Guida. Un’altro nome che ritorna. Nel dicembre 1969 è questore di Milano. È lui che, mentendo, dichiara suicida il defenestrato Giuseppe Pinelli.
Testimonianza della lotta antifascista degli anarchici in Italia è anche la serie di attentati – purtroppo falliti – al «Duce». Anteo Zamboni, Michele Schirru, Angelo Sbardellotto, Gino Lucetti… Tutti uccisi. Lucetti era un giovane carrarino. Da lui prese nome la prima formazione partigiana libertaria attiva a Carrara.
Anche nell’esilio i «fuoriusciti» anarchici continuano la lotta contro il fascismo, soprattutto a sostegno finanziario e logistico della resistenza interna. Ma è anche di straordinario rilievo la partecipazione di centinaia di esuli libertari italiani alla Guerra Civile spagnola del 1936. Tra i primi, con la colonna Rosselli, ad accorrere al richiamo della Rivoluzione sociale e della solidarietà internazionale antifascista.
Nell’estate – autunno del ‘43 si formano in Alta Italia le prime formazioni partigiane contro i tedeschi e i loro alleati fascisti della Repubblica di Salò. È l’inizio della Resistenza intesa in senso stretto. Una parte degli anarchici italiani, una parte minoritaria ma consistente, non vi partecipa. Alcuni perché non-violenti, altri perchè non vogliono partecipare come comparse a quella che ritengono una guerra tra potenze imperialistiche, altri ancora perché nutrono un’estrema diffidenza nei confronti di Fronti popolari e di formazioni militari a egemonia comunista, dopo la drammatica esperienza spagnola ed il suo scontro fratricida tra antifascisti.
Al contrario, molti anarchici partecipano attivamente alla lotta partigiana, sia sulle montagne sia nelle città. Sono migliaia, ma per lo più in ordine sparso. Per la maggior parte gli anarchici aderiscono individualmente o in piccoli gruppi alle formazioni partigiane che facevano capo ai vari settori dell’antifascismo di sinistra. Soprattutto confluiscono nelle Brigate Garibaldi.
Un caso a parte è la formazione «Silvano Fedi» di Pistoia, formazione autonoma e non caratterizzata politicamente in modo esplicito ma costituita in gran parte da libertari. Ci furono, poi, due casi notevoli di formazioni partigiane dichiaratamente libertarie, seppure inquadrate in più ampie formazioni non-anarchiche.
L’altro caso notevole è quello di Milano. Qui si formano ed operano le Brigate «Bruzzi-Malatesta», inquadrate nelle formazioni socialiste Matteotti. Malatesta è ovviamente il più famoso anarchico italiano, morto al domicilio coatto nel 1932. Pietro Bruzzi è un anarchico milanese, già volontario in Spagna, fucilato dai tedeschi nel ‘44. Le brigate Bruzzi-Malatesta, forti di un paio di centinaia di combattenti, operano sia a Milano sia nel Pavese sia nelle valli bresciane. Hanno un ruolo di rilievo in diverse clamorose azioni partigiane, come la liberazione dei prigionieri di Villa Triste, centro di detenzione e tortura della famigerata «banda Koch», talmente crudele da essere invisa perfino a tedeschi e repubblichini.
Nel frattempo si organizzano anche scioperi nelle fabbriche cittadine.
Il 25 aprile del 1945 i partigiani delle brigate anarchiche «Bruzzi-Malatesta» occupano le fabbriche Carlo Erba, per impedirne la distruzione da parte dei tedeschi in fuga; prendono sotto controllo il raggio politico del carcere de S. Vittore e partecipano occupano la sede dell’EIAR (la RAI di oggi) in corso Sempione a Milano. La Resistenza si fa Liberazione. O quantomeno così si pensa.
Anche Giuseppe Pinelli, allora sedicenne, fa parte, come staffetta partigiana, delle Bruzzi-Malatesta. Ventiquattro anni dopo... Vi ricordate il 15 dicembre del ’69? Vi ricordate del prefetto Marcello Guida? Il fascismo non è finito nel ’45.
Tessera di appartenenza della staffetta partigiana Giuseppe Pinelli, all'epoca sedicenne

giovedì 23 aprile 2015

Modello Expo: ci vogliono schiavi e dicono che siamo viziati

Ieri il Corriere della Sera ha dato l'ennesima notizia sui problemi di Expo 2015, a soli 7 giorni dalla sua inaugurazione ufficiale. Questa volta non si tratta di corruzione, ritardi nelle costruzioni o morti sul lavoro. A vederla da certe angolazioni è addirittura una notizia che rincuora: per quanto la crisi morda i giovani di questo paese non sono ancora completamente disposti a fare da zerbini per gli organizzatori del grande evento.
Infatti il giornale lamenta la difficoltà avuta dagli organizzatori del grande evento a trovare giovani disposti a lavorare negli stand per 1300 euro al mese (addirittura!). Manco a dirlo, il messaggio (neanche troppo) implicito è che i giovani italiani sono troppo svogliati, viziati, schizzinosi, choosy. Non a caso lo stesso articolo contrappone l'esempio virtuoso dei giovani che hanno accettato di lavorare gratuitamente.
Dai commenti che si leggono sui social network la realtà pare essere diversa, un'idea è data dall’articolo (a seguito del post) apparso online. Insomma chi si occupa di reclutare i lavoratori per Expo naviga a vista, nella completa disorganizzazione, ma pretende che i giovani siano pronti e disponibili a lasciare tutto e partire al servizio del grande evento senza porre domande sul contratto e su quanto verranno pagati. Oltretutto si scopre che in molti casi non si tratta di 1300 euro, ma 500, 190 e via dicendo... (e chi ci vive a Milano con queste cifre?)
Anche questa volta i portavoce della classe dirigente del paese hanno provato a scaricare la responsabilità di questo (ennesimo) fallimento di Expo 2015 sulle spalle dei giovani. Allo stesso tempo aggiungono un mattoncino alla narrazione tossica dei giovani disoccupati e precari perché choosy (schizzinosi), cercando di delegittimare ogni tentativo di protesta, di rabbia o di sdegno che una generazione tremendamente impoverita e precarizzata potrebbe mettere in campo.
Ecco che cosa verrà esibito nei padiglioni di Expo: la logica del Jobs Act messa all'opera e il modello di paese e di relazioni lavorative che Renzi vuole per l'Italia. Zero questioni, zero domande, zero diritti: devi ringraziare se ti viene offerto un lavoro (quindi lo puoi fare anche gratis o a pagamento). Ovviamente chi non accetta queste condizioni sarà automaticamente lo svogliato capace solo di lamentarsi e causa dei mali del paese.

Da    nextquotidiano.it  

Ma davvero i bamboccioni d'Italia hanno rifiutato compensi invidiabili per partecipare alla kermesse milanese? Basta andare a leggere i commenti agli articoli per scoprire che la retorica dei giovani choosy (schizzinosi) forse in questo caso non c'entra una mazza.
Eppure, per una controprova bisognerebbe ascoltare anche l’altra parte. E un modo efficace è quello di andare a vedere alcuni commenti di persone che sono passate attraverso il percorso di selezione per l’Expo. Sulla pagina dell’Huffington Post, che ha parlato dell’articolo del Corriere della Sera, si legge ad esempio questo commento:

Mapu Pompeo: Ecco il mio punto di vista: Ho mandato il cv a Manpower per far parte dello staff di Expo a Ottobre, ho fatto tutti i test attitudinali a dicembre, ho fatto il colloquio di gruppo e il colloquio individuale a Gennaio, mi hanno dato un riscontro il 10 aprile, chiamandomi al telefono e dicendomi “Congratulazioni è stata presa, domani le mandiamo la graduatoria ufficiale”. La graduatoria ufficiale non è mai stata mandata. Ho mandato mail, ho chiamato e mi è sempre stato risposto che non ne sapevano nulla. Il 16 Aprile mi chiama un incaricato di Manpower per dirmi che la formazione sarebbe cominciata il 21 Aprile e che mi avrebbero mandato (‘naltravolta) la graduatoria. Nulla. Mi ritelefona il 17 Aprile dicendomi che ci saremmo risentiti per la conferma ufficiale nei giorni successivi.
Il 20 Aprile mi mandano una mail con su scritto che avrei dovuto cominciare la formazione il 22 Aprile a Milano. Non una graduatoria ufficiale, nessuna menzione al contratto di lavoro o di stage. Il 21 Aprile mi mandano una mail dicendomi che per essere confermata dovevo superare un questionario. (Scusa ma non ero già stata preso e non incomincio il giorno dopo la formazione?). Ho fatto ripetute domande circa la formazione senza nessuna risposta (La formazione verrà pagata? Dopo la formazione si firmerà un contratto di lavoro?). Tutto questo senza contare che per una posizione di Communication and Social Network il compenso è 500 euro al mese per 6 mesi, dopodiché sei sicuramente a casa,di cui ne avrei dovuti spendere 350 per un abbonamento ai mezzi per arrivare là in quanto Expo non ha nessuna convenzione con i mezzi di trasporto.

Quindi ricapitolando ho rifiutato un lavoro perché con 150 euro al mese non mangio, perché non mi sembra serio questo processo di selezione (e in generale la gestione dell’Expo in toto) e perché ho la fortuna di avere un lavoretto e non posso mollarlo dall’oggi al domani (dato che la conferma semiufficiale scritta mi è arrivata il 20 Aprile e avrei dovuto cominciare il 22 Aprile SENZA un cavolo di contratto). Fine.

sabato 18 aprile 2015

Migranti a Palermo: una lezione proletaria di accoglienza

Mentre continuano gli sbarchi e le morti dei migranti nel mediterraneo e sulle coste siciliane (circa 1200 solo la scorsa notte, più di 5000 negli ultimi giorni), il 15 aprile a Palermo, nel quartiere Ballarò - Albergheria, è accaduto qualcosa di emblematico che non può che farci riflettere. In un quartiere ad altissima densità popolare e continuamente oggetto di blitz e retate di polizia e vigili urbani contro venditori e commercianti ambulanti dello storico mercato rionale, il passaggio di un pullman con a bordo migranti somali ed eritrei sbarcati nella notte, ha dato vita ad una spontanea e genuina manifestazione di solidarietà. Incuranti delle appena svoltesi operazioni di sgombero di stand e bancarelle da parte della polizia, molti degli stessi “abusivi e illegali” commercianti e abitanti della zona, hanno offerto cibo, acqua e vestiti ai migranti rinchiusi nel pullman e scortati dalla polizia.
Ciò che al momento ci viene spontaneo, è pensare che forse sono proprio quei proletari “abusivi e illegali”, quelle fasce popolari oggetto della più feroce criminalizzazione (etica e a volte addirittura antropologica) e dello stigma dell’arretratezza “civica”, ad essere portatori di veri e genuini valori di solidarietà, umanità e accoglienza. Valori sbandierati ma nei fatti assenti invece, nella quasi totalità non solo del dibattito e dell’intervento politico istituzionale (fatto piuttosto da respingimenti in mare e Cie), ma sovente anche di buona parte di quella che si (auto)definisce “società civile”. Una risposta anche a chi come Salvini, nei giorni scorsi in seguito al crollo di un pezzo dell’autostrada Palermo-Catania aveva invitato i siciliani a ribellarsi contro i migranti, colpevoli di sottrarre risorse alla popolazione locale e alla gestione di servizi e infrastrutture nell’Isola. Un episodio, quello di oggi, di tutt'altro senso e sostanza rispetto alla volontà politica (non solo salviniana) e mediatica della creazione di un immaginario collettivo di "guerra tra poveri". Immaginario utile, non in tal caso, alla frammentazione dell'immenso panorama degli sfruttati; siano essi migranti o proletari.
Di seguito riportiamo la testimonianza di un cittadino presente quella mattina a Ballarò e che ha voluto esprimersi pubblicamente così su facebook.

“Quando, stamattina, la volante è entrata dentro il mercatino delle "cose Vecchie" di Ballarò, alcuni dei venditori si sono allontanati, da un po’ di tempo la polizia pattuglia la zona e sequestra la merce ai venditori della zona, i commercianti preferiscono lasciare la roba incustodita e allontanarsi per evitare una denuncia. Sono rimasti solo i più poveri, quelli che vendono povere cose, tipo scarpe usate e vecchi abiti, vecchi peluche, giocattoli rotti, fumetti e libri usati. A seguito della volante è entrato un autobus, poi un'altra volante a bloccare la strada. L'autobus è rimasto al centro, fermo. Dai finestrini sono cominciate ad affacciarsi le facce dei ragazzi, forse Somali o Eritrei. Qualcuno dei venditori di cose vecchie si è avvicinato incuriosito, poi sono arrivati gli altri a guardare le facce stanche di quei ragazzi africani. C'è una donna bellissima che ha un bambino di 7 o 8 mesi al massimo. Il piccolo ride e saluta con la manina, attraverso il vetro, quelle facce curiose...saluta e ride. Ed è allora che succede. Un vecchio dai capelli bianchissimi si avvicina alla sua bancarella, prende un paio di vecchie ciabatte e le porge alla donna; altre mani si spingono fuori dai finestrini ed il vecchio afferra tutta la sua merce e comincia a regalarla ai passeggeri del bus: scarpe, maglie, asciugamani ..... e tutti lo imitano, tutti quei disperati che sbarcano il lunario vendendo roba vecchia per pochi euro, cominciano a regalare la loro merce ad altri migranti. Quelli che vendono fumetti e vecchi libri corrono a comprare casse d'acqua e succhi di frutta e panini e il piccolo dietro il vetro adesso ha pane e addenta uno sfincione e continua a ridere e a salutare, stingendo un vecchio Panda con un occhio solo.”
Guardo tutto e faccio qualche foto .... Il vecchio con i capelli bianchi, quello che per primo ha cominciato a regalare la sua roba mi si avvicina e mi chiede una sigaretta "non ho fatto in tempo ad accattarle (a comprarle)" ha gli occhi lucidi, gli do la sigaretta e gli dico che ha fatto una cosa meravigliosa .... lui sorride e non risponde, sul tappeto a terra gli è rimasto solo qualche vecchio giornale e un paio di Tex strappati.
Anche con i cassonetti traboccanti di “munnizza”, tutto attorno a me è cosi Bello, Magnifico, Pulito ..... Mi allontano, passo davanti all'autobus, .... guardo i Miei concittadini e veramente “ci criu ca postu megghiu o munnu pi nasciri un cinnè” (ci credo allora veramente che posto migliore dove nascere al mondo non c’è).

Giovanni Basile

martedì 14 aprile 2015

Ostuni, crolla il soffitto di un'aula. Dove sono le #scuolesicure di Renzi?

Ennesimo crollo in una scuola: l'ultimo episodio in ordine di tempo è avvenuto oggi in un istituto elementare di Ostuni, in provincia di Brindisi. Il crollo si è verificato in mattinata, a lezioni in corso, quando uno spesso pezzo di intonaco, largo cinque metri quadrati, si è staccato dal soffitto, cadendo in testa agli alunni di una classe di seconda elementare e ferendo, fortunatamente in maniera non grave, due bambini colpiti alla testa dai calcinacci, assieme a una maestra caduta nel tentativo di soccorrerli.
Ciò che fa ancora più rabbia, in questo caso, è che la scuola di Ostuni era appena stata ristrutturata: 4 anni di chiusura e più di 1 milione di euro spesi per metterla in sicurezza, fino alla riapertura avvenuta solo pochi mesi fa, a Gennaio. Non è difficile immaginare che anche stavolta alla tutela della sicurezza siano stati anteposti ben altri interessi tra appalti, profitti e speculazioni.
Il cedimento di questa mattina è solo l'ultimo di una lunga serie e da anni gli studenti di tutta Italia denunciano le condizioni precarie degli edifici in cui sono costretti a trascorrere le proprie giornate scolastiche. A ogni crollo assistiamo al rituale coro di indignazione e promesse da parte di enti locali e governo, pronto a sgonfiarsi in un nulla di fatto non appena il clamore mediatico si spegne.
D'altronde a far capire quale sia l'idea del governo in materia di sicurezza delle scuole è il commento dello stesso ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini (quella de "La buona scuola"...). Il ministro ha infatti promesso tempestivi accertamenti di responsabilità sull'accaduto, aggiungendo però che in altri casi (cioè quelli che accadono frequentemente in moltissimi altri istituti) i crolli erano "giustificati" (sic!) dalla vetustà degli edifici. Come a dire che nella maggior parte delle scuole italiane può capitare di vedersi crollare in testa un soffitto e la responsabilità sarebbe da imputare unicamente alla data di costruzione dell'edificio e non ad anni di politiche di disinvestimento e tagli sulla formazione in cui il problema dell'edilizia scolastica è stato sistematicamente ignorato o relegato a intervento non prioritario.
Di fronte a episodi come quello di stamattina, degli annunci del venditore di fumo Matteo Renzi sull'investimento da parte del governo di un miliardo di euro nell'edilizia scolastica per avere #scuolebelle #scuolenuove e #scuolesicure non rimangono che gli hashtag. Basta confrontare qualche cifra (facciamo un esempio? gli investimenti sull'edilizia scolastica corrispondono a meno di un chilometro di Tav...) per capire che, dall'alta velocità all'Expo, le priorità rimangono grandi opere e grandi eventi in cui buttare miliardi di soldi pubblici a scapito della tutela della sicurezza e di una vita dignitosa per tutti e tutte.

venerdì 10 aprile 2015

La macchina dell'Expo ha un buco nella gomma ...

L'inaugurazione dell'Expo di Milano si avvicina. Un mega-evento che assomiglia curiosamente alle grandi opere che avanzano a forza di devastazione dei territori e spreco di risorse. Mentre non si riescono più a nascondere i ritardi, le mazzette e le inefficienze interessate dei cantieri che vanno a profitto dei soliti noti,esplodono i costi di un'opera finanziata in gran parte con soldi pubblici e di cui bisogna tenere in conto anche gli effetti indiretti e duraturi come le inutili infrastrutture create appositamente per l'evento e i tagli che l'evento genererà. Soldi pubblici che sono prelevati attraverso un sistema di tassazione sempre più schiacciato sulle imposte locali scarsamente progressive e che quindi sono prelevati in misura sempre più importante direttamente sulle persone: tutti pagano per il profitto di pochi.
A completare il quadro le attenzioni del “pubblico” sembrano essere molto limitate e i proclami trionfalistici sui biglietti venduti (alle agenzie) non corrispondono minimamente a quelli comprati (dai clienti).
Ma sarebbe un grande errore limitare le problematicità di Expo alla corruzione e alle inefficienze, che potrebbero quindi essere risolte con una miglior governance. Il nodo fondamentale è riuscire a leggere Expo 2015 come un evento nel quale si condensano tutte le linee direttrici del modello di sviluppo che propone Matteo Renzi per l'Italia: non un evento isolato ma la forma più avanzata di ciò che attende il paese. Si tratta di una grande opera particolarmente insidiosa perché gioca su scivolamenti linguistici proficui per la controparte: si crea lavoro (ma non è pagato), si vendono biglietti (ma non sono comprati) si vende food (ma non è mangiato).

giovedì 2 aprile 2015

4 aprile 1860: la rivolta della Gancia

La Sicilia è sempre stata una terra di rivolte e rivoluzioni. Alcune sono diventate famose, come la rivolta popolare iniziata il 31 marzo 1282 e battezzata “Vespri siciliani”; altre sono meno famose, come quella del 1848 (il primo moto rivoluzionario dello storico 1848 ebbe luogo a Palermo il 12 gennaio); altre sono del tutto sconosciute (nei libri di scuola non vengono per niente menzionate), come le rivolte siciliane del 1647, i moti del 1820, del 1856 e del 1860.
Il 4 aprile del 1860, a Palermo, scoppiò la cosi detta “Rivolta della Gancia”. La città non si era rassegnata all’esito infelice della rivoluzione del 1848 e già subito dopo la riconquista da parte dei Borbone, aveva ripreso e continuato a cospirare. Fin dai primi mesi di quell’anno, i palermitani si preparavano all'azione. Esisteva in quel periodo il Comitato Segreto Rivoluzionario, dove si erano formate due correnti: da una parte i popolani rappresentanti la minoranza, dall’altra i borghesi e i nobili, la cosiddetta ala moderata, ovvero la maggioranza. I primi avevano assunto subito una posizione interventista, ed erano fautori di un’immediata azione armata; i secondi si dichiaravano attendisti e si opponevano al ricorso alle armi. Si aspettava, comunque, solo il gesto che ufficialmente ne segnasse l'esordio; almeno, questa era la convinzione del palermitano Francesco Riso, operaio specializzato alla manutenzione e sorveglianza delle condotte e delle reti di distribuzione dell’acqua potabile, che si ritrovava ad agire contro il diverso parere dell’ala moderata del Comitato.
Questa guardava con sospetto Riso per almeno due motivi: per le sue idee politiche e per l'estrazione sociale, perché anche se benestante era solo un fontaniere. E in Sicilia l'iniziativa era - ancora e sempre - saldamente nelle mani di nobili liberaleggianti, che cercavano la rivoluzione politica ma temevano quella sociale.
Francesco Riso aveva reclutato operai e artigiani; questa connotazione popolare del movimento insospettì la parte moderata e borghese del Comitato, che temeva di perdere il ruolo di classe guida della rivoluzione. Inutilmente il fontaniere si affannava ad insistere sulle buone possibilità di riuscita del moto, perché era proprio il suo eventuale successo a preoccupare il Comitato. Borghesi e nobili non avevano la sicurezza che sarebbe scoppiato il tipo giusto di rivoluzione: avevano paura che l’organizzazione popolare del moto potesse stravolgere l’ispirazione politica dell’insurrezione.
Così Francesco Riso agì da solo. Affittò un magazzino vicino casa, proprio accanto al convento della Gancia dove nascose fucili e munizioni; un altro magazzino lo affittò alla Magione, un altro vicino alla Zecca. Organizzò quindi l'insurrezione. In tutto poté disporre di 83 uomini che suddivide in tre gruppi, erano operai e artigiani che all'alba del 4 aprile devono fare scoppiare la rivoluzione.
Ma un confidente della polizia aveva fatto il suo lavoro, e i congiurati trovarono le pattuglie borboniche ad attenderli vicino il convento della Gancia. Lo scontro a fuoco fu rapido, nella luce incerta dell'alba Riso si accorse che i suoi uomini erano circondati e si rifugiò dentro la Gancia. I soldati abbatterono la porta, penetrarono nel convento soffocando così sul nascere l'insurrezione. I combattimenti continuarono nelle sale che oggi ospitano l' Archivio di Stato. Riso si rifugiò sul campanile, chiamò aiuto suonando la campana a martello. Ma nessuno si mosse, rapidamente il tentativo di rivolta fallì. Francesco Riso fu ferito, il sole non era ancora alto quando venne catturato assieme a quattordici dei suoi uomini; tra i rivoltosi si contarono 20 vittime.
Per scoraggiare nuove sollevazioni, la polizia borbonica il 14 aprile fucilò tredici uomini, senza effettuare alcun processo. Francesco Riso, morì in ospedale il primo maggio successivo.
Quella del 4 aprile 1860 fu una rivolta di carattere popolare e antiborghese, organizzata e decisa da un gruppo di artigiani e popolani, che si infranse nella realtà del moderatismo dei ceti sociali dominanti. La nobiltà e la borghesia, infatti, in seguito sostennero il programma di unificazione nazionale, avvenuto un mese dopo con lo sbarco dei Mille, non per dovere rivoluzionario o patriottico, ma per calcolo sottile: il miglior modo di sopravvivere al crollo del Regno delle Due Sicilie, conservando i vecchi privilegi e l’antico potere, era quello di modificare le forme senza cambiare la sostanza.
Sta di fatto che ancora una volta Palermo, come già nel 1848 e tante altre volte, aveva dato il segnale a tutta la Sicilia, anche se la rivolta venne spenta prima ancora che i suoi abitanti se ne accorgessero. Lo squillo della Gancia, nervoso e strozzato, testimoniò come al di là del tragico fallimento, il credito morale e politico della città fosse notevole e risolutivo. Con la rivolta del 4 aprile il fuoco, che covava sotto le ceneri delle insurrezioni tentate e fallite fino allora, divampò, spianando la strada ai futuri eventi storici.