..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 24 febbraio 2015

No Tav. Un tranquillo fiume in piena

Torino, 21 febbraio. Dai sentieri della Val Susa alle strade di Torino i passi dei No Tav segnano un frammento della storia di questi nostri anni.
Non bastano gli anni di galera, le botte, i risarcimenti a sei cifre per fermare un movimento che lotta contro un treno, per affermare la libertà di decidere il proprio futuro.
Nella piazza torinese di questo fine febbraio c’era tanta gente, tanta gente dalla Val Susa, tante delegazioni dalle città dove c’è chi lotta contro le devastazioni ambientali, lo spreco di risorse, l’imposizione di un’idea di mondo folle, autoritaria, ingiusta.
La manifestazione indetta dopo le condanne contro 46 No Tav per le giornate di lotta del 27 giugno e 3 luglio 2011, il giorno successivo all’approvazione del progetto “definitivo” da parte del CIPE, dopo un’ulteriore raffica di condanne per l’azione di lotta alla GeoValsusa dell’agosto 2012, ha dato il segno di un movimento che dura e rinforza i legami solidali con le altre lotte.
Imponente ma discreto il dispositivo poliziesco, ha tuttavia dato la sua zampata, ritardando per ore l’arrivo del treno da Milano, tanto che una parte dei No Tav milanesi non è mai arrivata al corteo.
Un segnale chiaro in vista delle giornate di lotta contro l’expo.
La città di Torino ha risposto con grandi numeri all’appello del movimento No Tav.
Sempre più forti sono i legami tra la valle e la città, nella consapevolezza che ospedali che chiudono, tram, bus, treni più costosi e meno sicuri, scuole che cadono a pezzi, lavoro ridotto a schiavitù precaria non sono un destino. Cambiare rotta si può, fuori dal recinto istituzionale, praticando l’azione diretta e rifuggendo la delega. Torino, nonostante il restyling della vetrina fatto dalle amministrazioni democratiche al governo da decenni, è una città in ginocchio: lo scorso anno hanno perso la casa e sono finite in strada oltre quattromila famiglie, il doppio di Milano, tre volte Roma e Napoli.
Tra Torino e la Val Susa si gioca una partita importante. Non è solo un treno. E’ la possibilità concreta che il destino già scritto da chi punta sulla logica del profitto e del dominio, possa essere cancellato.

Di seguito il volantino distribuito in piazza dalla Federazione Anarchica Torinese, in piazza nello spezzone rosso e nero.



La sabbia, la macchina, l’azione diretta
Il movimento No Tav ha tante anime ma un unico scopo: fermare il supertreno e dare una bella botta al mondo che rappresenta.
E’ una spina nel fianco di questo sistema. Una spina sempre più dolorosa, che vogliono estirpare ad ogni costo.
Le accuse di terrorismo, sulle quali la Procura non ha smesso di puntare, nonostante l’assoluzione di Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, le gravi condanne inflitte per le giornate di lotta del 27 giugno e 3 luglio 2011, le decine di procedimenti contro centinaia di attivisti, sono il segnale della volontà di piegare con la forza un movimento che non cede, che non accetta di ridursi a mero testimone dello scempio.
“La legge è uguale per tutti” è scritto nei tribunali: una farsa atroce. Il diritto dei diseguali è da sempre l’emblema di una giustizia di classe.
Chi uccide migliaia di lavoratori, chi ammazza in divisa, chi avvelena l’acqua e l’aria per il proprio profitto è tutelato e protetto. Chi si ostina a voler cambiare un ordine sociale feroce, ingiusto, predatorio, razzista è condannato a lunghi anni di galera.
L’azione della magistratura, orientata a reprimere ogni insorgenza, ha operato una torsione del diritto, introducendo di fatto il criterio della responsabilità collettiva. Quando non reggono i reati associativi usano l’impalpabile categoria del concorso. La scelta dei soggetti da colpire, costruita sui dossier delle polizie politiche, la digos e i ros, consente operazioni apparentemente “neutre”, in realtà ben mirate. Nuovi pacchetti sicurezza rafforzano un insieme normativo che trasforma in nemici gli oppositori politici, applicando loro leggi di guerra.
Il movimento ha eluso ogni tentativo di dividere i buoni dai cattivi ponendosi a fianco di chi ha subito condanne e di chi è ancora in carcere o a ai domiciliari.
Oggi in piazza ci sono anche i sindaci No Tav. Pochi mesi dopo le elezioni, diversi di loro si sono seduti al tavolo delle compensazioni, un’ambiguità che rende sempre meno attrattive le sirene istituzionali.
La partita vera è comunque in mano ad un movimento che ha dimostrato con i fatti la propria autonomia.
L’ultima mossa del governo ne dimostra la debolezza. Per questo e diversi altri anni a venire non verranno aperti cantieri in bassa valle. Vogliono scavare il mega tunnel dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una soluzione “tecnica” per una questione politica. Il governo teme blocchi e proteste che rendano ingovernabile la bassa valle.
I No Tav dovranno fare i conti con uno scenario difficile. L’area di Chiomonte, scelta per le sue caratteristiche di inaccessibilità, distanza dai centri abitati, facile controllo militare non può essere il solo terreno in cui si gioca una partita, che, sul piano dello scontro diretto, è persa in partenza.
Anche le azioni di sabotaggio, dentro o fuori la valle, pur importanti nel ridare fiducia nella possibilità di gettare sabbia nell’ingranaggio dell’occupazione militare, hanno tuttavia una valenza del tutto simbolica, nonostante il can can mediatico che a volte si scatena.
La scommessa, l’unica che valga le violenze subite, i feriti gravi, le condanne e le carcerazioni, è quella di dare gambe ad un movimento in cui non vi siano specialisti della politica o dell’azione, ma ambiti di confronto e azione in cui ciascuno, come vuole e come può, nel necessario confronto tra tutti, possa dare il proprio contributo alla cancellazione della Torino Lyon.
Per bloccare l’ingranaggio occorre molta sabbia, non bastano poche manciate, non bastano le manifestazioni popolari in sostegno di chi agisce, serve l’azione diretta popolare. Occorre un confronto a tutto campo, di comitato in comitato, di paese, in paese, di quartiere in quartiere, saldando le lotte, unendo i fronti, mettendo a fianco chi non ha una casa e chi rischia di perderla per il Tav. Se il tunnel lo scaveranno dentro la montagna, l’unica alternativa è creare le condizioni perché l’intera valle si blocchi, perché ovunque vi sia una barricata, un picchetto, un’azione, anche piccola, che inceppi la macchina, in cui ciascuno sia protagonista.
Dopo quattro anni e mezzo di occupazione militare il governo punta sulla stanchezza, sulla rassegnazione, sulla divisione.
I No Tav hanno dalla loro la durata, la maturità acquisita, la consapevolezza di avere davanti una strada tutta da lastricare. Ingegneri di barricate e inventori di nuovi sentieri sono chiamati ad un impegno difficile ma possibile. Dipende solo da noi. Da ciascuno di noi. Senza deleghe a nessuno.
Prossimo appuntamento:
La maschera della democrazia. La legge è uguale per tutti?
Il fronte della guerra interna: i processi ai No Tav e agli antirazzisti, la sorveglianza speciale, i fogli di via… Il diritto penale del nemico, il paradigma repressivo che mostra la trama dell’ordine liberale
Ne parliamo venerdì 27 febbraio
ore 21 in corso Palermo 46.
Introduce Lorenzo Coniglione


sabato 21 febbraio 2015

A Torino il 21 febbraio si riporta la lotta al centro

Il popolo valsusino scende malvolentieri a valle della sua terra; se il 21 febbraio lo farà, manifestando a Torino, è perchè vuole incontrarci tutte e tutti. Vuole incontrare i bisogni negati degli abitanti della città più indebitata d’Italia o di quella devastata da Expo 2015; vuole tornare a camminare al fianco degli studenti e di chi reclama reddito, di chi difende la propria casa o il proprio posto di lavoro. Essere a Torino sabato significa riportare la lotta del movimento sul terreno sociale che le è piu proprio: la denuncia della nocività che il TAV rappresenta non soltanto per un territorio, ma per tutta la società.
Se con un centimetro di TAV si paga uno stipendio, se con un metro si riparano o si mettono in sicurezza due scuole; se con 10 metri di TAV se costruisce un ospedale, se con un chilometro si offrirebbe un alloggio a centinaia di famiglie sfrattate, è evidente che il problema che da sempre solleva il movimento porta ciascuno di noi a schierarsi secondo una precisa appartenenza, perchè è il problema di come viene usata e distribuita la ricchezza che tutti noi contribuiamo a produrre.
Sollevare questo problema in Italia è pericoloso. Sollevare questo problema è pericoloso ovunque nel mondo. Per questo, nelle ultime settimane, una sessantina di No Tav sono stati condannati a oltre 150 anni di prigione. Fallito l’intortamento della politica, lo stato ha fatto del Tav in Val Susa una questione di polizia; sfidata, dileggiata e logorata, benché non sconfitta, la polizia, lo stato ha messo in prima linea la magistratura. Lo stato, ovvero: Ligresti, Pd, ‘Ndrangeta; tutte le lobbi cui devono arrivare i soldi del Tav dall’Italia e dall’Unione Europea.
Allora dare solidarietà ai condannati, a chi è ancora in carcere o è ai domiciliari, è tutt’uno con il gridare che vogliamo scuole, ospedali, case popolari; e rispondere alle provocazioni della magistratura altro non può essere che mettere politicamente in difficoltà i suoi mandanti, tornando a comunicare per le strade per far capire che fermare l’alta velocità in Val Susa non ha nulla di ideologico né di pretestuoso, ma è fondamentale per migliorare l’esistenza di tutte e tutti.

A Torino il 21 febbraio si riporta la lotta al centro, si riportano le ragioni No Tav al centro della lotta.

martedì 17 febbraio 2015

Da Parigi ad Utøya La religione uccide

La strage di Parigi è destinata a restare nella memoria collettiva di molti di noi, ancor più se si pensa che molti dei giornalisti di Charlie Hebdo rimasti uccisi erano simpatizzanti del nostro movimento che, come ricorda in un comunicato il Gruppo Kropotkine della Fédération Anarchiste, davano spesso un aiuto grafico e organizzativo al Salone del Libro Anarchico di Merlieux. Ad essere stato attaccato è stato un giornale che ne ha sempre avuto un po’ per tutti, che ha sfottuto l’Islam come l’ebraismo, il cattolicesimo come i protestanti, la famiglia Le Pen come Sarkozy e i sinistri. Il dolore e la rabbia che stanno provando i compagni e le compagne francesi, assieme a tanti lettori, lettrici o semplici compagni di strada dell’Hebdo sono, quindi, anche miei. Meglio chiarirlo preventivamente.
Ma. C’è sempre un “ma”, rivolto in questo caso al coro unanime di sdegno che si leva da ogni angolo del mondo. Viene da chiedersi dove fossero questo difensori della libertà quando Anders Breivik uccise 77 persone che partecipavano a un campus socialdemocratico, compiendo così una delle più grandi stragi che l’Europa del XXI secolo abbia finora visto. Per Breivik si parlò subito di un “folle”, un uomo “fuori dalla realtà”, mentre invece era un credente genuino, un fondamentalista cristiano non dissimile da quelli islamici che hanno attaccato Charlie Hebdo. Eppure nessuno ha speso in quella occasione le stesse parole di sdegno e commozione che oggi politici, filosofi e uomini delle istituzioni versano come vino in una botte.
Perché non ci ricordiamo dei morti di Utøya? Chi pensa che questi due fatti siano slegati non vuole ammettere che siamo sempre nell’ambito del fanatismo religioso. È, questo, l’aspetto più violento di un problema ben più profondo e radicale: la religione. Checché ne pensi qualche teoreta, da anarchico continuo a vedere nella religione uno dei mali più gravi che impediscono il pieno sviluppo di una qualsiasi prospettiva rivoluzionaria.
La religione, che per tanti poveri è l’osteria in cui ubriacarsi per cercare conforto nella sofferenza, e che per tanti autoritari è lo scudo sotto cui annullare chi la pensa diversamente. La religione, strumento politico con cui il potere economico si garantisce la placidità sociale dei sudditi, o se serve la loro rabbia contro chi ha fedi diverse, per non parlare di chi non ne ha nessuna. La religione, la costruzione ideologica che serve a difendere un mondo di merda “perché è ciò che ci ha dato Dio”, quale che sia il suo nome. E sorgono delle domande, come in questo passo che cito da una riflessione di un compagno fiorentino sempre capace di pensieri caustici: «Non sarà che le “religioni” ce la hanno dentro per definizione, la violenza più stupida e cieca? Non sarà che, grattata la “spiritualità”, viene fuori la loro vera essenza di annullamento della volontà, di obbedienza cieca perché “lo vuole dio” e di sterminio?»
Nessuno dimentichi le stragi che tutte le fedi religiose hanno perpetrato o hanno contribuito a far perpetrare nella storia di questo pianeta. Le anime candide del cattolicesimo tacessero, loro che escono da un secolo in cui i regimi reazionari hanno sempre incassato il beneplacito della Santa Madre Chiesa perché impegnati a contrastare il dilagare del materialismo, del comunismo e del relativismo (vi ricordate Franco? E il maiale di Predappio? E i colonnelli greci?…). Il massacro del Charlie Hebdo è una triste pagina, tanto quanto quello di Utøya e di tutti gli altri compiuti in nome del Grand’Uomo che nessuno ha mai visto. Concludo dicendo che potrà sembrare anacronistico, ma continuo a pensare che la lotta alla religione, intesa nelle varie accezioni descritte sopra, vada ripresa con l’unico mezzo che ci è proprio: quello della lotta per la libertà e l’uguaglianza di tutti, che sola può togliere le basi sociali su cui si reggono e si rafforzano le religioni.
Per la libertà. Né dio né stato.

lunedì 16 febbraio 2015

La distruzione dell’ordine presente delle cose

Intendiamo per autonomia proletaria contemporaneamente la realtà pratica, quotidiana di lotta anticapitalistica e antistatale della rivolta e della lotta di classe… la rottura di ogni legame col diritto e la morale borghesi. Autonomia proletaria non vuol dire nuovo gruppo rivoluzionario ma è… la distruzione dell’ordine delle cose. Essa si esprime nelle lotte di fabbrica per il salario contro la cogestione sindacale dello sfruttamento e della repressione capitalistica; si esprime nella lotta di liberazione delle masse femminili contro la violenza interna a questo sistema; nella lotta degli emarginati, delle minoranze contro la ghettizzazione… Rivendica e considera interni alla classe, espressione di bisogno del comunismo, gli atti di rivolta individuale, la ribellione contro il padrone, il prete, il sindacalista corrotto, il padre oppressivo, il preside autoritario o paternalista, il professore imbecille, come coscienza e rottura di un ordine e regole…
Combattere contro la rassegnazione, l’indifferenza, il provincialismo culturale e morale, la subordinazione per destino prescritto, il perbenismo da salottino moderno, i miti televisivi, l’importazione di modelli estranei con vetrine di lusso, il folklore per i turisti, il patriarcalismo nelle famiglie, la tremenda oppressione femminile, la disgregazione e la disperazione giovanili, lottare e organizzarsi ogni giorno e ovunque. Lottiamo contro le falsità democratiche dei burocrati in poltrona girevole, contro la pazienza che ci insegnano sindaci, preti, professori e sindacalisti per nascondere le loro sporcizie e le villette in campagna o al mare, contro la mafia e il suo terrorismo, la sua omertà, i suoi guadagni,
Autonomia è dunque realtà, lotte, esigenze, programma. A noi sta convogliare e organizzare i mille momenti di lotta in un unico potente cuneo che separi in due quest’unico mondo e sotterri la borghesia.

(Tratto da:
mo’ basta! aizamm’a capa, giornale dell’autonomia proletaria calabrese, ottobre 1976)

venerdì 13 febbraio 2015

Manifestazione popolare No Tav a Torino

Sabato 21 febbraio
Manifestazione popolare No Tav a Torino
ore 14 piazza Statuto

Il corteo si concluderà in piazza Castello.


martedì 10 febbraio 2015

Charlie e il rancore delle banlieue

La lettera di alcuni insegnanti francesi sui fatti di Parigi è lo spunto per una riflessione sull’immaterialità della libertà repubblicana, una beffa per chi abita le banlieue e sente il fascino dell’ondata jihaidista che investe le periferie francesi. Le banlieue ideate da un architetto famoso, e di sinistra, come Le Courboiser, sono diventate discariche sociali, ghetti, luoghi fisici e simbolici del nuovo apartheid neocoloniale.

Di seguito la lettera.
“Siamo professori del Dipartimento della Senna Saint Denis. Intellettuali, studiosi, adulti, libertari, abbiamo imparato a prescindere da Dio e a detestare il potere ed il suo godimento perverso. Non abbiamo altro padrone che il sapere. Questo discorso ci rassicura, grazie alla sua coerenza presunta razionale ed il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. Pertanto, anche noi siamo stati oggetto di questo attentato. Anche se nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di tanta insolenza, siamo feriti. Per questo, siamo Charlie.
Ma facciamo lo sforzo di cambiare punto di vista e cerchiamo di vederci come ci vedono i nostri alunni. Siamo ben vestiti, ben pettinati, comodamente calzati o, in ogni caso, chiaramente al di là di queste contingenze materiali, il che fa sì che non bramiamo quegli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri alunni: se non li possediamo, forse è perché abbiamo i mezzi che ce lo consentirebbero.
Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone educate e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo come un fatto acquisito che “La Libertà che guida il popolo” (celebre quadro di Eugène Delacroix, 1830) e Candido di Voltaire siano parte del patrimonio dell’umanità. Ci diranno che l’universale è tale di diritto, non di fatto e che moltissimi abitanti del pianeta non conoscono Voltaire?
Che banda di ignoranti… È tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar glielo ha già spiegato (discorso del presidente francese Nicolas Sarkozy all’Università di Dakar, Senegal, luglio 2007, nel quale dichiarò che il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è entrato a sufficienza nella Storia).
Quanto a coloro che vengono in Francia da altre parti e vivono fra noi, che tacciano e si adeguino. Se i crimini perpetrati da questi assassini sono abominevoli, ad essere terribile è che essi parlino francese e con l’accento dei giovani delle banlieue. Questi due assassini sono come i nostri alunni. Il trauma, per noi, è anche sentire queste voci, questo accento, queste parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici, che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno venga a dirci che, con tutto quello che facciamo, noi siamo esenti da questa responsabilità.
Noi, vale a dire i funzionari di uno Stato che non assolve ai suoi obblighi; noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e tanti altri al margine della via dei valori repubblicani; noi, cittadini francesi che ci lamentiamo costantemente per l’aumento delle tasse; noi, contribuenti che approfittiamo ogni volta che è possibile delle esenzioni fiscali; noi, che abbiamo permesso che l’individuo prevalga sul collettivo; noi, che non facciamo politica o deridiamo coloro che la fanno: noi siamo responsabili di questa situazione.
Quelli di Charlie Hebdo erano nostri fratelli: noi li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, cresciuti in orfanatrofi sotto tutela della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno dunque ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura, questo fatto provoca un sentimento mai citato in questi ultimi giorni: la vergogna.
Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica molto più scomoda che dolore e collera. Se si provano dolore e collera è possibile accusare qualcun altro; ma che fare quando ci si vergogna e si è in collera con gli assassini, ma anche con sé stessi?
Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno pare volersene prendere la responsabilità.
Quella di uno Stato che lascia che degli imbecilli e degli psicotici marciscano in carcere e si trasformino in giocattoli di perversi manipolatori, quella di una scuola alla quale si tolgono i mezzi di sostentamento, quella di una politica urbanistica che parcheggia gli schiavi (i senza documenti, coloro che non hanno il certificato elettorale, i senza nome, i senza denti) nelle cloache delle banlieue. La responsabilità di una classe politica che non ha mai compreso che la virtù s’insegna solo con l’esempio. Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri.
Coloro che li hanno ammazzati sono figli di Francia. Apriamo, allora, gli occhi sulla situazione, per comprendere come ci siamo arrivati, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.
“Noi siamo Charlie”, lo possiamo portare su una spilla al bavero. Ma ribadire la solidarietà alle vittime non ci esenterà dalla responsabilità collettiva di questo assassinio. Siamo anche i padri dei tre assassini”.

Catherine Robert,
Isabelle Richer,
Valérie Louys
Damien Boussard

giovedì 5 febbraio 2015

Rage Against The Machine - Killing in The Name Of

Killing in the name of
Some of those that work forces,
are the saints that burn crosses
Now ya do what they told ya
Don't you die or justify
You're wearin the badge, and your chosen
white
You justify those that died
By wearin the badge and your chosen
white
Some of those that work forces,
are the saints that burn crosses
Killing in the name of...
Now ya do what they told ya
Your under control
Now ya do what they told ya
Those who die, are justified,
for wearing a badge and their clothes in
white
You justify those that died
By wearin the badge and your chosen
white
Come on...
Fuck you, I won't do what ya tell me...
Mutha fucker
Uccidere per conto di qualcuno!
Alcuni di quelli che sono stati obbligati,
sono gli stessi che imbracciano i fucili
E ora fai quello che ti dicono
Non morite o giustificatevi,
per aver indossato l'emblema della nazione, siete i bianchi eletti
Tu giustifichi quelli che sono morti
indossando l'emblema della nazione, sono i bianchi eletti
Alcuni di quelli che sono stati obbligati,
sono gli stessi che imbracciano i fucili
Uccidere per conto di qualcuno!
E ora fai quello che ti dicono
Sei sotto controllo,
ora fai quello che ti dicono
Quelli che sono morti sono giustificati,
per aver indossato l'emblema della nazione, sono i bianchi eletti
Tu giustifichi quelli che sono morti
indossando l'emblema della nazione, sono i bianchi eletti
Andiamo
Fottiti, non farò quello che mi dici!
Figlio di puttana!

domenica 1 febbraio 2015

Violenza rivoluzionaria

Mentre la maggior parte di noi tenta di ottenere un'esistenza pacifica e armoniosa con i propri simili e con il resto delle vite, è importante riconoscere il contesto all'interno del quale noi viviamo attualmente. La maggior parte della popolazione mondiale vive in condizioni deplorevoli, non perché non è diventata civilizzata o modernizzata, ma perché è obbligata ad essere la manodopera del cosiddetto potere del primo mondo. Alcuni di noi vivono nel primo mondo soffrendone, con estrema alienazione, deterioramento fisico, distorsione psicologica, e vuoto spirituale, non ci sono dubbi che siamo tutti diretti in un percorso unidirezionale verso la sorte avversa. Inutile dire che ci troviamo indubitabilmente sull'orlo del collasso ecologico. Sapendo questo, è importante per noi prendere in mano la situazione e agire ora... poiché sappiamo che il tempo a disposizione è poco!
Nell'essere anarchici si è automaticamente rivoluzionari, o comunque atti a promuovere l'insurrezione a scopo di liberazione. Questo può avvenire in diverse forme, ma la riforma dei sistemi di dominazione non sono punti di vista anarchici. Mentre molte azioni anarchiche possono essere considerate non violente, non esiste limite da porre alla nostra resistenza. Come anarchici, dobbiamo rifiutare i limiti ideologici e filosofici mentre scegliamo come resistere. L'interazione fisica con l’autorità necessita di andare oltre la passività e i simboli. Infatti, molti anarchici adottano la violenza rivoluzionaria come reazione naturale e necessaria all'oppressione. Se noi guardiamo ovunque nel mondo naturale, osserviamo che l'auto-difesa fa parte dell’istinto umano.
È importante mettere in discussione le limitazioni ideologiche che provengono da luoghi di estremo privilegio. Molte persone della Terra non hanno la possibilità di decidere quale sia la risposta più giusta alla dominazione, e spesso devono scegliere fra la vita e la morte. Non è questione di riflessione personale o di perfezionismo ideologico; è agire o morire. Questo non significa che tutto deve essere collegato alla resistenza violenta, ma piuttosto, sapendo che esiste, ammettere che è giustificata (in molte situazioni), e che non deve essere condannata. La violenza rivoluzionaria, nelle sue varie forme, è una risposta necessaria alla violenza istituzionale del sistema, ed è necessaria per la continuazione di tutte le forme di vita. Sì, noi dobbiamo guarire le ferite causate da questo pessimo viaggio che chiamiamo civilizzazione, ma il processo di guarigione può andare avanti soltanto se siamo capaci di fermare l'inflizione di queste ferite da parte degli oppressori. Perché siamo tutti sotto il tiro di un'arma e, dobbiamo rispondere con l'autodifesa e per la liberazione.