..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 30 gennaio 2015

Rom e sinti. La memoria che non c’è - Dai campi di sterminio ai campi della democrazia

Pochissimi in Europa conoscono la parola Porrajmos. Eppure ricorda una delle pagine più terribili della memoria di quei popoli che tanti continuano a chiamare “zingari” o “nomadi”.
Porrajmos è la parola che nelle lingue sinte e rom definisce il “divoramento” subìto tra il 1934 e il 1945. L’Europa nazista e fascista fu teatro dell’annientamento di almeno la metà dell’intera popolazione rom e sinta europea. Cinquecentomila uomini, donne e bambini perseguitati, imprigionati, uccisi, deportati nei lager e seviziati, vittime degli orrendi esperimenti medici nazisti, sterminati nelle camere a gas e nei forni crematori.
Nei processi ai nazisti colpevoli di crimini contro l’umanità che seguirono la guerra, primo tra tutti quello di Norimberga, Rom e Sinti non ebbero spazio. Le loro sofferenze vennero seppellite da un silenzio, più pesante dei muri di Auschwitz. Solo nel 1980 il governo tedesco, in seguito ad una iniziativa della Verband Deutscher Sinti und Roma, riconobbe ufficialmente che i Rom e i Sinti durante la guerra avevano subito una persecuzione razziale. La persecuzione razziale subita dai Rom e dai Sinti è per lo più rimossa o, persino, negata.
In Italia per lunghi decenni persecuzioni razziali subite dai rom e dai sinti durante la dittatura fascista non hanno mai avuto parola. La Legge n. 211 del 20 luglio 2000 che istituisce il Giorno della Memoria non ricorda esplicitamente lo sterminio subito dalle popolazioni sinte e rom.
Nel dopoguerra i rom e i sinti vennero destinati ai “campi di transito” nonostante non fossero più nomadi. Lo stigma nei loro confronti è forte e radicato. Sono considerati stranieri, anche se spesso discendono da gruppi arrivati nella penisola oltre 700 anni fa.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli attacchi e le violenze fisiche e verbali. Le cronache narrano di sgomberi violenti, continui controlli di polizia, persecuzioni, insulti, botte. Nemmeno i bambini sfuggono agli attacchi.
In questi mesi, a Mirafiori (Torino), un gruppo di profughi bosniaci, apolidi di fatto, sono finiti nel mirino dei fascisti di Forza Nuova, Casa Pound e Fratelli d’Italia. Pochi anni fa alle Vallette, alla testa del corteo che finì con il pogrom della Continassa, c’era l’allora segretaria provinciale ed oggi onorevole del PD, Bragantini.
Rom e sinti sono costretti a vivere ai margini delle nostre città, in baracche fatiscenti, tra topi e fango.
Nel luglio del 2008 un gruppo di famiglie rom rumene decise di farla finita con il campo di via Germagnano ed occuparono uno stabile dell’Enel abbandonato da anni. Per sgomberarli i poliziotti fecero irruzione mascherati spaccando tutto. Un pullman della GTT li deportò in via Germagnano. Il comune di Torino collaborò a riportare nel campo abusivo, uomini, donne e bambini, la cui stessa vita è considerata abusiva.
Ogni tanto la furia razzista brucia i campi, i campi della democrazia. 

giovedì 29 gennaio 2015

La memoria tradita

Ricordare è un modo per non tradire un passato che non vorremmo che torni? Basta la memoria degli orrori a impedirne la ripetizione?
Difficile da credere di fronte alla lunga teoria di massacri del secolo breve. Massacri etnici, politici, sociali. Massacri programmati e realizzati con metodo e macellerie brutali ma senza un luogo, uno spazio.
I lager nazisti stupiscono per la loro fisicità. I muri, le baracche, i trasporti, i mucchi di denti, capelli, scarpe, abiti, le divise di stracci. Umano, sin troppo umano, il sistematico ridurre a cosa uomini, donne, bambini.
La giornata della memoria, che cristallizza in un momento la storia dei lager nazisti, è davvero un viatico per il ricordo o è già, essa stessa, tradimento?
Il 27 gennaio è il giorno in cui l’armata rossa entrò ad Auschwitz e mostrò al mondo l’orrore dei campi? Fu davvero una “scoperta”? Oggi sappiamo che tanti sapevano ma non dissero né fecero nulla.
A Churchill venne chiesto di bombardare Auschwitz ma non lo fece.
Tante testimonianze dai campi prima di quel 27 gennaio restarono inascoltate. Il 27 gennaio non segna l’inizio della memoria ma il primo giorno del suo tradimento. Le immagini di Auschwitz diventano la prova vivente della cattiveria del “nemico”. Il nazista cristallizzato da tanta filmografia dei vincitori, che quasi subito lo distinguono dal popolo tedesco, che non sapeva, dagli alleati che non potevano immaginare quanto feroce, disumano fosse il mostro che combattevano.
Un mondo dipinto in bianco e nero diventa il fondale perfetto per il quadro del male assoluto, il male che come un cancro si annida in un corpo sano, che lo amputa e se ne libera per sempre.
Ottima propaganda, pessimo esercizio di memoria.
Non per caso restano sullo sfondo le vicende dei tantissimi che non passarono subito per il camino, quelli che vennero sterminati con il lavoro forzato in fabbriche i cui nomi conosciamo bene: Siemens, Krupp, Bayer. Il sogno capitalista del lavoro che non costa nulla, nemmeno il mantenimento dello schiavo, usato sino alla distruzione, poi gettato via e sostituito con uno nuovo.
I sette operai che a Torino sono bruciati vivi alla Thyssenkrupp, l’acciaieria destinata a chiudere senza sicurezza, perché la vita di sette lavoratori vale meno di un estintore, ci racconta come la memoria di Auschwitz, Dachau, Ravensbruck sia stata tradita sin dal primo giorno, sin da quel 27 gennaio del 1944.
I campi rom che bruciano nelle periferie del nostro paese ci narrano di una memoria che non c’è. Ci raccontano della lunga notte di oblio che ha avvolto il porrajmos, lo sterminio di 500.000 rom e sinti europei. Ci raccontano una banalità.
La memoria viva, la memoria che fa argine all’orrore, è quella di chi si batte per estirpare le radici del razzismo, della discriminazione, del fascismo, della logica feroce del profitto.
Nella consapevolezza che quello che è successo torna e torna ancora in altre forme e altre latitudini.

Occorre vedere il nostro presente per non tradire la memoria del passato.

martedì 20 gennaio 2015

La gelosia

La gelosia è uno degli strumenti con cui si costruisce la prigione.
La gelosia nasce soprattutto dall’umiliazione che ciascuno di noi ha subito nei primi anni della propria vita quando è stato messo in ginocchio, piangente, di fronte a una qualsiasi immagine dell’autorità. Questa stessa immagine-fantasma è l’antagonista occulto che ci accompagna, angelo custode all’aspetto di Frankestein, pronto a rinnovare la sua impresa spezzandoci nuovamente nell’umiliazione; ed ha come alleato la parte di noi che, per avere già acconsentito, sa di poter cedere nuovamente. In questo senso la vera paura celata dalla gelosia è quella del tradimento di noi stessi, non già di quello altrui. Ancora, essa nasce dall’immagine culturale, patriarcale e cristiana in particolare, della donna come proprietà da difendere e della sua (per il tutto una parte) vulva come ricettacolo passivo. In questa logica noi raffiguriamo noi stessi come i soli autorizzati allo stupro: dagli altri temiamo lo stesso stupro che noi immaginiamo di poter compiere legalmente.
Così ancora una volta si umiliano il corpo e l’amore, e si rinnega prima di tutto in sé e poi negli altri il fuoco che accende di vita il corpo e gli dona tutta la grazia della divinità.
Nella visione pornografica cristiana dello stupro e del sesso, inteso come peccato e cosa immonda, sta la chiave della nostra avarizia prima di tutto nei nostri confronti e poi in quelli degli altri.
Insomma, la gelosia umilia chi è geloso doppiamente: prima di tutto perché lo inginocchia di fronte ad un fantasma del passato, ripetendo così una esperienza traumatica infantile; e poi perché avvilisce l’oggetto d’amore così che, tradito l’amore, si trasformerà in oggetto di disprezzo.


domenica 18 gennaio 2015

Tutte le bandiere nazionali contiengono un'idea di razzismo

Come si fa a non capire che il concetto di unità nazionale non è altro che l'idea di un recinto costruito appositamente per contenervi sudditi e schiavi? Le nazioni, queste regioni artificiali del mondo, volute da despoti ma difese soltanto dal popolo, il quale viene mandato a morire per difendere confini e separazioni che la Natura non ha creato... Le nazioni -dicevamo- rappresentano, in scala più grande, il deleterio concetto da sempre combattuto di proprietà privata terriera. La nazione è un latifondo, una contea appartenente a “signori“ arroganti e sempre fascisti, sfruttatori del popolo, beneficiari di ogni ricchezza e di ogni privilegio. E se questi “signori“ sono i proprietari terrieri, ecco dunque cos'è il popolo: uno stuolo di contadini sudditi, schiavi imboniti che regalano al padrone i frutti del loro immenso sacrificio, talmente convinti di fare la cosa giusta da difendere persino sia il padrone, sia il recinto, sia la bandiera posta sul confine. Il popolo è felice di servire, l'importante è che il padrone si mostri ogni tanto in abito bianco e che sul suo bastone sia leggibile la parola 'democrazia'. Il popolo ci casca sempre.
Immaginate le lotte del popolo contro i latifondisti, immaginate ad esempio la strage di Portella della Ginestra, avvenuta un 1° maggio, non una festa, ma la giornata internazionale contro i padroni, immaginate tutti quei contadini che per secoli hanno coraggiosamente alzato la testa contro il ricco latifondista... oggi quei contadini si chiamano anche operai, insegnanti, impiegati, casalinghe, migranti, negozianti, artigiani, insomma... siamo tutti noi. Ma c'è una differenza: se i contadini hanno anche saputo lottare (e morire) per emanciparsi dalla schiavitù, per un ideale di libertà, oggi il popolo difende il suo padrone, lo elegge, si lascia ammansire dalla propaganda nazionalista. La bandiera è il vessillo della prigione del popolo (cara, adorata prigione). Ed è in nome di quella bandiera (e non della propria emancipazione) che il popolo soffre e muore, ma lo fa sventolando orgoglioso la bandiera! Vuoi mettere, morire per la patria? In palio c'è anche la medaglietta. Meraviglioso. In fondo è giusto, dite, al di là del confine ci sono altri popoli che adorano un'altra bandiera. Quelli sono popoli che, dite, in nome di quella loro bandiera sarebbero pronti a uccidere se solo il loro sovrano -uguale al vostro- glielo ordinasse. Voi pensate di essere nel giusto (ma anche loro), voi pensate di essere migliori (ma anche loro), noi siamo noi e loro non sono un cazzo: questo è quello che intimamente vi insegna lo Stato e la sua bandiera! Bisogna essere imboniti a dovere per non capire questo. Poi ci sono anche quelli che dicono persino “è così, non ci si può fare niente”, e lo dicono sempre sventolando la bandiera. No comment.
Così il popolo festeggia la propria schiavitù. Anziché ribellarsi e progredire, il popolo garrisce la bandierina, come fosse in adorazione mistica delle proprie catene. E infatti lo Stato è diventato una religione, un dogma. É come vedere quei contadini di Portella della Ginestra che, anziché marciare contro i latifondisti, stendono un tappeto dorato ai piedi dei loro sfruttatori. Peggio, è come vederli adagiati per terra, a quella terra a cui sono stati incatenati, stesi a mo' di tappeto per pulire le suole merdose dei loro padroni e ringraziare al loro passaggio, sempre con la bandierina in mano.
No, signori miei, queste non sono parole di un blogger, questi sono concetti che da sempre l'ideale anarchico diffonde per far prendere coscienza dello Stato di schiavitù in cui siamo costretti. Non è propaganda, ma realismo. E l'ideale anarchico è talmente grande da non poter proprio considerare concetti piccoli come le vostre singole nazioni, l'anarchia è in campo per l'unità di tutti i popoli del mondo, liberi dai confini e dagli Stati, dalle bandiere e dai padroni. E se qualcuno di voi non è in grado di pensare in grande, quantomeno, per favore, non siate tanto ipocriti da abbracciare cause internazionali di fratellanza e di solidarietà (tanto per sembrare impegnati e fratelli. Fratelli di chi?). Se non siete capaci di immaginare un mondo con un unico grande popolo, non dite mai di odiare il razzismo, perché con le vostre catene e con le vostre piccole bandiere, siete voi i primi razzisti. Prima di ogni guerra, sappiatelo, gli Stati preparano sempre il popolo fomentando il razzismo, alimentando l'odio, adducendo giustificazioni tese a condannare l'altro, usando mirabilmente la propaganda nazionalista e populista (“Quando lo Stato si prepara ad assassinare si fa chiamare patria” - F.Durrematt). Ora rispondete onestamente solo alla vostra coscienza: quando scoppia una guerra, pensate che la colpa sia davvero dei popoli che non aspettano altro di morire o uccidere?

martedì 13 gennaio 2015

Riprendiamoci la città

Se, il tessuto urbano concentra dinamiche di trasformazione e di conflitto sociale, altrettanto determina tattiche che concretamente oppongono spazialità non più soggette ai criteri del mercato e del consumo. Proprio tali dispositivi di contro-cultura intervengono nel sistema città come luoghi non certo utopici, bensì come zone effettive e compiute di contro-dominio che sfuggono, seppure per un tempo limitato, alle regole del controllo biopolitico. Sono frammenti occupati che non possono essere interpretati dunque come spazi etero topici, secondo il concetto foucaultiano, perché s’inseriscono come luoghi radicali per culture e interazioni attive capaci di formulare un produttivo e processuale diritto alla vita urbana. Per quanto episodici o addirittura temporanei, questi posti occupati ribaltano il valore mercificato dello spazio metropolitano attuale, in valore d’uso congruente con un vivere ed un abitare autonomo lontano dagli ordinamenti neoliberisti. Costruiscono piuttosto nuove modalità di scambio culturale e di interrelazione sociale, stabilendosi, malgrado la loro disseminazione rizomatica, come organismi propulsivi di contro-cultura o più precisamente come bacini produttivi che compongono e diffondono non semplicemente modalità diverse del vivere, ma contingenti stili di vita radicati entro i tessuti della città globalizzata.
La capacità di interferire nel programma o nell’ordinamento del territorio neoliberale esprime una rivendicazione alla vita urbana in grado altresì di opporre percorsi di cultura e comunicazione non assoggettati a criteri economici dettati dal mercato. Non più quindi la riduzione e semplici esperienze contingenti e locali, piuttosto l’assimilazione, tramite tali pratiche di appropriazione e partecipazione, che il diritto alla città prerogativa assoluta per collettività e culture spontanee, libertarie, autonome, ed universalmente urbane.

lunedì 12 gennaio 2015

La città è del cittadino

Nelle città la maggior parte delle persone non riesce a vivere come vuole; l’ambiente urbano, così com’è, non permette che nascano e si sviluppino le loro personalità; è inadatto a soddisfarne i bisogni, organizzato com’è a vantaggio di qualcos’altro. L’attività di ognuno, che sia lavoro, uso del tempo libero, dormire, cucinare, studiare, eccetera, è di norma organizzata in spazi che solo in minima parte possono essere creati, modificati e gestiti da chi li abita. Gli ambienti sono concepiti in modo tale che l’abitare sia funzionale non alla vita di ciascuno, ma agli interessi di persone estranee ad essa. Così la scuola è costruita primariamente per educare alla disciplina, la fabbrica o l’ufficio per creare profitto, i condomini per spezzare la socialità, il cubo in cui viviamo per ammansirci; difficilmente possono essere modificati. Se si vuole cambiare qualche cosa nella propria casa si deve chiede il permesso a qualche autorità. Regolamenti edilizi e burocrazie di ogni genere hanno criminalizzato ogni intervento creativo all’esterno, ma anche all’interno delle abitazioni.
Nell’intimo delle mura domestiche la possibilità di gestire lo spazio si limita a poche cose, per lo più intese a isolare all’interno delle quattro mura le persone che ci abitano.
L’unico ambito in cui si ha il permesso di organizzare la propria casa è confinato alla disposizione dei mobili, alla tinteggiatura delle pareti: tutto il resto è precluso, dove si abita e come si abita sono sotto stretto controllo.
Per cambiare tutto ciò, l’individuo deve evolversi, liberarsi dalla delega, diventare cittadino a tutti gli effetti fino a trovare il proprio posto e mettere le radici. Questo cambiamento spetta a coloro che nel territorio vivono, non a coloro che ci investono, e l’unico ambito in cui ciò è possibile è quello offerto dall’autogestione territoriale generalizzata, cioè la gestione del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie. La città deve generare un’aria che renda liberi gli abitanti che la respirano.

domenica 11 gennaio 2015

Era da tempo che Charlie Hebdo non faceva più ridere, oggi fa piangere

“Se non state attenti,
i massmedia vi faranno odiare
le persone oppresse
e amare quelle che opprimono”.


Malcom X


Ça faisait longtemps que Charlie Hebdo ne faisait plus rire, aujourd’hui il fait pleurer.

Il est minuit moins le quart dans le siècle. Nous sommes à un point de bascule historique sur l’islamophobie et le déchaînement du racisme en France et plus largement en Europe. La lecture simplifiée à l’extrême par les médias  de cette journée du 7 janviers 2015 va se résumer et s’imprimer dans de nombreux cerveaux « par l’attaque meurtrière contre un journal « de Gauche » par des Musulmans. Cela va déstabiliser et retourner des positionnements politiques. La Peur, la colère, la tétanie, l’incompréhension, la panique morale vont chez certains laisser largement place à la Haine.
Au-delà des paramètres d’opportunité militaire qui ont pu justifier le choix de ce journal par ce commando cette attaque correspond à une logique et à une vision politique des tak-taks : précipiter l’affrontement et la radicalisation de fractions importantes de la population. Charlie Hebdo bénéficie d’un capital symbolique encore important à gauche : il est encore considéré comme antiraciste et incarnant la liberté d’expression par de nombreuse personnes. Ce n’est pas Minute ou le Figaro qui ont été visés.
Les tak-tak savent que si la digue antiraciste de gauche saute, alors c’est toute l’Europe qui bascule dans le déchaînement d’une violence raciste symbolique et physique dont les musulmans sont les premières proies. Dans ce scenario les guerriers tak-taks qui se fantasment en défenseurs de l’Islam espèrent que les populations musulmanes alors violemment opprimées viendront trouver protection derrière eux.  Un peu comme les sionistes toujours prêts a instrumentaliser les vagues d’antisémitisme pour justifier l’existence de l’état d’Israël en refuge des populations juives opprimées, les tak-taks ont besoin de l’oppression de l’Islam pour conquérir les cœurs des croyants.
Ne soyons pas hypocrites, Charlie Hebdo n’est pas un ami politique. Depuis des années, il a basculé dans le camp de la pensée dominante et participe au développement d’une islamophobie de gauche. Pourtant personne ne peut ni ne doit se réjouir de l’exécution de ses journalistes. Rien ne peut justifier cet acte dans le contexte actuel de la France. Mais cette attaque ne doit pas faire taire non plus les critiques à l’encontre de Charlie Hebdo et de la presse en général sur sa ligne rédactionnelle et humoristique islamophobe.
Aujourd’hui, porter la guerre dans la salle de presse de Charlie hebdo c’est comme poser une bombe à la gare de Bologne. C’est un acte de terreur pour désorienter.
Sur cet acte, complotisme et islamophobie vont prospérer. L’attaque contre Charlie Hebdo permet la prise en otage de millions de personnes de confession musulmane en France et en Europe.
Les seuls gagnants de cette attaque sont les réactionnaires de tous bords, islamophobes en tête. En face, les tak-taks qui veulent le repli sur elle d’une communauté musulmane hétérogène se frottent les mains. Cette attaque, c’est un verrou qui est mis en place pour nous bloquer entre le marteau des takfirs et l’enclume du néo-libéralisme.
Les multiples sensibilités présentes dans les quartiers vont faire face à la sommation de choisir l’embrigadement à la Cause nationale ou la marginalisation et la criminalisation.
Les conditions permettant l’arrivée d’une telle catastrophe étaient réunies, nous le craignions.
Le PS a liquidé durant des années toute opposition à gauche, et surtout celle qui tentait de se construire dans les quartiers populaires. Cela a contribué à laisser le terrain libre à ce qui peut se faire de pire en matière de nihilisme. Parce qu’au delà de la ligne réactionnaire, ce qui marque ce genre d’action c’est l’impasse politique économique et sociale dans laquelle l’Europe se retrouve à chaque crise économique. Le nihilisme d’une partie des nôtres prospère sur la misère que sèment les gouvernements capitalistes en Europe.
Ce qui s’est passé ce 7 janvier, c’est la possibilité offerte par les tak-taks à ceux qui nous oppriment de couper des liens de solidarité et de détruire une communauté de destin entre croyants et non croyants. C’est la possibilité de condamner à l’avance n’importe qui en fonction de sa croyance ou de son faciès.
Les analyses biaisées servant de propagande aux pires réactionnaires, les appels à l’ordre républicain, à l’unité nationale, à la laïcité, à la liberté d’expression, à la démocratie parlementaire comme rempart face à la barbarie de l’ennemi intérieur nous tombent dessus comme une déferlante. Dans ce contexte la ritournelle sur «l’angélisme» dont la «gauche coupable» a fait preuve envers l’immigration et les Musulman.e.s risque de faire basculer bien des personnes raisonnables dans le camp de la haine de l’autre.
La population vivant en France se retrouve coincée dans ce contexte de crise économique entre l’enclume néolibérale qui ne donne pas de solution autre qu’individuelle et le marteau réactionnaire qui met les origines culturelles ou biologiques des classes populaires en compétition. La seule chose à faire est de tenir la ligne qui permette de nous sortir de ce piège : se battre collectivement pour la justice économique et sociale. Pris entre le marteau et l’enclume nous devons stopper le forgeron. Dans cette période sombre nous devons nous inspirer de ce qui se passe ailleurs dans le monde comme au Kurdistan coincé entre l’impérialisme occidental et les réactionnaires de Daesh. Ici comme ailleurs, nous avons la possibilité de créer les conditions de notre libération.
È mezzanotte meno un quarto nel secolo. Siamo ad un punto di ribaltamento storico nell'islamofobia e nello scatenarsi del razzismo in Francia e più largamente in Europa. La lettura semplificata all'estremo dai media di questa giornata del 7 gennaio 2015 andrà a riassumersi e imprimersi in numerose menti come “l'attacco assassino contro un giornale "di sinistra" da parte di Musulmani”. Questo destabilizzerà e rovescerà dei posizionanti politici. La Paura, la collera, lo sbigottimento, l'incomprensione, il panico morale lasceranno in alcuni ampiamente spazio all'Odio.
Al di là dei parametri di opportunità militare che hanno potuto giustificare la scelta di questo giornale dal commando, l’attacco corrisponde a una logica e a una visione politica dei Tak-taks: precipitare lo scontro e la radicalizzazione di frazioni importanti della popolazione. [Nota: Un takfiri è un musulmano che accusa un altro musulmano di apostasìa. (Apostaìa: Ripudio, rinnegamento della propria religione per seguirne un’altra). Il Takfirismo considera miscredente tutta la società mussulmana e definisce eretici tutti i mussulmani che non condividono il suo punto di vista. L’assassinio di questi ultimi, per tale ragione, viene considerato lecito.] Charlie Hebdo gode ancora di un capitale simbolico importante a sinistra: è ancora considerato da numerose persone come antirazzista e incarnante la libertà d'espressione. Non sono Minute o le Figaro che sono stati presi di mira. I tak-tak sanno che se la diga antirazzista di sinistra salta, allora è tutta l'Europa che si riversa nello scatenarsi d'una violenza razzista simbolica e fisica di cui i musulmani sono le prime vittime. In questo scenario, i guerrieri tak-tak che s'immaginano in difensori dell'Islam sperano che le popolazioni musulmane, allora violentemente oppresse, verranno a trovare protezione dietro di loro. Un po’ come i sionisti sempre pronti a strumentalizzare le ondate di antisemitismo per giustificare l'esistenza dello stato d'Israele come rifugio delle popolazioni ebraiche oppresse, i tak-tak hanno bisogno che l'Islam sia oppresso per conquistare i cuori dei credenti.
Evitiamo d'essere ipocriti, Charlie Hebdo non è un amico politico. Da anni, è finito nel campo del pensiero dominante e partecipa allo sviluppo di un'islamofobia di sinistra. Ma nessuno può nè deve rallegrarsi dell'esecuzione dei suoi giornalisti. Niente può giustificare quest’atto nel contesto attuale della Francia. Quest’attacco però non deve neanche far tacere le critiche su Charlie Hebdo e sulla stampa in generale circa la sua linea redazionale umoristica islamofoba.
Oggi portare la guerra nella sala stampa di Charlie Hebdo è come mettere una bomba alla stazione di Bologna. È un atto di terrore per disorientare. Su quest’atto, complottismo e islamofobia prospereranno. L'attacco contro Charlie Hebdo permette di prendere in ostaggio milioni di persone di confessione musulmana in Francia e in Europa.

I soli vincitori in quest’attacco sono i reazionari di ogni sponda, islamofobi in testa. Davanti a loro i tak-tak, che vogliono che una comunità musulmana eterogenea si chiuda su sé stessa, si fregano le mani. Quest’attacco, è un lucchetto messo lì per bloccarci tra il martello dei takfir e l'incudine del neo-liberalismo.

Le molteplici sensibilità presenti nei quartieri affronteranno l'ingiunzione tra lo scegliere l'arruolamento alla Causa nazionale o la marginalizzazione e criminalizzazione.
Temiamo che le condizioni che hanno permesso l'arrivo di una tale catastrofe fossero riunite. Il Partito Socialista ha liquidato per anni ogni opposizione di sinistra, soprattutto quelle che cercavano di costruirsi nei quartieri popolari. Questo ha contribuito a lasciare terreno libero a ciò che di peggio si può fare in materia di nichilismo. Perché al di là della linea reazionaria, ciò che caratterizza questo genere d'azioni è l'impasse economica e sociale nella quale si ritrova l'Europa ad ogni crisi economica. Il nichilismo di una parte dei nostri prospera nella miseria che seminano i governi capitalisti in Europa.
Ciò che è successo questo 7 gennaio è la possibilità offerta dai tak-tak a coloro che ci opprimono di recidere ogni legame di solidarietà e di distruggere una comunità di destino tra credenti e non credenti. È la possibilità di condannare in anticipo chiunque in funzione del suo credo o del suo aspetto.
Le analisi faziose che servono da propaganda ai peggiori reazionari, gli appelli all'ordine repubblicano, all'unità nazionale, alla laicità, alla libertà d'espressione, alla democrazia parlamentare come bastione davanti alla barbarie del nemico interno ci cascano addosso come un'onda frangente. In questo contesto il ritornello sul “buonismo” di cui “la sinistra colpevole” ha dato prova nei confronti dell'immigrazione e i musulmani rischia di far entrare molte persone ragionevoli nel campo dell'odio verso l’altro.
La popolazione che vive in Francia si trova incastrata, in questo contesto di crisi economica, tra l'incudine neo-liberale che non dà altra soluzione che quella individuale e il martello reazionario che pone le origini culturali o biologiche delle classi popolari in competizione tra loro. Presi tra l'incudine e il martello dobbiamo fermare il fabbro. In questo periodo scuro dobbiamo ispirarci con ciò che succede altrove nel mondo come in Kurdistan, bloccato tra l'imperialismo occidentale e i reazionari di Daesh. Qui come lì, abbiamo la possibilità di creare le condizioni della nostra liberazione.

Traduzione da http://quartierslibres.wordpress.com/ a cura della redazione d’infoaut

venerdì 2 gennaio 2015

La perfezione dello Stato

Lo Stato è un sistema perfetto nella sua struttura e nei suoi meccanismi, si è perfezionato nel corso dei secoli e i vizi che potevano esserci ai suoi albori oggi sono tutti eliminati. Una macchina atrocemente perfetta che ha un solo scopo: generare se stesso. Per raggiungere questo scopo lo Stato deve anzitutto esistere, ma per esistere serve una struttura gerarchica, senza quest'ultima lo Stato non avrebbe ragione e motivo di esistere. Ma che cos'è la gerarchia? È una scomposizione della società in ceti, classificati e posti in una scala di valori secondo un ordine prestabilito e regolato su base prevalentemente economica: al vertice della piramide c'è l'istituzione sovrana (nel nostro caso il parlamento e i suoi apparati di comando), mentre nell'ultima fascia in basso c'è il popolo. Non è cambiato niente dai tempi degli antichi egizi o dei babilonesi. Il popolo deve generare ricchezza per poter mantenere in vita lo Stato, ma le ricchezze non sono mai equamente distribuite. Questo è logico, se le ricchezze fossero equamente distribuite non ci sarebbe gerarchia, quindi neppure lo Stato. Perciò lo Stato ha tutto l'interesse di mantenere le sperequazioni e le ingiustizie. Come dire: tolte le ingiustizie, addio Stato. Viceversa: tolto lo Stato, benvenuta uguaglianza e vera giustizia.
Cosa vuol dire oltrepassare la linea della perfezione? Vuol dire che lo Stato distrugge i suoi equilibri e eccede nella sua prerogativa principale che è quella di inghiottire ricchezze e cacare leggi. E come fa lo Stato a ingozzarsi a tal punto da superare se stesso? Dalla richiesta di pecunia e di sacrifici fatta al popolo, lo Stato è passato a depauperare persino le milizie, cioè una parte fondamentale di se stesso, quella parte che gli serve per difendersi dagli eventuali attacchi del popolo, dalle rivoluzioni, dalle proteste. È autocannibalismo.
Le proteste della sbirraglia contro il governo sono gli effetti di una bulimia statale che va oltre ogni immaginazione. Quando mai s'è vista una polizia che protesta contro il governo? Questo può succedere (ed è successo) solo quando le persone che indossano una divisa gallonata si accorgono che il popolo ha
ragione, e ad esso si unisce per lottare e per ottenere lo smantellamento del sistema. Quando uno Stato colpisce persino la polizia, negandole ad esempio un salario decente, allora quello Stato deve stare molto attento, quello Stato è gestito da persone malate. Ed ecco il punto. A noi sembra del tutto normale che questo Stato sia giunto a far protestare persino la polizia, i carabinieri, i vigili del fuoco... Ed è normale perché chi detiene oggi il potere possiede un ego talmente sproporzionato da volerlo espandere a dismisura, fino a mordere il proprio braccio armato. Siamo di fronte ad una smania di potere inaudita, egocentrica, spasmodica e molto pericolosa (anche per lo stesso Stato).
Dirò adesso qualcosa che può sembrare sconvolgente: noi anarchici vogliamo bene allo Stato, soprattutto a questo Stato, quello italiano attuale. Non siamo ammattiti, ragioniamo per paradosso, è ovvio, il nostro è un “amore interessato”: più lo Stato è autoritario, più l'anarchia vive, è presente e vibrante (la coscienza anarchica degli italiani sta lievitando e non sapete quanto). Siamo contenti di questo Stato e del suo disastro in atto, perché questi ultimi governi sta portando allo scoperto tutta la schifezza, fa toccare con mano le ignobili prerogative dello Stato, della gerarchia che compie violenza sulle fasce più deboli. È uno Stato che si autodenuncia come mai è accaduto prima, questo è meraviglioso! Siamo passati da un governo ad un altro, da Berlusconi a Renzi (attraverso Monti), è cambiato il colore ma la sostanza è la stessa. Con altre persone al comando, le atrocità berlusconiane sono continuate, anche se abilmente nascoste, indorandole con le solite menzogne (democrazia, libertà, costituzione, diritti...). Osserviamo bene allora tutto, guardiamo bene in faccia la democrazia, questa bella parola che non ha mai avuto senso se non quello di mistificare retoricamente le fauci fameliche dello Stato. Osserviamo la costituzione, questa collezione di articoli scritti dallo stesso ordine costituito e che qualsiasi persona al potere può aggirare, questa carta che permette ai folli e ai fascisti di governare e che è zeppa di limiti, di subordinazioni ad altre leggi, di rimandi alle più varie restrizioni, codici e codicilli. Osserviamo bene la legge, guardiamola davvero, mai come adesso appare chiaro che la legge non è mai stata uguale per tutti. Provate a fare causa a Renzi, se vi riesce, ma anche solo al vostro sindaco. Non possiamo cadere ancora in questi tranelli, li vediamo tutti molto bene grazie ai nostri governanti e alla loro arroganza, alla loro inesperienza e alla loro smania di potere, talmente esagerata che non si cura neppure di tenere nascosti i canini dello Stato, come hanno fatto sempre i loro predecessori.
Perciò avanti così, avanti tutta verso lo sfacelo totale, che lo Stato divori tutto: polizia, burocrati, tecnocrati, economi, giudici, costituzioni, clero, banche... E a quel punto, quando avremo più di un motivo vitale per ribellarci, quando non ci interesserà davvero più la tv, né il telefonino nuovo, saremo allora pronti per la nostra rivoluzione (l'importante è non ricostituire lo Stato, poi, l'errore di sempre).