..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 30 luglio 2014

Paura e libertà

L’effetto più crudele e più efficace che la società delle merci ha prodotto sugli individui, e che più di ogni altro ne condiziona le scelte, si identifica in un disagio psichico invalidante e costante, che ne compromette ogni forma di razionalità, di felicità, di passione e di sentimento di solidarietà. L’origine di questo stato mentale, si colloca in quella dimensione di grande paura architettata ad arte dal Sistema Potere, in virtù della quale è in grado di influenzare e suggestionare i comportamenti individuali, omologandoli ai suoi interessi particolari e più nefandi. Questa eccezionale forma di omologazione, dettata dalla paura, costringe gli individui ad adeguarsi ad una sottocultura dominante, inattiva e monolitica, impedendo ogni impulso liberatorio e rivoluzionario. La paura di essere additato come “diverso” fa precipitare in uno stato di angoscia persistente che solo un rientro nell’omologazione, può attenuare. Questo è lo spaccato delle nostre moderne società liberiste, che per tale motivo, non sono in grado di aspirazioni, personalizzazioni e di rivoluzioni. L’uso politico della paura, brandita come arma, attraverso l’opera di mistificazione della verità e di contraffazione della realtà, si prefigge lo scopo di allertare e dissuadere la gente da scelte personali, incompatibili con le strategie populiste e perverse del potere. La paura indotta dall’incertezza economica, dalla precarietà del lavoro, dall’assenza di futuro, dal trauma della separazione, e ancora, la paura del diverso, sono le forme patologiche della paura, indotte da una condizione sociale e ambientale già oltre i ragionevoli limiti della comprensione. Tutte quante insieme, sono l’estensione di quel primario disagio esistenziale che si identifica nella paura della morte.
Un tale stato di cose, non è che risultato dell’assenza di spiritualità, congiunta alla perdita di autonomia, di autosufficienza e indipendenza culturale e, più in generale, di quella autentica libertà che trasforma in civile una società devastata dalla barbarie.
Abbiamo mercificato le nostre originarie responsabilità individuali, rinunciando agli indispensabili parametri di riferimento, in cambio di subdole dipendenze, effimera vanità e quotidiana trasgressione. Ci hanno spacciato licenza per libertà, e omologazione per benessere, e tutto questo si è tradotto in paura, incertezza e frustrazione. La paura, coincide con la perdita della speranza e con l’impossibilità di intravedere un futuro. Questo perché, l’uomo tecnologico si è trasformato in un idolatra, in perpetua adorazione di un mondo che ha mitizzato vergogne, menzogne e infamia, a fronte di paura e schiavitù.
Solo se saremmo in grado  di  riaffermare la nostra autonomia, se saremo capaci di non delegare ad alcuno le nostre aspettative di felicità, le nostre speranze, se torneremo a gestire noi stessi le nostre capacità, se saremo fino in fondo meravigliosamnete disubbidienti, se scacceremo gli stregoni del mercato, gli stregoni del lavoro, gli stregoni della conoscenza e della medicina, potremo liberarci dalla paura e tornare a ricostruire comunità di uomini liberi.

martedì 29 luglio 2014

Mujeres Libres (Donne Libere)


Nel 1936 un gruppo di donne di Madrid e di Barcellona fondarono Mujeres Libres, organizzazione dedicata a liberare le donne dalla «schiavitù dell’ignoranza, schiavitù in quanto donne e schiavitù come lavoratrici». Anche se durò meno di tre anni (le loro attività vennero bruscamente interrotte dalla vittoria delle forze franchiste nel febbraio del 1939), Mujeres Libres mobilitò più di 20.000 donne e sviluppò un vasto programma di attività, finalizzate a sviluppare la capacità di azione individuale ed allo stesso tempo a costruire un senso di appartenenza comunitaria. Mujeres Libres riteneva che il pieno sviluppo dell’individualità delle donne dipendesse dalla crescita di un forte sentimento di unione con gli altri.
Azucena Fernández era nata a Cuba nel 1916, figlia di genitori spagnoli esiliati che rientrando in Spagna dall’esilio nel 1920 la portarono con loro. Azucena ed i suoi sei fratelli e sorelle si erano «nutriti di anarchia…, con il latte di nostra madre». Enriqueta Fernández nata a Cuba, nel 1915. Nella loro casa era usuale vedere militanti anarchici entrare ed uscire quotidianamente e «l’ideale» era una componente normale della conversazione.
Enriqueta, Azucena ed i loro fratelli e sorelle impararono in fretta che essere parte di una comunità significava essere disposte a prendersi cura degli altri e a dedicare anima e corpo ad una causa comune. La partecipazione dei bambini ai gruppi ed alle attività organizzate dal movimento libertario approfondì l’impegno e lo convertì in un punto importante delle loro vite. La comunità dava loro la forza per affrontare sia le derisioni dei loro vicini che lo scetticismo dei loro stessi genitori sull’opportunità di far andare le ragazze in giro con i ragazzi.
A quei tempi eravamo le puttane, le pazze, perché guardavamo avanti. Ricordo la morte di mio padre, che per me fu molto dolorosa…. Mia madre mi disse: «Piccola, papà non voleva fiori, ma sono io che voglio per lui un mazzo di rose. Portane anche solo una dozzina, per tuo padre.» Andai dalla fioraia e questa mi disse: «Tuo padre è morto e tu vieni qua?» «Che cosa c’entra il mio dolore con il fatto che sono venuta qui? – le dissi – Credi che non provo del dolore per la morte di mio padre?» «Ma non dovresti esserci tu qui, piccola. Avrebbe dovuto venire Juan a cercare i fiori. E poi non porti il lutto.» «No – le risposi – il dolore lo porto dentro, non lo indosso».
Pepita Carpena,  era nata a Barcellona verso la fine del 1919. Venne per la prima volta a contatto con «l’idea» nel 1933 grazie ad alcuni sindacalisti anarchici che assistevano alle riunioni dei giovani nella speranza di mettersi in contatto con possibili nuovi membri.
I compagni della CNT, per fare propaganda, dato che la gente non andava ai sindacati perché era un’epoca di clandestinità, andavano ai balli e dicevano agli uomini, mai alle ragazze: «Dove lavorate? Sapete che c’è un sindacato?» Questi compagni, membri della CNT, dicevano anche: «Il tal giorno c’è un’assemblea». E siccome mi sono sempre trovata meglio con gli uomini che con le donne, andai con loro. E fu lì dove iniziai a capire che cosa era la CNT.
 L’organizzazione anarchica Mujeres Libres e le comuniste dissidenti riconoscevano la specificità dell’oppressione femminile e la necessità di una lotta autonoma per superarla. Le organizzazioni femminili tracciarono il cammino verso l’emancipazione delle donne, attraverso l’educazione, la partecipazione politica, il diritto al lavoro, e il riconoscimento del loro valore sociale. Una delle priorità delle organizzazioni femminili fu quello di risolvere il dilemma della prostituzione e dei rapporti personali, e di conseguenza elaborarono una riforma sessuale che prevedeva l’aborto, il divorzio, e l’assistenza medica sanitaria gratuita. Nella rivoluzione spagnola venne affrontato un nodo centrale della modernità: l’emancipazione o/e la liberazione delle donne è un mezzo per raggiungere l’emancipazione generale dell’essere umano.


lunedì 28 luglio 2014

In quanto anarchica …

Premetto che in quanto anarchica non riconosco come mio interlocutore l’apparato giudiziario, organo dello stato la cui unica funzione consiste nell’essenziale protezione delle classi sociali privilegiate e nella difesa della proprietà privata. Quindi, con la seguente dichiarazione, principalmente indirizzata all’esterno di questo edificio, colgo l’occasione per rivolgermi a tutti coloro che possiedono i requisiti per poter comprendere le mie parole. Desidero rivolgermi alle classi subalterne, a coloro che subiscono la condizione alienante di sfruttati e oppressi dall’avanzato e moderno sistema capitalista, sempre più spietato ed escludente. Premetto altresì che nulla ho da chiarire circa la mia condotta, le mie convinzioni e le mie scelte politiche, tanto meno intendo chiedere clemenza ai signori della corte. La natura squisitamente politica di questo procedimento penale impone una netta presa di posizione, alla luce soprattutto degli innumerevoli tentativi da parte della magistratura e della stampa di screditare e spoliticizzare davanti all’opinione pubblica gli imputati di questo processo. Soggetti che loro malgrado sono incappati negli ingranaggi della giustizia borghese e fatti figurare in certi casi come un branco di violenti teppisti, in altri come un’orda di barbari scesi nelle strade di Genova con il preciso intento di devastarla e saccheggiarla. No signori, intanto l’accusa di devastazione e saccheggio la rinvio direttamente al mittente poiché offensiva e poiché non fa parte del mio bagaglio storico politico. La classe sociale a cui appartengo è colma fino all’orlo di ingiustizie, soprusi e umiliazioni inflitte dai padroni. Ed è proprio nel santuario della democratica inquisizione dove viene sistematicamente perpetuata l’ingiustizia sociale, in cui tengo a precisare e ribadire la mia ferma opposizione ad ogni forma di dominio, all’ineguaglianza sociale, allo sfruttamento. E seppur cosciente che come nemica della vostra classe mi si infliggerà una pena severa poiché portatrice di principi malsani assolutamente in contrasto con l’ordine costituito, vi comunico che personalmente come lavoratrice salariata ho avuto modo di conoscere i veri devastatori e saccheggiatori. Risiedono nei palazzi di lusso o del potere, sono i padroni, i capi di stato, insomma tutta la classe dirigente di questo sistema infame. Un’esigua percentuale di individui su questa terra che in nome del profitto, del prestigio e del potere assoluto depredano e saccheggiano l’intero pianeta. Costringono alla fame ed alla povertà milioni di persone, sia nel sud del mondo che nell’Occidente, sfruttano gli operai sul posto di lavoro fino a renderli schiavi, di conseguenza sono i diretti responsabili delle morti bianche, un vero e proprio stillicidio. Seppelliscono nelle patrie galere tutti coloro i quali sono costretti a vivere ai margini di questa società opulenta. Combattono guerre siano esse umanitarie o di conquista poco importa, sterminando intere popolazioni, devastando interi paesi e saccheggiando le loro risorse. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Contro tutto ciò è necessario lottare, è necessario porre una strenua opposizione alla dittatura capitalista. Per quanto mi riguarda è stato questo il senso delle mobilitazioni di lotta antimperialista e anticapitalista a Genova nel 2001, non tanto perché lo ritenei un evento politico unico nella vita degli sfruttati determinato dalla presenza dei padroni della terra, dai quali elemosinare qualche briciola caduta dai loro sontuosi banchetti; lo feci in continuità con un percorso politico già intrapreso, animato dalla forte esigenza di trasformare radicalmente un modello sociale fondato sulla sopraffazione. Lo stesso motivo che mi spinge tuttora a partecipare a momenti di lotta costruiti dal basso, situazioni meno spettacolari e che meno interessano alle telecamere del potere mediatico, ma sicuramente autentici. A Genova nel 2001 con molta determinazione è stato riaffermato un principio fondamentale, attraverso la riappropriazione di uno spazio urbano negato e reso inaccessibile dall’imponente presenza militare per impedire ogni forma di disapprovazione ai rappresentanti del dominio. Nessuna sentenza potra’ riscrivere la storia di quei giorni. Carlo continuera’ a vivere tutti i giorni nelle nostre lotte.

Marina Cugnaschi

domenica 27 luglio 2014

Guai a chi smette guai a chi continua

Partiamo dalla nostra vita: guardiamo al passato, facciamo un bilancio. È una storia, la nostra, che si è scritta per anni dentro le case collettive, i circoli, i luoghi di collettivizzazione che sempre si definivano come strutture di consumo di una ricchezza che veniva prodotta altrove. Abbiamo rimosso la durezza e la smisuratezza della necessità di produrre i beni necessari a riprodurre la vita. È stata la peste dell’irrazionalismo e dell’immediatismo. L’esproprio, forma di appropriazione di ricchezza si rivela poi miseria incapace di risolvere la contraddittorietà della merce: quella di essere vita cristallizzata, dunque cosa maledetta. Oggi la massa di tempo-di-vita lavorativo è là, un inconscio che appesta la nostra esistenza, che maledice i giorni e le notti delle nostre case, che riduce la collettivizzazione a marginalità subita.
I migliori di noi sono quelli che questa massa di rimosso ha sommerso nella follia o nel carcere o nel suicidio o nell’eroina.
Guai a chi continua. Guai a chi smette.
Dobbiamo saperci liberare dall’irrazionalismo che abbiamo prodotto, dare forma produttiva al rifiuto del lavoro, scoprire il rigore e l’esattezza nei modi di riproduzione, nei rapporti interpersonali. Le case collettive sono state luoghi di appropriazione e di consuno di una ricchezza che continua ad essere merce. L’illegalità di massa, la devianza sono state possibilità di sopravvivenza ma hanno bruciato autonomia, creando una figura del movimento come puro consumo, dunque una figura sempre dipendente da un altro spazio, esterno al movimento, dallo spazio della ripetizione del modo di produzione capitalistico. È stato irresponsabile far del trionfalismo su tutto questo.
Occorre oggi costruire una socialità che si misuri sul problema fondamentale: la possibilità della produzione senza lavoro. La possibilità, dunque, della liberazione della vita. Porre questo problema come proposta di una forma di esistenza cioè di organizzazione per tutta una fase forse vuol dire che il movimento deve assumere forma di un luogo di sperimentazione; la scrittura collettiva forma di simulazione di ordigni linguistici capaci di funzionare come prefigurazione e paradigma di altri sistemi semiotici produttivi di valori d’uso in cui lavoro umano sia soppresso.
Porre questo problema come proposta non vuol certo dire preparare ricette per la trattoria dell’avvenire, parlare di transizione, pensare che la liberazione debba attendere la trasformazione di tutta la società (quando al contrario solo la pratica di liberazione può innescare un processo intensivo di trasformazione).
Ma anzi, occorre liquidare l’idea della transizione, quest’ultimo baluardo della tradizione ideologica socialista, anche sul terreno della produzione. Chi ha detto che il capitalismo debba finire perché il comunismo possa vivere? Questo oggi lo diciamo avendo d’occhio anche il problema della produzione del necessario, all’interno di forme di socialità che escano dalla dominanza del modo di produzione fondato sul lavoro e sul sacrificio.

(A/traverso maggio 1978 nuova serie numero due. Bologna)

venerdì 25 luglio 2014

Dall’organizzazione della spontaneità alla spontaneità dell’organizzazione

“Quando mia moglie è triste rimango a casa” ha detto un operaio della Mirafiori a chi lo intervistava. Non ha detto quando i sindacati, le mie guide, i miei maestri decidono la mia vita, io rimango a casa.
Ed è da qui che noi vogliamo partire, poiché sappiamo che noi come proletari vogliamo vivere, vogliamo sbarazzarci del vecchio mondo e non distruggere per ritrovarci a vivere in un mondo ipotizzato dietro le scrivanie dei burocrati. Noi non abbiamo paura delle rovine, perché erediteremo il mondo. Questo non vuol dire che domani alzandoci distruggeremo o bruceremo il mondo borghese, anche se prima o poi lo faremo, per ora vuol dire che fra noi e la nostra vita non accetteremo quegli intermediari burocrati che a colpi di olivetti e riunioni vogliono insegnarci la rivoluzione.
Vuol dire che da queste pagine non diremo più che per cambiare la vita, il proletario deve vivere in lager colorati di rosso, o che per essere alternativi bisogna andare in giro con le preghiere di Mao in una tasca e l’acido della Sandoz nell’altra. Queste coglionerie le ha già rifiutate la storia: quando in Ungheria per essere comunisti bisognava essere stalinisti, in Polonia gomulkisti, il proletariato non ha fatto politica; ha distrutto la sede del partito e le fabbriche-carcere, ha preso in mano la propria esistenza e come tale l’ha gettata nelle piazze e nelle barricate.
Quello che vogliamo adesso non l’ho vogliamo solo noi; la nostra azione, le nostre idee, la voglia di distruggere il mondo di merda che ci sta attorno è sempre esistita, è un sogno nella mente di tutti i proletari, tentare di ammaestrarla è da carogne, trasformare l’altrui miseria in salvacondotto per l’impegno politico è la caratteristica degli sciacalli che vogliono farne la didattica della loro frustrazione.
Basta istituzionalizzare la rabbia, basta con l’identificare la gente del movimento con le cazzate dei suoi gestori individuali piccolo borghesi che confondono, come i bottegai dello spirito, la storia del proletariato con le idee dei loro ideologhi, la storia di chi ha sfruttato ha lavorato per 40 anni in fabbrica, non è la storia della diatriba fra maoisti e leninisti, fra vecchi e nuovi sciovinisti, la realizzazione del nostro futuro sta in noi stessi e non nelle parole dei burocrati della miseria.
Il nostro obiettivo non è quello di creare una società della festa ma quello di fare la festa alla società perché la rivoluzione proletaria o sarà una festa o non sarà nulla.
Vivere senza tempi morti gioire senza ostacoli.

Il collettivo di Re Nudo

(Re Nudo – dall’underground all’outground – n°18 marzo 73, n°1 nuova serie)

giovedì 24 luglio 2014

1966 – 1967 cambia la musica

A metà anni sessanta, in un’Italia ancora molto provinciale e tradizionalista, appena uscita da un dopoguerra disastroso e dalla “ricostruzione”, ove sussistono ampie sacche arretrate in cui attingere manodopera per le grandi industrie del Nord concentrate nel triangolo economico (Milano – Torino – Genova); in un’Italia che vede accelerare l’abbandono delle campagne e la concentrazione urbana in un vorticoso incremento produttivo e consumistico; in un’Italia che, nonostante il cosidetto “boom economico” rimane provinciale e tradizionalista, si fa strada un nuovo soggetto sociale: i giovani. Figli di operai cottimisti, che abitano i quartieri popolari appositamente costruiti ai margini delle città, che, a differenza di molti loro padri, hanno potuto studiare. Ma anche figli della borghesia, piccola, media e alta.
 Un soggetto sociale che desta non poche preoccupazioni in quanto prende di mira qualsiasi atteggiamento autoritario, fondante l’assetto e l’ordinamento sociale esistente. Molti di loro sanno ciò che sta accadendo altrove, fuori dai ristretti confini della penisola. La Beat Generation e gli Yippie statunitensi, il Pop inglese, il movimento Provos in Olanda non sono lontane chimere e i loro echi giungono forti a una generazione che vuole essere libera di pensare fuori da convenzioni, da tradizioni e da qualsiasi schema precostituito; che vuole vestirsi come gli pare e portare i capelli lunghi; che odia la guerra e vuole un mondo senza armi, senza divise, senza confini; che sogna un mondo nuovo dove imperino solo la pace e la fratellanza universale; che rivendica la libera unione senza matrimonio, la libertà sessuale e la pillola anticoncezionale; che pratica fin da subito la contestazione antiautoritaria, contestando, innanzitutto, l’autorità paterna, quindi l’autoritarismo nella scuola, della gerarchia ecclesiastica, dell’istituzione militare e l’autorità statale in genere.
Pacifista e non violento, il nuovo soggetto sociale, il giovane, come un torrente in piena, lacera le certezze del corpo sociale, le sue convinzioni, le sue istituzioni, quella familiare soprattutto. Ciò provoca rotture insanabili sul piano generazionale, sociale e politico.
I temi, le idee, le aspirazioni e le forme di lotta rivendicate e propugnate sono riconducibili, fondamentalmente, al pensiero sociale libertario, a quel corso di idee e movimenti, come direbbe Woodcock, che è l’Anarchia.

mercoledì 23 luglio 2014

Due parole sugli Anni 70

Gli Anni Settanta in Italia, pur essendo così vicini a noi, rappresentano un nodo storico molto difficile da sciogliere. L’emergenza li definì come anni di piombo, come anni di degradazione dei rapporti sociali, come anni delle culture impazzite e perverse. Poiché l’emergenza portò alla distruzione di ogni traccia di quelle culture, è molto difficile oggi far rientrare gli Anni Settanta nella memoria collettiva per quello che essi furono.
A questo stato di fatto va aggiunto il processo di distruzione della memoria e di rifiuto del proprio passato messo in atto da molti protagonisti di quegli anni, i quali o con forme abbiette di pentimento – considerate virtù altamente civili – o con sapiente opportunismo o con il silenzio del pessimismo hanno contribuito in maniera determinante a deformare il passato.
L’emergenza in Italia ha cancellato movimenti di massa e culture che si sono posti il duplice problema “come affrontare la contraddizione capitale / lavoro oggi, come affrontare la crisi delle forme politiche di rappresentanza oggi”. Su questi laboratori culturali l’emergenza spande il suo napalm. Essa segna un cambiamento di regime, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica; è un passaggio mediante il quale l’Italia si allinea ai paesi occidentali, che compiono allora il massimo sforzo per imporre la flessibilizzazione della forza-lavoro.
Con l’emergenza l’Italia entra nell’era reaganiana. La lotta al terrorismo è stato un pretesto per cancellare alcuni dei lati migliori delle culture degli Anni Settanta. La classe operaia di fabbrica viene disgregata e passata al filtro della cassa integrazione. Il soggetto sociale che doveva e poteva esercitare un monitoraggio costante delle produzioni nocive, le organizzazioni di democrazia diretta e sindacali di base che dovevano costituire una rete di protezione minima dalle produzioni rischiose e inquinanti vengono trattati come “ terreno di cultura del terrorismo” ed estirpati.

(Ambiente e Ideologia in CLASSE N°2-3 1988)

martedì 22 luglio 2014

La società anarchica

La visione della società anarchica che si può descrivere nelle sue molteplici determinazioni si fonda sulla centralità della libertà e dell’uguaglianza intese come dimensioni inscindibili. La libertà e l’uguaglianza sono concepite come leve reali della trasformazione sociale perché sono poste all’inizio di tale processo. Esse si costituiscono a qualsiasi livello storico dato, in quanto non sono viste come esiti derivati da uno sviluppo di altra natura. Come le forme le forme del potere esprimono il grado di una società gerarchica, così le forme della libertà e dell’eguaglianza esprimono il livello storico di una società liberatasi dal principio di gerarchia. Ponendo la libertà e l’uguaglianza come cause anziché come effetti, l’anarchia svolge interamente la sua dimensione utopica perché non tiene conto del condizionamento della storia verso la quale, anzi, si pone con un senso di rottura radicale e irreversibile. La libertà e l’uguaglianza, quali principi informatori causali, non sono il risultato di un determinato sviluppo socioeconomico, proprio perché esse non sono risolvibili una volte per tutte. Sono, invece, perenne svolgimento indeterminato dell’agire umano, spinta continua al cambiamento e all’esperimento.
La società anarchica intesa come un vero e proprio progetto pensato secondo schemi razionali, ossia come pura costruzione teorica sostanzialmente priva di referenti concreti attuali, e perciò avulsa dal reale processo storico in atto, delinea un assetto libertario ed egualitario nel quale sono aboliti ogni forma di Stato e di governo. In esso vige la libertà come principio generale di associazione, l’eguaglianza fra tutti i membri della società, la parità e la libertà sessuale, la pratica del mutuo appoggio e in genere del solidarismo, l’economia quasi sempre socializzata secondo moduli comunistici o socialistici, lo sfruttamento razionale delle risorse, la ripartizione egualitaria fra tutti gli individui dei lavori più gravosi, l’integrazione del lavoro manuale con il lavoro intellettuale, il superamento della divisione fra città e campagna.
Ciò che accomuna queste delineazioni è il tentativo di una descrizione in termini di reale funzionamento della società anarchica, nel senso che anticipano sul tempo una visualizzazione della sua esperibilità, secondo un voler essere rispetto all’effettiva datità presente.

domenica 20 luglio 2014

Il potere operaio

 A che cosa serve questo giornale? Possiamo rispondere, per ora, solo in parte. Sarà il giornale stesso, e il lavoro politico dal quale nasce, a riproporre più concretamente la domanda, e a permettere una più concreta e ricca risposta.
Noi vogliamo contribuire a formare e rafforzare negli operai la coscienza dello sfruttamento capitalistico, attraverso la discussione e lo studio, attraverso lo stimolo e l’intervento attivo nelle lotte in fabbrica, attraverso l’organizzazione degli operai contro il potere capitalistico, in fabbrica e fuori dalla fabbrica.
La nostra iniziativa nasce con precisi limiti locali. Essa si collega all’intervento politico svolto da qualche tempo nelle fabbriche di Massa, e che ora si svolge a Pisa, a Piombino, a Livorno, e potrà forse più in la estendersi ad altre città. Essa ha in oltre un importante riferimento in altre iniziative analoghe, anche se ancora slegate, che vengono portate avanti in altre situazioni, e di cui il giornale darà notizia e discuterà volta per volta.
Alcuni compagni che partecipano al nostro lavoro sono iscritti: al PCI o al PSIUP, altri lo sono stati e non lo sono più, altri ancora non lo sono mai stati. Tutti sono convinti che il movimento operaio ufficiale nel suo complesso segua una linea teorica e pratica che lo rende sempre più estraneo alla lotta per una società libera dal potere dello sfruttamento. La mancanza di un pensiero e di una attività rivoluzionaria è tanto più duramente grave in fabbrica.
Il giornale esce in una situazione generale pesante, e che si è aggravata ulteriormente in modo sensibile per la negativa conclusione delle pur così forti lotte contrattuali che hanno animato il periodo appena trascorso. Questa situazione rischia di interrompere, almeno per il periodo della durata dei contratti, la lotta operaia.
Tanto più necessario è, in questa situazione, assicurare una presenza apolitica in fabbrica, nella discussione come nella lotta, impegnando direttamente tutti gli operai.
In questa azione noi partiamo dalla condizione operaia attuale, e dai punti decisivi immediatamente, dal problema del taglio dei tempi e della lotta al cottimo, al rifiuto della collaborazione in fabbrica, alla eguaglianza salariale, al rifiuto delle divisioni categoriali, al problema della organizzazione diretta degli operai in ogni fabbrica.
Su questo terreno bisogna giungere ad affrontare tutti i problemi che oggi si pongono ad una rigorosa lotta di classe anticapitalistica.

(Il potere operaio N.1 - 20 febbraio 1966 rivista politica del gruppo
Il potere operaio pisano, nato nell'ambiente universitario pisano in particolare nella Normale)

venerdì 11 luglio 2014

L’Anarchia

Anarchia significa assenza di autorità. Se s’intende per governo la forma più esplicita dell’autorità, ne consegue che l’anarchia è la negazione di questa idea, cioè di ogni dominio dell’uomo sull’uomo. Essa designa un regime sociale dove non esistono, in via di principio, forme coercitive a carattere istituzionale: la vita individuale e collettiva è concepita senza un potere costituito. Si intende ordine sociale e non politico perché una società concepita senza un potere non può esprimere alcun ordine politico: la società anarchica è una società non politica, naturalmente se per politica s’intende l’esplicazione dell’autorità. In altri termini, la società anarchica è una società etica per eccellenza. Essa sostituisce il complesso giuridico della costrizione potestativa, per cui il rapporto decisivo fra i membri di questa società non è fra legge e libertà, ma fra libertà e morale. Dunque l’anarchia è la negazione del governo perché è la negazione dell’autorità ed è la negazione dell’autorità perché è la negazione della politica.
Da questa definizione balza subito agli occhi un fatto irrisolvibile: in qualunque maniera si definisca l’anarchia, si dovrà sempre incominciare col definirla in modo negativo, poiché il principio su cui si fonda parte in tutti i casi da una negazione, precisamente dalla negazione del principio di autorità. Fondandosi per principio su una negazione, il concetto di anarchia non può mai uscire dall’indeterminato. Di conseguenza, è solo su questa negazione che la società anarchica riscuote un consenso unanime: chiunque si riconosce nell’anarchia si riconosce innanzitutto nella negazione del principio di autorità, si riconosce cioè nel rifiuto di questa premessa quale principio informatore della società umana.
Del resto non potrebbe essere altrimenti, qualora si consideri che l’anarchia è retta ontologicamente da una negazione. È sulla comune negazione della autorità e delle leggi, sull’assenza di questi presupposti coercitivi, che nasce il patto fra gli uomini della società libera. Essi si riconoscono universalmente nella negazione del principio di autorità, mai nella positività della libertà, essendo questa, proprio per definizione anarchica, infinita.
Si può dunque dire che l’anarchia si evidenzi concettualmente in una radicale coerenza. In quanto negazione indeterminata del principio di autorità, essa non può mai essere monopolio di nessuno. Non descrivendo concretamente un ordine sociale specifico, impedisce a chiunque di affermare ciò che questa anarchia deve essere, ciò che si deve intendere di questo ordine stesso. 
 

martedì 8 luglio 2014

Illegalisti ed espropriatori

L'espropriazione era il cosiddetto recupero, la ripresa individuale (o sociale, a seconda delle definizioni e dei punti di vista) professata dai fautori dell’illegalità in seno al movimento anarchico. Secondo alcuni, il furto giustiziere – che non era altro che la ripresa di quanto la borghesia aveva legalmente rapinato al popolo – minava il potere della borghesia sfidando le sue istituzioni, la indeboliva economicamente e contribuiva al sostentamento sia del recuperatore individuale sia delle organizzazioni anarchiche, sempre assillate da problemi finanziari. Inoltre, se preso in tribunale l’illegalista aveva la possibilità di poter  fare propaganda (non rischiando la morte come spesso gli attentatori alla dinamite), trasformandosi da accusato ad accusatore. La questione dell’illegalità si pose in quel periodo a molti anarchici, che avevano capito la generale sterilità degli attentati individuali.
Dal 1881 (congresso anarchico di Londra) al 1894 (attentato di Caserio contro Sadi-Carnot) il movimento anarchico era stato preso nella spirale della Propaganda coi fatti. Dopo tale data il movimento si divise in diverse posizioni, tutte però contrarie a tale tipo di azione. Una tendenza erano appunto gli illegalisti (che già nel 1879 a Parigi, con Faure e Reclus vedevano la validità ai fini rivoluzionari dell’attentato alla proprietà borghese, mentre Jean Grave vi si opponeva rifiutandosi di perpetuare il furto e la truffa che costituiscono l’essenza della società borghese). Gli espropriatori e illegalisti, erano giunti alla conclusione che ben più efficace della dinamite sarebbe stato contro la borghesia il colpirla nel suo punto debole, cioè nei suoi interessi economici, derubandola di quanto più denaro era possibile. Altra corrente era quella anarco-sindacalista, la quale propugnava un movimento anarchico di massa con l’entrata dei libertari nei sindacati, che ritenevano strumento in grado di far raggiungere gli scopi rivoluzionari (come avrebbero sostenuto Pouget e Monatte nel 1907 al congresso di Amsterdam); c’era infine la linea pura sostenuta da Errico Malatesta anche ad Amsterdam, che voleva un movimento anarchico coerente alle sue origini e tradizioni politiche.