..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 26 marzo 2015

25 marzo 1871: la Comune di Parigi

Il 25 marzo 1871, i cittadini di Parigi, che già dal 18 marzo avevano, con una rivolta, assunto il controllo della capitale, prendono anche formalmente il governo della città, dando inizio a quell'esperienza rivoluzionaria che prese il nome di Comune di Parigi.
La Comune di Parigi si inserisce in un contesto europeo di profondi mutamenti geopolitici, caratterizzato anche da numerosi percorsi rivoluzionari. Nell'ambito francese in particolare, gli albori della Comune si vedettero in un momento in cui le truppe prussiane avevano da poco abbandonato Parigi (dopo un assedio durato diversi mesi, dovuto dalla sconfitta dell'imperatore di Francia Napoleone III da parte dei prussiani, sconfitta dalla quale nacque la Terza Repubblica). Il netto peggioramento delle condizioni di vita, la scarsità dei beni di prima necessità dovuta alla guerra fu la base sulla quale si innescò la giornata di insurrezione del 18 marzo, durante la quale la Guardia Nazionale, una specie di forza armata composta da volontari per aiutare la difesa della città durante l'assedio, insieme a disertori dell'esercito e alle masse popolari armate, presero il controllo della città. L'amministrazione venne affidata ad un comitato centrale, che si preoccupò di organizzare delle elezioni, dopo le quali, il 25 marzo venne formato un vero e proprio governo, che assunse una chiara matrice socialista, tanto è vero che tra le prime decisioni prese vi fu quella di sostituire al tricolore la bandiera rossa. Il governo rivoluzionario, che tra l'altro mantenne una buona popolarità e seppe garantire un certo livello di servizi pubblici, prese numerosi provvedimenti: dall'eliminazione dei turni notturni dei panifici, all'istituzione di una pensione per le vedove e gli orfani di guerra, dalla restituzione dei beni dati in pegno allo stato durante l'assedio, al riconoscimento del diritto dei lavoratori di impossessarsi della propria fabbrica se abbandonata dal proprietario.
Molti di questi provvedimenti però non poterono essere applicati vista la breve vita che ebbe la Comune e la tragica fine che subì. A partire dal 2 aprile infatti, il governo precedente alla Comune (guidato da Adolphe Thiers) iniziò con il suo esercito una serie di attacchi alla città di Parigi, fino ad arrivare a forzarne le mura, il 21 maggio 1871, data presa convenzionalmente come fine della Comune. Fino al 28 si combatté a Parigi, in una battaglia quartiere per quartiere, finché le truppe di Thiers non arrivarono a prendere l'ultima barricata, nel quartiere di Belleville. Durante la settimana tra 21 e 28 maggio si contarono circa 30'000 morti e altrettante furono le successive condanne eseguite nei confronti di chi venne ritenuto esponente della Comune.


sabato 21 marzo 2015

L’educazione è una forma di potere

L’educazione è una forma di potere. E teoricamente, affermare che l’educazione ha a che fare con il potere o che essa stessa si costituisce come una pratica di potere non dovrebbe sconvolgere più di tanto chi sia abituato a riflettere su problematiche pedagogiche. Eppure la dimensione del potere sembra essere la più rimossa da parte degli educatori; essi sembrano sempre sottintendere una loro non-partecipazione nei confronti di un potere che si situa sempre “altrove”: nelle mani di Presidi, Provveditori, Ministri, nelle pieghe della burocrazia, sulle scrivanie di coloro che vergano i programmi di studio. Questa sorta di repulsione ad affrontare la questione del “mio” potere, del potere che è in me e che è “me”, del potere che transita attraverso le mie pratiche quotidiane, del potere dell’educazione in quanto tale rende conto, probabilmente, della radicalità della questione stessa che proprio dal versante educativo può essere letta e studiata in modo critico e demistificatorio. Questo è il presupposto di ogni educazione libertaria: porre al centro delle sue teorie e delle sue pratiche la questione del potere e dello smascheramento del potere. Anche e soprattutto del potere dell’educatore. Leggere nelle pratiche educative delle pratiche di potere e, ancor più radicalmente, studiare la presenza e la costituzione di un potere che sia essenzialmente educativo, le cui strutture siano per essenza omologhe a quelle dell’educazione, significa contribuire allo smascheramento della cosiddetta “bontà” originaria dell’educazione. Occorre allora smascherare i tratti di un potere eminentemente educativo. Saremo di fronte allora a un potere che non risiede sempre in un Altrove, un potere che forse non si “prende” o si “aliena” o si “trasmette” ma si esercita, non solo da parte dei soggetti ma anche attraverso i soggetti medesimi; un potere di assoggettamento che proprio in quanto prevede il soggetto come telos della sua applicazione (e non semplicemente come sostrato su cui applicarsi o dato naturale da pervertire e condizionare) diventa anima segreta delle pratiche educative; di tutte, ovviamente, anche di quelle che si vogliono come resistenziali nei confronti delle attuali configurazioni del dominio. 

mercoledì 18 marzo 2015

EXPO 2015: L’opportunita’ per chi?

Expo 2015, l’evento che si terrà a Milano a partire dal 1° Maggio (un’altra data saccheggiata), incombe da tempo sulle nostre vite. Con un crescendo, che pare senza limiti, l’evento prende forma, ai nostri occhi, sotto forma di convegni, sponsorizzazioni, manifesti, manifestazioni di strada, manchette pubblicitarie, spot televisivi, articoli di stampa, e chi più ne ha, più ne metta. Il bombardamento mediatico è tale da fare apparire l’appuntamento di Milano come irrinunciabile, imperdibile, quasi che i destini dell’alimentazione umana – argomento di per sé, più che nobile, essenziale – dipendessero da una serie di baracconi fieristici messi su in quattro e quattr’otto.
Occorre allora metterci il naso, capire meglio cosa rappresenta realmente questa esposizione per coglierne il senso e la portata.
Forse non tutti sanno che Expo è una manifestazione promossa da un ente privato,il BIE, un organismo internazionale non governativo che cura dal 1928 l’organizzazione delle cosiddette Esposizioni Universali in varie città del mondo, con cadenza quinquennale . Queste esposizioni devono avere per contratto temi di portata globale, una durata di sei mesi, nessun limite di spazio e la spesa per i padiglioni a carico dei paesi partecipanti. E’ ovvio che la gran parte di tutti gli altri costi sono a carico della spesa pubblica del paese ospitante che deve garantire il buon successo dell’operazione. Come contropartita si presenta l’esposizione come volano per il rilancio dell’economia, del turismo e conseguentemente dell’occupazione.
La storia delle Esposizioni Universali inizia nei tempi immediatamente successivi alla rivoluzione industriale e all’affermazione della borghesia manifatturiera come classe dominante. La necessità di costruire momenti pubblici e ridondanti per mostrare al mondo la potenza dello sviluppo delle industrie, dei trasporti e dei commerci favorisce l’istituzione di queste grandi fiere, che , non a caso, prendono vita, prima in forma ridotta, nella Parigi napoleonica e poi a Londra, cuore pulsante dell’industria moderna. Da allora molte cose sono cambiate; la necessità di mostrare al mondo, in un unico grande contenitore, gli sviluppi della tecnica e della scienza, ha lasciato il campo a ben più redditizie fiere di settore, per lo più rivolte strettamente agli operatori del campo; inoltre la nascita e lo sviluppo delle reti telematiche ed informatiche, con la massa di informazioni che, in tempo reale e quotidianamente, vengono messe a disposizione, rendono di fatto vana la riproposizione di una Esposizione Universale se non nella forma di un gigantesco luna park, dove passare una giornata tra cibarie varie, intrattenimenti per l’infanzia, seduzioni turistiche e quant’altro.
Ma lo spettacolo deve andare avanti. La gallina dalle uova d’oro deve continuare la sua produzione. Al limite bisogna ridefinirne i contorni ed i contenuti, magari abbandonando la dimensione prettamente industrialistica e tecnologica che ha caratterizzato i primi eventi ed arrivare a definire nuovi campi di interesse, quali ad esempio il rapporto tra la vita umana e l’ambiente che la sostiene, in un’epoca contrassegnata proprio dalle devastazioni che l’epoca precedente ha provocato.
In Corea si è tenuta recentemente un’esposizione dal titolo ‘Costa e oceani che vivono’, a Milano sarà ‘il cibo’ il tema del mega evento, titolo ‘Nutrire il pianeta, energia per la vita’. Ma come è stato nel passato, si confermerà un’altra volta che, al di là dei temi trattati, sarà l’egemonia dei ceti dominanti, delle multinazionali, a essere santificata e celebrata come unica in grado di garantire il benessere dell’umanità. Così come verrà confermato quanto il carattere di mega evento dato all’iniziativa, si esprime in netta continuità con la politica delle grandi opere che sta infestando, da tempo, il paese Italia. Ed ecco la devastazione del territorio ove si svolgerà Expo 2015: un enorme estensione di terreno agricolo trasformato in edificabile, la costruzione di infrastrutture quali strade, autostrade, sia di collegamento con l’area che in tutta l’area lombarda, la costruzione apposita di una stazione per TAV in prossimità della fiera stessa, la canalizzazione, sia pur parziale, delle acque. Ed insieme a questi frutti avvelenati, tutto il contorno di traffici politico-affaristici dei quali le cronache ci hanno informato sia pure parzialmente.
Ma non è solo l’aspetto meramente materiale che ci può interessare: c’è ben altro. Il mega evento, la grande opera, soprattutto quando deve realizzarsi in tempi certi, è portatrice di una continua modificazione e stravolgimento delle regole del gioco, tali da comportare modelli di comportamento a se stanti. Appalti affidati senza gara, condizioni di lavoro precarie, supersfruttamento, ‘oliatura’ dei meccanismi burocratici, deleghe in bianco, super poteri alla protezione civile, ecc.: quando l’eccezionalità diventa una condizione permanente cresce fortemente il rischio che si pongano le basi per nuove forme autoritarie e gerarchiche. Per non parlare poi della prevedibile militarizzazione del sito e del territorio circostante, con la scusa dell’antagonismo sociale e del terrorismo internazionale, per imporre un modus operandi che vuole limitare libertà di movimento e di espressione, in linea con l’evoluzione oligarchica della democrazia parlamentare, alle prese con una conflittualità crescente a partire dai territori, sempre più in sofferenza in seguito al continuo saccheggio delle risorse e dei beni collettivi.
In effetti l’Expo milanese rappresenta un’opportunità, così come politici, imprenditori, sindacalisti e gazzettieri di turno ci stanno ripetendo da tempo. Ma è un’opportunità per ridisegnare i poteri, di arricchimento e di speculazione, di cementificazione e di privatizzazione; non è un’opportunità per i cittadini. Ricordiamoci che l’evento è stato voluto dal centro destra (duo Moratti-Formigoni) e sostenuto dal centro sinistra (Romano Prodi allora al governo) e oggi, in plancia di comando, c’è il centrosinistra di Pisapia con il leghista Bobo Maroni. Tutti insieme appassionatamente per cogliere l’opportunità. E per farlo hanno costituito una società ad hoc, denominata Expo Spa, società per azioni a prevalenza pubblica (con prevalenza di Ministero dell’Economia, Regione e Comune), che dovrà garantire il successo dell’iniziativa, progettando e finanziando tutte le opere necessarie.

Quindi denaro pubblico a favore di un evento privato. E’ stato calcolato che solo nel periodo 2008-2010 Expo Spa è costata, solo tra costi di gestione e personale, circa 40 milioni di euro. E il grosso doveva ancora arrivare…

martedì 17 marzo 2015

Il TAV travolge la sanità

Il TAV non è solo una grande opera inutile e devastante da un punto di vista ambientale e imposta con la violenza contro una intera comunità, ma rappresenta la scelta di investire nell’ottica speculativa che danneggia la salute.
Una politica sciagurata negli anni si è concentrata sulla riduzione della spesa sanitaria, con tagli al personale, ai servizi e chiusura di ospedali, che ha prodotto danni devastanti.
Le strutture sono al collasso, medici e infermieri sfruttati e sottoposti a ritmi inaccettabili, le persone abbandonate a se stesse in balie di lunge liste di attesa e di impossibilità di curarsi, i non autosufficienti bambini ed anziani penalizzati dal blocco degli assegni di cura, dalla riduzione dei posti di letto, dall’inadeguatezza dei ricoveri di secondo livello e lunga degenza.
Il servizio sanitario nazionale sta pagando un prezzo altissimo.
Oltre dieci milioni di cittadini restano fuori dal sistema sanitario perché non sono in grado di pagare ticket e medicine.
La prevenzione e la riabilitazione sono ormai in mano alle assicurazioni e agli imprenditori, l’acceso e la qualità dei servizi cala con l’ingresso dei privati.
Quello che di pubblico è rimasto è minacciato dalla corruzione, dalla politica degli appalti e dalle esternalizzazioni causa di sprechi e di disservizi.
Se si investono centinaia di milioni di euro per realizzare la linea ad alta velocità in Val Susa, diventerà impossibile che lo Stato metta a disposizione, in una fase di ristrettezze finanziarie, le risorse necessarie a mantenere una sanità pubblica gratuita e di buona qualità come gli altri servizi sociali, trasporti, scuola.
Lo Stato getta la maschera e si rivela per quello che è: speculazione e repressione
È necessario continuare e lottare contro il TAV ed opporsi ai tagli, stare vicino ai compagni NO TAV criminalizzati e colpiti dalla repressione con condanne a centinaia di anni di carcere, risarcimenti milionari e infondate accuse di terrorismo

La salute non è una merce, non è barattabile con un treno ad alta velocità.

mercoledì 11 marzo 2015

11 marzo 1977 Francesco Lorusso: hanno ucciso un compagno

Alle 10, assemblea di Comunione e Liberazione: circa 400 persone. Cinque compagni di Medicina, presentatisi all'entrata, vengono malmenati e scaraventati fuori dall'aula. La notizia si sparge nell'università e accorrono una trentina di compagni che vengono dapprima fronteggiati da un centinaio di squadristi ciellini. L'aggressione da parte dei cosiddetti "autonomi" consiste nel lancio di slogans e scambi verbali (ad esempio: "Barabba libero", "Seveso, Seveso"). Scatta la provocazione preordinata: i ciellini si barricano all'interno dell'aula; uno di loro, d'accordo con il prof. Cattaneo, che intanto aveva interpellato il rettore Rizzoli, chiede l'intervento della polizia e dell'ambulanza, prima ancora che succedesse qualcosa.
Nel frattempo, fuori dall'Istituto di Anatomia, si raggruppa un centinaio di compagni; quelli rimasti dentro, dopo aver cercato di sfondare la porta dell'aula, chiedono l'individuazione dei responsabili dell'aggressione, invitando gli estranei al fatto ad uscire. Vista l'inutilità di questi tentativi, i compagni si ricongiungono agli altri che fuori dall'istituto di Anatomia lanciavano slogans contro CL. Dopo appena mezz'ora, arrivano polizia e carabinieri con cellulari, gipponi e camion, in numero certamente spropositato. I compagni escono allora dal giardino antistante l'istituto e si raccolgono sul marciapiede nei pressi del cancello; un primo gruppo di carabinieri entra e si schiera nel giardino, un secondo gruppo esegue la stessa manovra: sta per entrare, si scaraventa contro i compagni, manganellandoli senza alcuna motivazione.
I compagni scappano verso Porta Zamboni; parte la prima scarica di candelotti. Ritornando verso via Irnerio, i compagni vengono bloccati da una autocolonna di PS e carabinieri ed é a questo punto che un carabiniere spara ripetutamente. Per difendersi, viene lanciata una molotov contro la jeep, causando un principio d'incendio. Poi, in Via Mascarella, un gruppo di compagni che ritornava verso l'università incontra una colonna di carabinieri proveniente da Via Irnerio: a questo punto il compagno Francesco Lorusso (militante di Lotta Continua) viene freddamente ucciso. Era rimasto a studiare fino alle 12,30 e solo allora era sceso in strada. I carabinieri caricano il gruppo in cui si trova Francesco e partono le prime raffiche di mitra: alcuni compagni scappano verso l'università, risalendo Via Mascarella. Una pistola calibro 9 si punta sui compagni ed esplode 6 - 7 colpi in rapida successione: lo sparatore (come testimoniano i lavoratori della Zanichelli) indossa una divisa, senza bandoliera, e un elmetto con visiera; prende la mira con precisione, poggiando il braccio su di una macchina. Francesco, sentendo i primi colpi, si volta mentre corre con gli altri e viene colpito trasversalmente. Sulla spinta della corsa percorre altri 10 metri e cade sul selciato, sotto il portico di Via Mascarella. Quattro compagni lo raccolgono e lo trasportano fino alla libreria Il Picchio, da dove un'autoambulanza lo porta all'ospedale. Francesco vi giunge morto.
Nel frattempo, la polizia dopo aver disperso i compagni in Via Irnerio, si ritira in questura. La voce che un compagno é stato ucciso si sparge rapidamente. Radio Alice ne dà la notizia verso le 13,30. Da allora in poi nella zona universitaria é un continuo fluire di compagni. Tutti gli strumenti di informazione che il movimento possiede sono in funzione, dalle parole alla radio. All'incredulità e al disorientamento si sovrappongono il dolore e la rabbia. L'università si organizza per evitare nuove provocazioni della polizia, vengono chiuse tutte le vie d'accesso, ogni facoltà si riunisce e dalle assemblee improvvisate (tutte le aule, la mensa, ogni spazio é riempito dai compagni che si organizzano) emerge con chiarezza che l'assassinio di Francesco é tutto tranne un "incidente". Vengono fatte telefonate ai vari CdF e si manda una delegazione alla Camera del Lavoro per chiedere l'adesione al corteo. La rabbia e il dolore si fanno crescenti e la maggioranza dei compagni individua gli obiettivi e le risposte che il movimento vuole dare. La libreria di CL, Terra Promessa, ridiventa per la terza volta "terra bruciata".
Finite le assemblee si organizzano i servizi d'ordine allo scopo di garantire l'autodifesa del corteo e da tutte le parti si grida che l'obiettivo politico da colpire é la DC. Si parte con un'imponente manifestazione di 8.000 compagni. Sono le 17,30. Il corteo é in Via Rizzoli: alcuni compagni se ne staccano e infrangono le vetrine della via centrale. In Piazza Maggiore il corteo sfila, raccogliendo i compagni rimasti, mentre un gruppo di aderenti al PCI si raccoglie attorno al Sacrario dei Caduti; l'attesa partecipazione dei consigli di fabbrica veniva meno. Il corteo si dirige in Via Ugo Bassi, dove altre vetrine vengono infrante.
Nei pressi della sede della DC, la polizia si scontra con la testa del corteo che riesce ad evitarne l'irruzione nel corteo stesso. Intanto, la coda si scioglie e si disperde nelle stradine laterali. Un primo troncone si ricompone in Via Indipendenza e si dirige alla stazione FS, occupando i primi binari. L'altra parte si ricompone in Piazza Maggiore e si immette in Via Indipendenza dove apprende la notizia dell'occupazione della stazione. Qui intanto iniziano gli scontri, la polizia entra nell'atrio principale, sparando candelotti; i compagni rispondono, riuscendo così ad allontanarsi da un'uscita laterale. Il resto del corteo é nel frattempo arrivato nella zona universitaria, dove ci si riunisce in assemblea, per una valutazione della giornata e per organizzare il viaggio a Roma dell'indomani; nel frattempo viene "aperto" il ristorante di lusso il Cantunzein e centinaia di compagni possono sfamarsi. L'assemblea, iniziata nell'aula magna di Lettere, per l'enorme afflusso di gente viene trasferita al cinema Odeon. Nei pressi del cinema, un compagno viene sequestrato da agenti in borghese, armi in pugno e trasportato via su un'auto con targa civile. Nella notte vengono effettuati numerosi arresti e perquisizioni domiciliari.
Nel tardo pomeriggio le federazioni bolognesi del Pci e della Fgci distribuiscono un volantino:Una nuova grave provocazione é stata messa in atto oggi a Bologna. Essa ha preso il via da un'inammissibiie decisione di un gruppo della cosiddetta Autonomia di impedire l'assemblea di CL e da gravi interventi da parte delle forze di polizia. Di fronte a una situazione di tensione nella quale ancora una volta é emerso il ruolo di intimidazione e di provocazione dei gruppi neosquadristici, si é intervenuto con l'uso di armi da fuoco da parte di agenti di PS e dei carabinieri... dev'essere isolata e battuta la logica della provocazione e della violenza che piú che mai é al servizio della reazione. Da tempo nella nostra cittá ristretti gruppi di provocatori, ben individuati, hanno agito all'interno di questa precisa logica".
dal documento del
Collettivo di controinformazione del movimento
del 12/3/1977

11 Marzo 1977: Per non dimenticare Francesco Lorusso

Di quel giorno ricordo anche le nuvole e il colore del cielo. Verso mezzogiorno andai in piazza Verdi per pagare la quota necessaria a partecipare alla manifestazione nazionale prevista a Roma per il giorno successivo. C’era un banchetto e una bandiera rossa, si chiacchierava tra pochi, data l’ora.
Da Porta Zamboni giunsero le detonazioni tipiche del lancio di candelotti e il primo pensiero che mi colse fu quello di assistere in diretta ad una vera e propria “invasione di territorio”, dato che fino a quel momento nessuna iniziativa repressiva aveva riguardato la cittadella universitaria.
D’istinto mi coprii il volto con un lembo della bandiera e corsi verso la zona degli scontri, incontro al fumo denso che si allargava.
Qualcuno mi disse che era inutile tentare di avvicinarsi da quella parte e si decise di provare a passare per via Bertoloni.
Mi bastò affacciarmi per capire che non era aria neppure lì: sul muro, all’altezza dei cavi della corrente elettrica, vidi distintamente le scintille prodotte da colpi di arma da fuoco. Già questo fatto costituiva una “prima volta”, un innalzamento del livello di scontro.
Poi non ricordo perché, procedendo verso gli sbocchi successivi, si decise di non risalire via Centotrecento.
Ci trovammo infine in un piccolo gruppo – cinque, sei persone – a procedere per via Mascarella.
Qui, per una ragione che non so spiegare neppure ora (forse per rendermi più utile, forse per l’inesperienza a situazioni del genere essendo sempre stato “esonerato” dalla partecipazione a scontri con la Polizia in ragione del fatto che mi trovavo in regime di buona condotta per due sentenze definitive, forse per una strana forma di coraggio o…. di paura) decisi di fare corsa solitaria e parallela sotto il portico di sinistra.
Correndo, vedevo gli altri procedere verso via Irnerio. Uno di loro, portatosi in mezzo alla strada, tirò un sasso verso un gruppetto di carabinieri ma sbagliò clamorosamente la mira scheggiando il palazzo d’angolo.
Una sciocchezza, se non fosse che, dopo, quel segno diventò la “prova” che qualcuno aveva sparato anche da via Mascarella e alimentò l’assurda insinuazione che Francesco poteva essersi trovato al centro di un tiro incrociato e dunque poteva essere stato colpito dai suoi stessi compagni. Giunto a poco più di dieci metri dallo sbocco su via Irnerio vidi, in prossimità dell’incrocio un camion, del tipo di quelli dell’esercito, ed alcuni carabinieri: tutto sommato pochi, come pochi si era dalla parte di qua.
Poi non vidi più, per effetto di una prospettiva troppo obliqua, ma sentii i rimbombi secchi di otto – nove colpi almeno di arma da fuoco, in rapida successione.
Feci retromarcia immediatamente, così come facevano gli altri, parallelamente a me. Solo che loro portavano, ognuno per un arto, il peso di un corpo senza energia. Ci ricongiungemmo e ci fermammo davanti all’uscita posteriore di un cinema.
Francesco morì lì, tra sguardi sbigottiti, mentre gli rivolgevo parole vane.
Fermammo una macchina per tentare di raggiungere l’ospedale più vicino. Nel frattempo giunse un’ambulanza e caricò il corpo di Francesco, ma le facce degli infermieri non lasciavano speranze.
Andai comunque al S. Orsola per sentirmi dire quello che ormai era già tragicamente palese.
Seppi subito dopo che contro i carabinieri era stata lanciata una molotov, che Francesco aveva avuto il tempo di dire “mi hanno beccato” e di fare con le sue gambe circa dieci metri, fino al punto in cui cadde, dove poi fu posta la lapide.
Seppi anche che ad originare tutto era stato un diverbio e una scaramuccia tra qualche decina di compagni ed esponenti di Comunione e Liberazione riuniti in assemblea. Roba che in altri tempi si sarebbe risolta con due parolacce, qualche spintone e poco più.
Da quel momento fu chiaro ad ognuno che tutto sarebbe stato diverso.
Già nel primo pomeriggio, Piazza Verdi era piena di gente, ma il tono delle voci era sommesso. Si fece una rapida assemblea tra l’odore pungente della benzina: si decise di dirigere il corteo verso la sede della Democrazia Cristiana, l’Ufficio di rappresentanza del Resto del Carlino e la Stazione. Nessuno parlò di vetrine, nessuno fece niente per impedire che andassero distrutte. Certo, era inquietante il rumore dei tonfi dei vetri che andavano in frantumi ai lati del corteo: cascate di ghiaccio attorno a noi, che portavano nell’animo un gelo ben più grande.
Personalmente trovai offensivo che il servizio d’ordine del PCI presidiasse il Sacrario dei Caduti della Resistenza e trovai di gusto discutibile il saccheggio conclusivo del Ristorante “Al Cantunzein”. Ma erano pensieri silenziosi: io non avevo fame.
Il giorno dopo, dal primo pomeriggio cominciarono gli scontri all’università. In mattinata venne rifiutata la parola ad un esponente del Movimento alla manifestazione sindacale: il cerchio di ferro si chiudeva. Per otto ore si resistette: sulle barricate verso sera suonava un pianoforte. Poi qualcuno decise e praticò l’esproprio dell’armeria Grandi: in tutta risposta arrivò una raffica di mitra ad altezza d’uomo. Per me la misura era colma.
Il giorno dopo ci svegliammo coi blindati in città e i tiratori speciali sui tetti. Cominciarono gli arresti di chiunque per strada formasse gruppi superiori a cinque persone e rifiutasse di disperdersi: così finirono dentro decine di tifosi del Bologna, venuti in centro in modo organizzato e circa 260 compagni. La detenzione di limoni era considerata sufficiente a dimostrare una volontà di resistenza. Radio Alice era chiusa.


Dalla testimonianza di un compagno presente ai fatti.



domenica 8 marzo 2015

8 marzo a fianco della lotta delle donne curde

L‘8 marzo 2015, 104 anni dopo la proclamazione della Giornata Internazionale delle Donne, le donne di tutto il mondo combattono ancora contro il sistema di dominio patriarcale.
Gli attacchi contro le donne diventano sempre più profondi e si sviluppano in modo sistematico o strumentalizzato per alimentare/aumentare norme repressive e securitarie in ogni ambito dell’esistenza fino al femminicidio, che spesso non viene riconosciuto come tale.
La violenza sulle donne, l'eteronormatività, il sessismo, il razzismo, lo sfruttamento, le restrizioni sulla libertà di scelta e d autodeterminazione, l’isolamento sono i dispositivi attraverso cui lo stato padrone e patriarcale esercita il proprio controllo sulle nostre vite e contro cui ci vogliamo ribellare.
Le donne hanno oggi più che mai l’urgenza di costruire insieme la propria autodifesa.
È proprio questo che attualmente sta succedendo nel Rojava. Nei tre cantoni curdi dell’amministrazione autonoma nel nord della Siria, le Unità di Difesa delle Donne YPJ combattono per la liberazione delle donne e dell’intera società. Le YPJ conducono una lotta contro l'oppressione e il femminicidio a tutti i livelli.
La lotta delle donne curde non è solo una lotta militare contro IS, ma una lotta politica contro lo sfruttamento patriarcale e per la libertà, in questo momento neoliberista e neocoloniale.
Non limitano la loro lotta contro la violenza e l’oppressione sulle donne a una sola giornata, ma con la loro lotta trasformano ogni giorno nell'8 marzo.
Difendono la città. armate, combattono, preparano cibo per chi combatte, proteggono i bambini, li portano via dalla guerra. Hanno ogni età e sono l'esercito della donne dei peshmerga curdi, pronte a morire piuttosto che cadere nelle mani dei jihadisti dell'Is. All'Unità di Difesa del Popolo (Ypg) apparteneva anche la ragazza kamikaze, Arin Mirkan, che si è fatta saltare in aria vicino a una postazione dei miliziani dell'Is a est di Kobane, la città curda siriana al confine con la Turchia, uccidendo diversi jihadisti che da giorni cingono d'assedio l'enclave. La ragazza, terminate le munizioni, ha sacrificato la sua vita per non finire ostaggio dei miliziani del 'Califfato'. Avrebbe distrutto un mezzo blindato delle milizie islamiche e fatto circa una ventina di vittime.
E la 19enne Ceylan Ozalp, che il 3 ottobre scorso si è uccisa sparandosi alla testa quando aveva esaurito le munizioni, utilizzando la sua ultima pallottola contro se stessa.per non essere catturata.
Migliaia di donne - donne curde da Turchia, Iran, Iraq, Siria, Armenia, Russia e Europa ma anche donne internazionaliste del Medio Oriente e dai paesi Europei - partecipano attivamente a questo movimento come militanti. Hanno deciso di lottare contro una vita determinata dal sistema patriarcale e liberticida insieme a tante altre donne anche differenti da loro.
Il movimento delle donne curde è infatti consapevole che la libertà deve comprendere tutti gli aspetti della vita perché oppresso e marginalizzato in molte forme diverse: etnia, classe, genere. La liberazione delle donne è diventata perciò inscindibile momento della resistenza curda contro tutte le oppressioni e non sorprende che siano tante le donne a partecipare alle unità armate e alla gestione delle amministrazioni locali in tutta la regione, siano loro di provenienza araba, turca, armena e assira.
La forza contagiosa della lotta delle donne e del generale processo di rivoluzione sociale in Rojava viene oscurato e criminalizzato dal mondo occidentale a guida statunitense che continua a classificare il PKK come organizzazione terroristica, al pari dell'IS, svelando così la sua vera natura cioè la pretesa egemonica dell’occidente “civilizzato”.
Insieme alle donne kurde combattiamo tutti, donne euomini insieme, contro la guerra liberticida che arma sempre gli oppressori e impone con la sua ideologia il marchio itinerante di terrorista a chiunque si sottragga al disegno del sistema di sfruttamento globale impostoci.
Organizziamo la nostra resistenza popolare ovunque nel mondo. Liberiamoci insieme dal sistema di dominio patriarcale e liberticida.
In occasione dell‘8 marzo 2015 prendiamo coscienza degli attacchi contro le donne a Shengal, Mossul, Kirkuk, in Nigeria, a Gaza, in Ucraina e altrove considerandoli un femminicidio e facciamo vivere lo spirito di resistenza delle YPJ come difesa di tutte le donne in ogni luogo. Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale.

Per un 8 marzo di lotta e non di festa.

Per ogni donna stuprata o offesa, siamo tutti parte lesa!

Centinaia in corteo a Torino contro la violenza sulle donne.
8 Marzo di lotta anticipato di un giorno a Torino, così come annunciato nelle scorse settimana dall'Assemblea Antisessista che aveva convocato per oggi un corteo contro la violenza sulle donne.
La mobilitazione è nata da un episodio di stupro subìto da una donna al termine di una serata trascorsa nel quartiere San Paolo: di qui l'appello a scendere in piazza contro la violenza sulle donne nel pomeriggio di oggi, scegliendo di attraversare proprio le vie del quartiere in cui lo stupro si è verificato.
Circa 300 persone hanno partecipato al corteo, che si è snodato per le strade di San Paolo aperto da uno striscione che recitava "Senza consenso è stupro. No alla violenza maschile sulle donne". Slogan, stencil, volantini e interventi hanno accompagnato la manifestazione all'interno del quartiere, attirando la partecipazione e l'interesse di diversi residenti.
Presenti anche molti occupanti di case della zona: da una palazzina occupata di via Monginevro è stato calato un lungo striscione con scritto "Padrone di noi stesse: né violate né sottomesse", mentre dal furgone di apertura si sono alternati anche diversi interventi in arabo e spagnolo per voce delle occupanti, che hanno così restituito la ricchezza di un quartiere fortemente multietnico. Raccogliendo l'invito circolato nelle scorse settimana a dedicare l'8 marzo alla resistenza delle donne dello YPJ, diversi rimandi sono anche stati fatti all'esempio delle combattenti kurde, che nelle formazioni femminili delle Unità di Difesa Popolari e nei cantoni liberati del Rojava stanno portando avanti anche un'importante lotta al patriarcato e per la liberazione delle donne.
La manifestazione, dopo diverse tappe per le vie del quartiere, si è poi conclusa ritornando al punto di partenza e rilanciando sui prossimi appuntamenti dell'Assemblea Antisessista.

Di seguito il testo del volantino letto e distribuito lungo il corteo:

Una sera una donna uscendo in quartiere San Paolo per l’aperitivo, dopo aver condiviso alcuni bicchieri con un “frequentatore di bar” ha subito uno stupro. Quest'uomo ha approfittato dello stato di alterazione della donna, legittimato da una cultura sessista che considera le donne a disposizione degli uomini. Scegliamo la denuncia sociale per dire NO alla violenza contro le donne così come hanno fatto le compagne di Bologna il 15 Novembre per un episodio simile.

IL SESSO È TALE SOLO SE CONSENSUALE, SE E' UN ATTO DI COMPLICITA', SE IL CONSENSO NON È CHIARO NON È SESSO MA STUPRO!
Se una donna dice NO, ti devi fermare, se ha detto di si ma poi VUOLE SMETTERE ti devi fermare. In ogni caso se continui É UNA VIOLENZA!
La violenza di genere spesso non viene riconosciuta (“Se l’è cercata”, “Cosa si aspettava”, “Ci stava”, “É suo marito”), perché la cultura patriarcale continua a pervadere la società in ogni suo aspetto, nutrendoci di immagini stereotipate che ostacolano pensieri e sentimenti di giustizia, di solidarietà e di empatia. Abusare di una donna in stato alterato di coscienza è una strategia sessista.
Negli ultimi tempi i centri antiviolenza di varie città denunciano l'uso delle così dette "droghe dello stupro” che causano amnesia e un aumento incontrollato della libido così la donna è più indifesa e tutti i presenti hanno l'impressione che lei ci stia. In questo modo non c’è più una relazione fra due persone, ma la donna diventa un corpo, un oggetto da usare, manipolare, sfruttare, dominare…questo non è sesso ma è stupro!
A chi frequenta e gestisce i locali diciamo che non bisogna stare attenti solo al rischio di risse, ma anche al rischio di molestie e stupro, è importante riconoscere anche in queste la violenza. Se pensate che siano fatti normali o che non siano gravi o che non siano affari vostri diventate anche voi complici.

COMINCIAMO A CAMBIARE QUESTA MENTALITA’. Creiamo reti di solidarietà e una cultura dell'attenzione reciproca! Non pensare che siccome non sta capitando a te non ti riguardi. Noi donne vogliamo goderci la nostra libertà. Vogliamo uscire, viaggiare anche da sole, frequentare locali, divertirci come ci pare senza rischiare violenze o stupri. Le molestie e le violenze sono il prezzo che questa società ci fa pagare quando decidiamo di vivere liberamente?
Non siamo vittime ma donne capaci di reagire e di autodifendersi.
Denunciamo pubblicamente la violenza e spostiamo la vergogna sugli stupratori e su chi li legittima, perché sono loro che devono temere quello che pensa la gente e non le donne!

Assemblea Antisessista

sabato 7 marzo 2015

Movimento ’77 Tra creatività e “militarismo” Pt 4 Rapporto tra Movimento e Partito Armato

Rimane da affrontare il problema dei rapporti tra il Movimento e il partito armato. Si tratta di una questione spinosa, che ha dato luogo ad aspre polemiche negli anni passati, soprattutto dopo la decisione presa dalle magistrature di Roma e Padova di procedere contro i capi di Aut Op: è il 7 aprile 1979. I giudici, tra i quali spicca il Pm padovano Pietro Calogero (Kalogero per gli autonomi), tra i primi a seguire la pista nera per gli attentati di Piazza Fontana, accusano Pot Op (il cui scioglimento sarebbe stata una finzione) e Aut Op di avere concordato una strategia comune con le Br per abbattere l’ordinamento democratico. Le due organizzazioni dell’estrema sinistra sarebbero dunque “bande armate” e alcuni suoi leader vengono inquisiti per il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. Le prove, per i giudici, stanno tutte nella violenza dimostrata in questi anni dai due gruppi nelle piazze e in quello che hanno scritto sui loro volantini e sulle loro riviste: decine di articoli in cui si incita alla lotta violenta e all’abbattimento dello Stato borghese, pubblicazione di comunicati delle Br e di altri gruppi di fuoco, apprezzamenti per le azioni del partito armato eccetera.
Ma è così scandalosa la posizione degli autonomi sulla violenza? Ed è vero che Aut Op e le Br sono d’accordo sulle forme di lotta?. Per i Collettivi di Roma, per esempio, la lotta armata è “una fase superiore dello scontro tra le classi; una fase che si determina nella misura in cui si radicalizzano le lotte sui bisogni e la coscienza politica del proletariato”. Il proletariato deve lavorare in vista di questo scontro e prepararsi ad affrontarlo. Niente di eccezionale: si resta sempre nell’ambito del pensiero marxista-leninista tradizionale.
Gli autonomi, questo è vero, non condannano con decisione le azioni del partito armato, come invece fanno altre formazioni della sinistra extraparlamentare. Ma quello che per loro è all’ordine del giorno non è tanto “la capacità professionale di un partito di tipo leninista di determinare l’insurrezione armata, di incanalare l’esperienza delle masse, dei soviet dentro un più cosciente schema politico-militare nel momento cruciale della crisi capitalistica”, bensì “la rivoluzione di massa, che veda la maggioranza del proletariato protagonista politico e militare dell’avanzata del processo rivoluzionario”. Dunque, per Aut Op la lotta armata o è di massa o non serve alla rivoluzione.
Ma in che modo bisogna agire affinché quella che gli autonomi chiamano “azione diretta” non leda la causa? L’Assemblea Autonoma della Pirelli di Milano fissa alcuni punti:
“1) l’azione deve suscitare adesione, approvazione, partecipazione e riproduzione in seno alle masse;
2) bisogna agire col senso di giustizia e di proporzione quando si colpiscono gli effettivi responsabili della repressione degli operai (non si rompe un uovo a martellate);
3) le eventuali azioni devono essere coordinate all’azione politica generale”.
Le Br che rapiscono e uccidono Moro, per esempio, contravvengono sicuramente al primo punto, dato che la stessa Autonomia si adopera per la liberazione dello statista democristiano, e, almeno in parte - se si pensa all’eccidio di via Fani - anche al secondo: non si rompe un uovo a martellate. Contravviene sicuramente a entrambi i punti l’assassinio dell’operaio comunista Guido Rossa nel 1979.
Il terzo punto è senza dubbio quello più controverso: occorre capire se esiste un’azione politica “generale”, ovvero se vi sia un coordinamento tra l’ala “militarista” del Movimento e il partito armato, come sostengono i giudici del 7 aprile.
Per il Collettivo Politico Operaio dell’Alfa Romeo, dell’area dell’Autonomia, la clandestinità e le rigide regole di militanza delle Br finiscono per creare una netta frattura con il Movimento, mentre per Daniele Pifano, leader dei Collettivi Autonomi di Roma, è assurda la pretesa dei brigatisti di rappresentare le istanze e la coscienza del proletariato.
Insomma, è vero che per Aut Op la rivoluzione non è un pranzo di gala: la violenza è necessaria. Ma questa deve nascere “alla luce del sole”, dall’espansione del Movimento, dalla capacità delle masse di “fare crescere le contraddizioni del nemico di classe a un punto tale da provocare uno scontro sempre più duro e violento”.
Non è quindi un caso se tra i leader dell’Autonomia e quelli delle Br non correrà mai buon sangue. In gioco c’è la guida del “movimento rivoluzionario”, come entrambi lo chiamano. Le Br, oltretutto, dopo gli arresti del suo nucleo storico, Curcio, Franceschini, Semeria, e la morte di Mara Cagol, moglie di Curcio, uccisa dalle forze dell’ordine durante il rapimento dell’imprenditore Gancia (forse si è trattato di una vera e propria esecuzione), è ormai un’organizzazione a tutti gli effetti clandestina, con obiettivi spesso fuori dalla portata e dagli interessi del Movimento: non più la lotta ai licenziamenti, al terrorismo neofascista, ad una giustizia ingiusta eccetera, ma la guerra al cosiddetto “Stato imperialista delle multinazionali”. E così, a partire dal 1976, le Br cominciano la loro marcia di allontanamento da quella parte (minoritaria, ma non trascurabile) del paese reale che aveva mostrato di apprezzare la sua prassi politica, a metà strada tra i Tupamaros sudamericani e l’inglese Robin Hood, simbolo di un paese che oscilla continuamente tra sottosviluppo e modernità.
E’ il tema della violenza, dunque, quello che porta i giudici di Roma e Padova, con l’appoggio di molte forze politiche, prima fra tutte il Pci, a spiccare gli ordini di cattura nei confronti dei “vertici” di Aut Op. Antonio Negri, intervistato da Giorgio Bocca nel 1979, precisa il pensiero del suo gruppo a tal proposito:
“Credo che quando noi si parlava di violenza si diceva fondamentalmente questo: che i padroni potevano usarne legalmente troppa e la classe operaia usarne legalmente troppo poca.”
Risponde indirettamente Ugo Spagnoli, sul settimanale comunista “Rinascita” del 21-9-1979:
“Ma perché non entrare nel merito e ricordare che molti di costoro furono gli animatori della speculazione anticomunista e del provocatorio raduno anticomunista di Bologna nel ‘77 (quello contro la repressione, n.d.a.)? E perché non ricordare che molti di questi personaggi continuano a falsare e a deformare la realtà democratica del nostro paese, ad offendere le lotte che le masse conducono contro il terrorismo, mirando a scopi ben precisi nei quali è determinante il più viscerale anticomunismo?”
Come scrive Lucia Annunziata sul “Manifesto” del 13 aprile del 1979, “prove o non prove, l’Italia sembra essere diventata improvvisamente un paese di giuristi”. Ma in questo dibattito manca la voce del partito armato. Cosa pensano i clandestini della lotta armata degli autonomi?
Nella risoluzione strategica dell’aprile 1975, cioè pochi giorni dopo la battaglia di Corso XXII Marzo, le Br scrivono che gli emarginati, cioè il soggetto sociale a cui fa riferimento l’Autonomia, “sono un prodotto della società capitalistica nella sua attuale fasi di sviluppo e il loro numero è in continuo aumento”, ma la classe operaia “resta comunque il nucleo centrale e dirigente della rivoluzione comunista”.
“A nostro giudizio l’intera questione va affrontata a partire dallo “strato di classe” che più di ogni altro subisce l’intensificazione dello sfruttamento conseguente ai progetti di ristrutturazione capitalistica ed imperialistica (...). Le “assemblee autonome” non sono l’avanguardia di questo strato di classe. Al loro sorgere esse hanno costituito un fattore decisivo nel processo di superamento del “gruppismo”, ma oggi rischiano di finire esse stesse nel culo di sacco di quella impostazione. Ciò che le predispone a questo pericolo è il “feticcio della legalità” e cioè l’incapacità di uscire dalla falsa contrapposizione tra “legalità” e “illegalità”. In altre parole le assemblee autonome non riescono a porre la questione dell’organizzazione a partire dai bisogni politici reali e così finiscono per delimitare questi ultimi entro il tipo di organizzazione legale che si sono date.
Dunque, mentre i giudici sostengono che Aut Op è una banda armata che ha coordinato l’attacco al cuore dello Stato insieme alle Br, queste ultime l’accusano di essere legata al “feticcio della legalità”, cioè di non volersi trasformare in una banda armata. Nemmeno il fatto che decine di autonomi finiranno nel partito armato, ennesima conferma per i giudici dell’esistenza di un rapporto diretto tra Aut Op e Br, significa molto, dato che nel partito armato (Br, Prima Linea (Pl) Nap eccetera) militano cattolici come Curcio, comunisti come Franceschini, sindacalisti come Moretti e tanti altri che non hanno mai fatto parte di alcuna organizzazione. Alla domanda “di chi è figlio il terrorismo di sinistra?” è dunque difficile rispondere. Gli autonomi lo fanno con amara ironia: “di Donat Cattin!”, dato che il figlio del famoso Ministro democristiano è uno dei leader di Prima Linea. Da sottolineare anche che le Br concordano con il Pci sul ruolo della classe operaia nella società: una comune visione che però non porta nessun giudice a spiccare un mandato di cattura nei confronti di Berlinguer.
Anche i gruppi armati che nascono durante e, soprattutto, dopo il 1977 sono molto diversi dalle Br. Si tratta per lo più di minuscole formazioni che firmano un attentato e poi scompaiono per sempre. Sono anch’essi il frutto dell’eruzione sociale di quell’anno. Questi “gruppuscoli” non si preoccupano di fare pervenire agli organi di informazione complesse risoluzioni teoriche, anzi scimmiottano il tetro linguaggio dei brigatisti, e anche nelle sigle dimostrano di essere altro da quel partito armato che vuole essere riconosciuto come il principale soggetto politico, anzi l’unico, che si contrappone allo “Stato borghese”. Sono i continuatori, anche se su altri fronti, di quella creatività irriverente che è uno dei tratti più caratteristici del movimento del Settantasette. Il Collettivo Automobilisti Proletari, le Colonne Capone, il Fronte del Porto, i Gatti Selvaggi, i Gruppi Piromani Folli, il Gruppo per la resa dei conti, i Nuclei Sconvolti per la sovversione urbana, le Talpe Rosse Organizzate e il Collettivo “ve beccamo quanno volemo!” non sono certamente in grado di prendere il potere e nemmeno lo vogliono. Sono, per dirla alla Touraine, una collettività che con le armi cerca disperatamente di resistere al clima di omogeneità politico-culturale che si respira negli anni della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Non un attacco allo Stato, dunque, ma una difesa dallo Stato.
E tuttavia, il Settantasette fornisce una massa impressionante di nuove leve al partito armato. Perché?
Non compreso dai mass media, colpito duramente dalla repressione, isolato anche dalla nuova sinistra, il Movimento si esaurisce presto, nel breve volgere di un anno. Molti giovani si trovano allo sbando e devono fare i conti con una profonda solitudine. Alcuni di loro vengono attratti dal fascino di una “compagna bianca”, l’eroina, molti dalle campane di un sistema che, anche per autodifesa, invita tutti al disimpegno, altri ancora, appunto, dalla causa di una lotta ben diversa da quella immaginata quando il Movimento occupava le piazze e le università di tutto il paese: una rivoluzione-festa. E così un’intera generazione scompare. Non a caso un film sul Settantasette si intitola Gli invisibili. Invisibili nel mondo dell’eroina, invisibili nel disimpegno, invisibili nella lotta armata clandestina contro uno Stato che cela molte delle sue azioni repressive extralegali, molti dei suoi reali intenti, quelli che vanno oltre la difesa della legalità democratica

(fine)

mercoledì 4 marzo 2015

Movimento ’77 Tra creatività e “militarismo” Pt 3 Autonomia Operaia

Si è detto in precedenza come sia difficile distinguere nettamente un’area creativa ed una militarista. Tuttavia, analizzando i documenti del Movimento, qualcosa effettivamente emerge. La rivista “Neg/azione”, per esempio, critica gli autonomi, quelli di Aut Op per intendersi, perché “partono da una realtà rivoluzionaria, l’esigenza di sviluppo autonomo di bisogni proletari, per riproporre la ‘militanza rivoluzionaria’ (professionale) e il partito, con l’unico risultato di incanalare queste esigenze rivoluzionarie negli schemi capitalistici della politica e della ideologia”. Insomma, pur rifiutando la figura coscienziale del partito, Aut Op, per i giovani di “Neg/azione”, farebbe rientrare il partito dalla finestra, burocratizzando lo stesso concetto di autonomia. Per un altra rivista, “A/traverso”, tutto ciò che è politica è totalitario, perché non può ammettere l’esistenza della contraddizione, se non come conflitto riconducibile all’equilibrio.
L’esigenza di autonomia, quella con l’iniziale minuscola, è così sentita dai giovani del Movimento che si diffida di qualsiasi organizzazione politica, persino di una molto originale come Aut Op. Ma che cos’è realmente l’Autonomia, quella con l’iniziale maiuscola?
 Si tratta di un’area entro la quale si muovono migliaia di collettivi di quartiere, di fabbrica e di scuola, centinaia di realtà autogestite e decine di migliaia di giovani che non si riconoscono nelle forze della sinistra tradizionale né in quelle della nuova sinistra, la quale, scrivono i Comitati Autonomi Operai di via dei Volsci di Roma, oggi non propone altra alternativa se non quella di “stare a rimorchio, di sottomettersi, di farsi carico dei progetti di ripresa padronale”. Per Aut Op, il partito rivoluzionario “rimane una necessità storica del proletariato, come fattore di continuità nella fase in cui cresce ma non si afferma ancora totalmente il contropotere di massa, come acceleratore anzi di questo processo”, ma è comunque solo “uno strumento, un mezzo, un’arma della rivoluzione, non il suo fine”.
- Non può esserci allora costruzione del partito rivoluzionario se non c’è parallelamente costruzione e diffusione dell’organizzazione autonoma operaia (...) e tra le masse della pratica rivoluzionaria; se non si stabilisce fin da ora un legame naturale, non solo “politico” ma materiale, organizzativo, tra partito e strutture dell’autonomia di massa. -
Il partito, dunque, non è che un mezzo. Eppure, anche se subordinato alla crescita della “pratica rivoluzionaria” tra le masse, esso ha comunque una certa importanza anche per Aut Op. D’altro canto, ponendosi anche se in maniera originale come avanguardia del movimento di massa, Autonomia si colloca nell’ambito del pensiero e della prassi marxista-leninista tradizionale. E questo gli attira le critiche di altri settori del movimento.
I primi collettivi autonomi nascono nel 1971, ma è tra il 1972 e il 1973 che questi si moltiplicano in tutto il paese. Il 25-26 novembre 1972 si tiene a Napoli il primo Convegno dei Collettivi autonomi del Mezzogiorno e l’anno successivo, a Bologna, il primo di Autonomia Operaia Organizzata, al quale vi partecipano più di 400 delegati di tutta Italia. In questo Convegno Aut Op lancia solo alcune parole d’ordine, come il rifiuto della mobilità, la lotta all’intensificazione dei ritmi di lavoro, le 36 ore settimanali e il salario uguale per tutti. Ma dai lavori emerge anche la linea politica del gruppo: “Il problema del potere - si legge nella relazione introduttiva - è quello di praticare la coscienza del potere nelle masse per tradurlo in prassi politica”. Solo così la rivendicazione diventa tutta politica e l’organizzazione può trasformarsi in “partito rivoluzionario”. Gli autonomi non sono per una lotta violenta clandestina: “tutto - si legge nella mozione conclusiva - deve essere riservato alla capacità dei nuclei operai di saper colpire nel momento buono, nella direzione giusta, secondo il polso e il grado di coscienza operaia, contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, contro gli strumenti della repressione padronale”. Aut Op decide di non dotarsi di una struttura centralizzata, a differenza di quanto decidono di fare in questi anni molte altre organizzazioni dell’estrema sinistra (Lc compresa): viene creata invece una Commissione nazionale, con il compito di coordinare le varie realtà.
Nell’autunno del 1973 Pot Op si scioglie. Decine di suoi attivisti, come Negri, Piperno e Scalzone, confluiscono in Autonomia. E così “l’organizzazione che non è ancora partito” cresce notevolmente.
Il battesimo del fuoco di Aut Op, è proprio il caso di dirlo, si celebra l’8 settembre 1974, in occasione dello sgombero delle case occupate del quartiere di San Basilio, alla periferia di Roma. La battaglia è sanguinosa. La polizia spara ed uccide Fabrizio Ceruso, del Comitato autonomo di Tivoli.
L’occupazione delle case è solo una delle tante battaglie che gli autonomi conducono in quella che chiamano “fabbrica sociale”. Per combattere il carovita, per esempio, Aut Op pratica l’autoriduzione e l’esproprio proletario (che presto diventerà un incubo per i commercianti di tutto il paese); contro la violenza neofascista, l’antifascismo militante, contro la repressione danno vita a “Soccorso Rosso” e contro lo spaccio di eroina nei quartieri a ronde armate.
Aut Op è diffusa su tutto il territorio nazionale, soprattutto nelle grandi città: Milano (in periferia e in alcune grandi fabbriche, come la Pirelli e l’Alfa Romeo, mentre alla Statale deve fare i conti con lo strapotere del Ms, prima, e del Mls poi), a Bologna (nelle periferie e all’Università), a Marghera-Mestre (area industriale, ex roccaforte di Pot Op), a Padova (Università), a Roma (all’Università La Sapienza, al Policlinico, nei quartieri di San Lorenzo, San Basilio e molti altri della cintura periferica) e a Napoli (nelle zone più degradate).

(continua)