..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 19 giugno 2014

Chi ha paura della Comune?

La Comune è stata la più grande festa del 19° secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia, non tanto al livello della decisione politica “governativa”, quanto invece a livello della vita quotidiana, in quella primavera del 1871 (per esempio il gioco di tutti con le armi; il che significa giocare con il potere). È anche in tal senso che bisogna capire Marx : ”la più grande misura sociale della Comune è stata la sua esistenza in atto”.
La Comune non ha avuto capi. E questo in un periodo storico nel quale l’idea che fosse necessario averne dominava completamente il movimento operaio. Così si spiegano, prima di tutto, le sue sconfitte e i suoi successi paradossali. Le guide ufficiali della Comune erano degli incompetenti (se si prende, come riferimento, il livello di Marx, o anche Lenin e persino Blanqui). Ma in compenso, gli atti “irresponsabili” di quel momento sono precisamente da rivendicare per il seguito del movimento rivoluzionario del nostro tempo (anche se le circostanze li hanno limitati quasi tutti allo stadio distruttivo. L’esempio più conosciuto è l’insorto che dice al borghese sospetto, che afferma di non essersi mai occupato di politica: “è proprio per questo che ti uccido”.
La Comune rappresenta, fino ad ora, la sola realizzazione di un urbanesimo rivoluzionario, poiché essa ha attaccato, nella pratica, i segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita, riconoscendo lo spazio sociale in termini politici, rifiutandosi di credere che un monumento possa essere innocente. Coloro che riconducono questo aspetto ad un nichilismo da sottoproletari, alla irresponsabilità delle incendiarie, devono, in contropartita, confessare tutto ciò che essi considerano positivo, da conservare, nella società dominante (si vedrà che è praticamente tutto).
La Comune mostra come i difensori del vecchio mondo beneficino sempre, per un aspetto o per l’altro, della capacità dei rivoluzionari; e soprattutto di coloro che pensano la rivoluzione. E precisamente là dove i rivoluzionari pensano come loro. Il vecchio mondo mantiene così delle basi (l’ideologia, il linguaggio, i costumi, i gusti) nello sviluppo dei suoi nemici, e vi si inserisce per riguadagnare il terreno perduto. (Solamente il pensiero in atto, naturale per il proletariato rivoluzionario, gli sfugge una volta per tutte: la Corte dei Conti è bruciata). La vera “quinta colonna” è nello spirito stesso dei rivoluzionari.
L’audacia e l’immaginazione della Comune non si misurano, evidentemente in rapporto alla nostra epoca, ma in rapporto alla banalità di allora nella vita politica, intellettuale, morale. In rapporto alla solidarietà di tutte le banalità alle quali la Comune ha appiccato il fuoco. Così, considerando la solidarietà delle banalità attuali, si può concepire l’ampiezza della creatività che possiamo attenderci da un’esplosione uguale. 

lunedì 16 giugno 2014

Contro il castigo


Il castigo non dissuade dal crimine, lo stimola. Dà inizio a un’asta competitiva in cui il colpevole esercita sugli altri una giustizia che gli altri eserciteranno su di lui. Il criminale non agisce forse come un giudice implacabile? Condanna, punisce, grazia o elimina la sua vittima senza derogare alla legge di una giustizia universale. Il suo delitto lo impiega e sa che ne pagherà la tassa se viene arrestato.
Tale è la logica inevitabile degli scambi, essa si riproduce senza fine. Cionondimeno non è una legge umana, è soltanto la legge di un’economia in cui tutto si paga.
Condannare la violenza, lo stupro, l’attentato e fare appello ad una legalità che uccide, imprigiona, stupra e tormenta, vuol dire che entrare nella disumanità di un mercato chiamato giustizia, vuol dire rassegnarsi, con un segreto sentimento di vendetta, a comportarsi come un giudice ed un criminale.
Per quanto possiamo trovarci costretti a lavorare per sopravvivere e, nella stessa occorrenza, a reagire violentemente per difendersi – perché non è questione di tollerare alcuna minaccia -, non ci farà assentire né alla virtù del lavoro né alla fondatezza del taglione. Una civiltà che ha la pretesa di creare la sua umanità si rinnega se non si adopera con ogni mezzo per spezzare il ciclo del crimine e del castigo, per farla finita con la giustizia.
Seppure possiamo essere trascinati, a certe ore del giorno e della notte, in un gioco le cui regole appartengono all’universalità mercantile, non abbiamo scelto di entrarvi, non ci preoccupiamo di vincere o perdere, non abbiamo altra convenienza che di uscirne. Colui che, raccogliendo secondo il caso i piaceri, evita i sentieri battuti dell’autopunizione e dei suoi esorcismi, se ne frega di giudicare e di essere giudicato.  

sabato 14 giugno 2014

La prigione

Una prigione è una micro-società all’interno della società. Più che come edificio, una prigione funziona come una città. L’elemento più piccolo di questa città è la cella, il più grande la stessa prigione. Se si guarda all’elemento più piccolo, o a un braccio, inteso come un raggruppamento variabile di celle, la prigione è un edificio, se si guarda all’insieme di una struttura carceraria, capace di ospitare dalle 300 alle 3000 persone, l’edificio ha la scala di una città.
Il carcere è però anche un luogo della città, una vera macchina per soffrire dove una fetta sempre più consistente di persone è costretta a vivere.
La prigione preserva il sistema.
Ogni società, ogni edificio necessita di sue leggi e regole. Dove ci sono le leggi, ci saranno infrazioni. Dove ci sono regole, ci saranno eccezioni. Senza queste eccezioni una società non cambierebbe mai. Infrangere la legge e negare le regole sono condizioni necessarie per la sua evoluzione.
D’altra parte, la società protegge se stessa e la continuità della sua esistenza tentando di escludere le eccezioni alle regole del sistema che giudica negative. Più un sistema è conservatore, più velocemente un’eccezione è giudicata come negativa, poiché ogni eccezione determinerà un cambiamento. L’esclusione più rigorosa è la pena di morte, quella meno rigorosa è l’esilio temporaneo. In mezzo l’orrore quotidiano delle galere.
La prigione è soprattutto l’espressione di valori incerti e mutevoli.
Fare una prigione esprime soltanto un valore assoluto, una verità indiscutibile che è in contraddizione con il carattere opinabile del crimine e della sua punizione. D’altro canto esprimere soltanto il lato discutibile è in contraddizione con la necessità di chiarezza. Non soltanto una necessità per chi sta fuori, ma anche per i prigionieri, perché soprattutto per loro, il dentro è dentro, il fuori, fuori.
La prigione è uno strumento usato, più che per confinare un pericolo sociale reale, per ricattare, spaventare e intimidire le voci di dissenso al sistema dominante, o risolvere le croniche e cicliche disfunzioni di mercato come le migrazioni di disperati.
In quanto espressione di queste poco nobili esigenze di sistema, non se ne può che auspicare l’abolizione.

giovedì 12 giugno 2014

Malatesta e gli anarchici



Anarchico è, per definizione, colui che non vuole essere oppresso e non vuole essere oppressore; colui che vuole il massimo benessere, la massima libertà, il massimo sviluppo possibile di tutti gli esseri umani.
Le sue idee, le sue volontà traggono origine dal sentimento di simpatia, di amore, di rispetto verso tutti gli umani: sentimento che deve essere abbastanza forte per indurlo a volere il bene degli altri come il proprio, ed a rinunziare a quei vantaggi personali che domandano, per essere ottenuti, il sacrificio degli altri.
Se non fosse così perché dovrebbe egli essere nemico dell’oppressione e non cercare invece di divenire oppressore?
L’anarchico sa che l’individuo non può vivere fuori della società, anzi non esiste, in quanto individuo umano, se non perché porta in sé i risultati dell’opera d’innumerevoli generazioni passate, e profitta durante tutta la sua vita del concorso dei suoi contemporanei.
Egli sa che l’attività di ciascuno influisce, diretta o indirettamente, sulla vita di tutti, e riconosce perciò la grande legge di solidarietà, che domina nella società come nella natura. E siccome egli vuole la libertà di tutti. Bisogna che voglia che l’azione di questa necessaria solidarietà invece di essere imposta e subita, inconsciamente ed involontariamente, invece di essere lasciata al caso e di essere sfruttata a vantaggio di alcuni ed a danno di altri, diventi cosciente e volontaria e si esplichi quindi ad eguale benefizio di tutti.
O essere oppressi, o essere oppressori, o cooperare volontariamente al maggior bene di tutti. Non vi è altra alternativa possibile; e gli anarchici naturalmente sono, e non possono non essere, per la cooperazione libera e voluta.
È anarchico colui che la massima sua soddisfazione trova nel lottare per il bene di tutti, per la realizzazione di una società in cui egli possa trovarsi, fratello tra i fratelli. Chi invece può adattarsi, contento, a vivere tra schiavi e trarre profitto dal lavoro di schiavi, non è non può essere anarchico. 

mercoledì 11 giugno 2014

Settimana rossa. Ancona: una giornata di lotta nei cent’anni dall’insurrezione



È il 7 giugno del 1914, festa dello Statuto Albertino. Lo Stato italiano celebra se stesso con una parata militare nel centro di Ancona. Anarchici e repubblicani rispondono con un corteo antimilitarista. La polizia attacca uccidendo tre manifestanti. E’ la scintilla di una rivolta che dilagherà nel resto delle Marche, in Romagna e in Toscana, mentre focolai si accendono in tutta la penisola. Viene proclamato lo sciopero generale, che assume carattere insurrezionale. Dopo giorni di barricate e combattimenti, interviene l’esercito. Ma il colpo decisivo lo infligge la CGL, che il 10 giugno revoca lo sciopero, abbandonando gli insorti alla repressione. Nonostante ciò la rivolta cessa solo il 13 giugno.
Cent’anni dopo, mentre il comune di Ancona annegava nel folclore delle celebrazioni istituzionali, nella ricorrenza della rivolta, la cui memoria è ancora forte tra la gente di Ancona, gli anarchici del gruppo Malatesta e l’Unione Sindacale Italiana, danno vita a un’iniziativa di tre giorni.
Cominciata con una serata dedicata alla memoria e terminata la domenica dedicata ai percorsi di autogestione, culmina sabato 7 giugno con una giornata di lotta, perché il miglior modo di ricordare un’insurrezione è nelle azioni che ne perpetuano lo spirito.
Il porto di Ancona da qualche hanno è serrato in una morsa di acciaio e cemento: reti, jersey, posti di blocco per impedire che i profughi e i migranti, che hanno attraversato clandestinamente l’Adriatico nascosti nei tir, riescano a bucare la frontiera.
In mattinata un folto gruppo di anarchici, percorrendo i binari che entrano nel porto riesce a farla in barba al dispositivo di sicurezza ed entrano nella zona rossa. I guardiani privati, beffati, chiamano la polizia. Ma ormai è tardi: per un giorno il dispositivo che chiude il porto è stato violato.
Nel pomeriggio il centro cittadino è attraversato da un corteo, che aveva al centro le lotte che hanno segnato gli ultimi mesi in città. In particolare l’occupazione di “casa di niantri”, con la quale alcune famiglie di sfrattati erano riuscite a prendersi uno spazio in cui vivere.
I legami creati tra solidali e occupanti si sono rimasti saldi, nonostante lo sgombero della casa e le deportazione di alcuni abitanti.

7 giugno 1914: la settimana rossa di Ancona

La Settimana Rossa è stata un moto insurrezionale durato una settimana (7-14 giugno 1914), durante la quale l’Italia parve avviarsi verso la rivoluzione sociale.
Nella penisola si era consolidato un blocco sociale formato da contadini, operai e ceto medio, di estrazione per lo più anarchica, socialista, sindacalista e repubblicana. Questa alleanza ideologica era tenuta assieme da un comune senso antimilitarista, dalla contrarietà all'impresa coloniale in Libia e dalla lotta contro le "Compagnie di Disciplina dell’Esercito" dove molti militanti, riconosciuti come rivoluzionari, venivano inviati a scopo “rieducazionale”.
In particolare due casi colpirono l’opinione pubblica:
  • quello del soldato anarchico Augusto Masetti, rinchiuso in un manicomio perché ferì con uno sparo il colonnello Stroppa mentre questi era intento a fare la morale patriottica ai soldati italiani in partenza verso la guerra colonialista in Libia
  • quello del soldato Antonio Moroni che venne torturato in una di queste Compagnie “rieducazionali” a causa delle sue idee antimilitariste.
Il 7 giugno 1914 si celebrava con una parata per le vie del centro l'anniversario dello Statuto Albertino; come in tutte le città d'Italia, era prevista una manifestazione contraria ai festeggiamenti, alla corona e all'esercito, per richiedere l'abolizione delle compagnie di disciplina, la liberazione di Masetti e Moroni. Lo scopo era quello di impedire la sfilata militare.
Ancona era all'epoca una città che aveva già avuto numerose esperienze di rivolte e sollevamenti popolari: dai moti del pane del 1898 agli scioperi del 1913. In quel periodo inoltre si assisteva alla creazione di un fronte comune di diversi movimenti e sindacati, uniti dall'antimilitarismo. L'opposizione alle politiche di guerra non era una lotta puramente ideologica. La missione in Libia impegnava moltissimi lavoratori, che venivano chiamati alle armi e, dopo aver abbandonato tutto, subivano una formazione militare che significava semplicemente disciplinamento e repressione, in un momento in cui una profonda crisi economica attraversa il paese, costringendo la popolazione ad emigrare.
Le forze di sinistra volevano trasformare quel giorno in "giornata antimilitarista":
Visto il divieto di manifestare, l'appuntamento per l'azione fu fissato a Villa Rossa (sede del partito Repubblicano, di indirizzo mazziniano). Dopo un comizio contro la guerra, e per la liberazione di Moroni e Masetti, comizio in cui parlarono Nenni per i Repubblicani, Palizza per i sindacalisti ed Errico Malatesta per gli anarchici e che infiammarono il pubblico, i manifestanti uscirono da Villa Rossa e subito incontrarono lo spiegamento delle forze dell'ordine, che impedivano l'ingresso alle vie del centro, schierate per difendere la parata militare celebrativa dello Statuto Albertino.
Scoppiarono dei disordini tra lavoratori anconetani (principalmente portuari e ferrovieri appartenenti a sindacati autonomi di indirizzo socialista ed anarchico) e forze dell'ordine, schierate per difendere la parata militare celebrativa dello Statuto Albertino. Al tentativo di forzare il blocco, i carabinieri risposero aprendo il fuoco e uccidendo Nello Budini di 24 anni, Attilio Giambrignani di 22 e Antonio Casaccia di 17.
Malatesta allora incitò gli anconetani alla rivolta (la città fu occupata per 7 giorni) che, partendo dalle Marche e dalla Romagna, si estese in quasi tutta Italia provocando numerosi scontri violenti con le forze dell’ordine.
Gli insorti allora fecero pressione sul "Sindacato dei Ferrovieri" affinché proclamasse lo sciopero generale, che effettivamente fu annunciato il 9 giugno (anche se in alcune regioni iniziò il 10).
Iniziò quindi uno sciopero selvaggio ad oltranza, continuarono gli scontri con le forze dell'ordine. Vennero assaltate le armerie, i lavoratori portuali e ferroviari bloccarono porto e stazione, rallentando l'arrivo di ulteriori militari chiamati come rinforzo, i palazzi pubblici vennero presi dai manifestanti: gli scontri si trasformarono in battaglia.
Ebbe inizio quella che passerà alla storia come la settimana rossa di Ancona.
Nei giorni successivi lo sciopero si espanse a macchia d'olio in tutta Italia, si ebbero violentissimi scontri nella Romagna, a Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e Roma.
Intere zone della penisola sfuggirono al controllo dello stato, i comitati rivoluzionari cercarono di riorganizzare la vita nelle città in loro possesso. L'impronta fortemente antimonarchica e antimilitarista delle rivolte sembrarono mettere il paese sull'orlo della guerra civile. L'intervento dell'esercito arrivò, però, con una forza dirompente: il 10 i militari riuscirono a sbarcare ad Ancona.
Il 10 giugno la segreteria nazionale della "Confederazione Generale del Lavoro" (C.G.L), che pure aveva aderito allo sciopero generale, “ordinò” alle camere del lavoro la cessazione della mobilitazione.
Malatesta però incitò ancora alla prosecuzione dell'insurrezione e ad ignorare gli ordini della C.G.L:
«Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo [...] Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita [...] E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE. Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!»
Alla fine però la C.G.L ebbe la meglio e di fatto fu la fine della rivolta, che però si protrarrà sino al 14 giugno. (La C.G.L sarà protagonista dello stesso “tradimento” dei lavoratori durante le occupazioni delle fabbriche del 1919-20).
Il 14 giugno, dopo ben 16 morti tra i rivoltosi, la situazione tornò definitivamente sotto il controllo dell'esercito. La settimana rossa resterà però un'esperienza rivoluzionaria importante, che fungerà da base per il biennio rosso e storicamente utile per avere uno spaccato di una Italia infuocata dal conflitto sociale, prossima alla prima Guerra Mondiale.
Durante questa settimana molti simboli delle autorità e della Chiesa furono attaccati: incendio al municipio di Alfonsine (Ravenna), distruzione della Chiesa di Villanova di Bagnacavallo, ecc.
«Cosa sono mai le violenze che tanto vi spaventano e che tanto orrore vi destano, di fronte alla somma di violenze che voi, tutto il giorno, tutto l'anno, perpetrate sulla pelle della povera gente, che uccidete o fate uccidere, o che depredate colle vostre leggi?»
(«Il Lamone», settimanale repubblicano, Faenza, 21 giugno 1914)

Scrisse Armando Borghi, a proposito del tradimento della CGL:
«...Ora, decisiva. Soldati e carabinieri non bastano più. La truppa è malsicura e intrasferibile. Ci voleva il soccorso dei socialisti e funzionò per essi la Confederazione Generale del lavoro di infame memoria».
La settimana rossa rafforzò in Malatesta la convinzione della fatale solidarietà e convergenza delle masse, nonostante le variegate posizioni di partito, nell'azione per uno scopo comune. Per lui però lo sciopero generale non era altro che semplicemente un mezzo per iniziare, ma solo per iniziare, la rivoluzione sociale.


Scritti di Malatesta sulla Settimana Rossa


“Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari; il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato.
A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazione e conflitti.
E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani ma cadrà sicuramente e presto. È il momento di mettere in opera tutta la nostra energia, tutta la nostra attività. Qualunque debolezza, qualunque esitazione sarebbe oggi non solo vigliaccheria, ma una sciocchezza. All’opera tutti, con tutte le forze disponibili.
La necessità del momento.
Poichè lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione bisogna provveder alle necessità della rivoluzione. E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze governative) bisogna provvedere all’alimentazione della cittadinanza. Bisogna che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente. Perciò le Camere del lavoro, le organizzazioni operaie ed i comitati di volontari prendano le misure necessarie perchè il servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda regolarmente e sufficientemente.
Noi non intendiamo, ora, abolire la proprietà individuale. ma pretendiamo che i proprietari, i negozianti, i venditori di tutte le specie non abusino della circostanza per strozzare la popolazione e pretendiamo che si provveda per conto del municipio, per conto della collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per comprare il necessario.
Il dazio è abolito, per volontà della popolazione, bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non già a profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al prezzo di prima, meno importo del dazio. Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della Camera del Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di volontari. Ora non è più il caso di preoccuparsi se un barbiere, per esempio, ha servito o no un cliente, o se un trattore ha aperto o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è rivoluzione; e bisogna prov-vedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo Cia-scuno faccia quello che può, non si sciupi la roba, nè il pane, nè le munizioni.
E si badi di non abusare di bevande alcoliche; perchè è tempo di tenere la testa a posto.
Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo collo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico. Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita. Già si annunzia che le Camere del Lavoro di Milano e di Bologna si sono rivoltate agli ordini. La Camera del Lavoro di Ancona è autonoma. L’Unione Sindacale Italiana certamente non mancherà il suo dovere. I ferrovieri hanno quasi completamente arrestato il servizio, e le linee sono state manomesse in modo che non è possi-bile al governo di ripararle nel breve tempo che gli resta di vita. E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE.
Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!”

«Volontà» (17 giugno 1914)

Perchè Autonomia Proletaria


“Nessuno deve tacere di fronte all’organizzazione della menzogna unificata, questo è il momento di iniziare a distruggerla”.
Il sistema di dominio capitalista sull’esistente sociale attualmente, in Italia come spaccato del mondo, ha modificato le forme (conservandone il senso) della sua gestione: ora siamo alla miseria generalizzata, ed i gestori del potere ne spiegano l’ineluttabilità. La società dell’opulenza, la società cosi detta affluente lascia il passo alla carestia sociale, alla miseria vissuta direttamente dai proletari e giustificata ideologicamente (politicamente, economicamente, matematicamente) dai funzionari del regime. IN REALTA’ la guerra è già scoppiata in modo silenzioso ed estremamente funzionale. È la guerra della merce contro l’uomo, contro la volontà umana di riappropriarsi delle qualità per la vita e delle quantità (oggetti) necessarie a garantirla,. La strategia del sacrificio, della rinuncia, della carestia è la risposta organizzata politica del capitale alle tensioni di Autonomia Proletaria, alle capacità dei proletari e dei proletarizzati di scegliere una via d'uscita dalla sopravvivenza, e per la vita, in modo autonomo dai meccanismi di riproduzione allargata del capitale.
LA CARESTIA è la minaccia concreta cui tutti siamo sottoposti, per aver cercato di scoprire cosa c’era dietro la maschera dell’ABBONDANZA: ancora una volta sfruttamento economico ed ideologico. LA MISERIA è la risposta del sistema alla nostra aggressione continua alla pseudo ricchezza sociale, con gli espropri di massa, con le occupazioni delle case, con l’attacco al salario attraverso la negazione pratica dell’obbligo al lavoro (assenteismo, mutua, riappropriazioni individuali e di massa). Il capitale non può gestire la forza-lavoro perciò usa la sua forza (repressione) per comandare tutti al lavoro (dall’operaio produttore-consumatore di merci, al cittadino creatore-fruitore di comportamenti sociali). LA MISERIA impone la morale del sacrificio; LA CARESTIA la logica della produttività. LA (PARA)NOIA organizzata è il senso della partecipazione alla menzogna/verità dell’esistente sociale. Ma il proletariato sta scoprendo la sua strategia di rifiuto di ogni legge. Questa è la verità di ogni ribellione; ed ogni rivolta deve trovare questa sua verità. Organizzare la nostra risposta sul sociale significa, più che mai, contrapporre la nostra verità di ricostruzione/riappropriazione, alla realtà capitalista di annichilimento/spossessamento
La catena da perdere sono le nostre di/s/graziate abitudini; quelle di cui dobbiamo impadronirci, per stravolgerle, sono quelle di produzione, in fabbrica, o di distribuzione, nella iperorganizzazioni dei mercati. L’Autonomia Proletaria è la scelta sovversiva di ciascuno, è la base di OGNI costruzione liberamente sociale. Contro la crisi capitalistica, e dei suoi amministratori storicamente compromessi, stiamo reinventando le nostre leggi: leggi del piacere, leggi del gioco, leggi dell’erotismo, leggi delle comunicazioni inter/individuale, leggi della riconquista antilegale del valore d’uso etc. Queste leggi prodotte dai proletarizzati e valide solo per essi, sono il significato reale dell’autonomia proletaria. E chi cerca di codificarle, di organizzarle in nome di un partito è ancora una volta un balbuziente che, cantando cerca di celare la sua incapacità di esprimersi correttamente, senza frasi mozze, senza mistificazioni. La cosiddetta area dell’autonomia rischia di divenire un’area di parcheggio di ex-extragruppuscolari trombati che cercano il partito della verginità per crearsi la sufficiente verginità onde riproporre, una volta di più, un qualche nuovo partito. Le armi che offrono costoro sono le usuali armi povere offerte dai mercanti di entusiasmi: le armi necessarie, dalla dialettica al fucile, saprà inventarle autonomamente.
IL VOLTO OSCENO E GHIGNANTE DEL PROLETARIATO DISTRUGGE CON IL SUO APPARIRE LA SERIOSA IMMAGINE DI UN MONDO FONDATO SULL' AUSTERITA’ E SULLA PENURIA
Collettivo Informale di Autonomia Proletaria

(Volantino, ciclostilato in proprio via Milano n°16 Torino, 1977)

martedì 10 giugno 2014

È come se votassero delle scimmie...



I sistemi democratici avanzati si stabilizzano sulla formula dell'alternanza bipartitica. Il monopolio di fatto rimane quello di una classe politica omogenea, dalla sinistra alla destra, ma non deve esercitarsi come tale: il regime del partito unico, del totalitariato, è una forma instabile, essa smorza la scena politica, non assicura più il feedback dell'opinione pubblica, il flusso minimale nel circuito integrato che costituisce la macchina transistorizzata del politico. L'alteranza è invece il non plus ultra dell'equazione concorrenziale perfetta fra i due partiti. Questo è logico: la democrazia realizza nell'ordine politico la legge dell'equivalenza, e questa legge si realizza nel gioco d'altalena dei due termini, che riattiva la loro equivalenza ma permette, mediante questo minimo scarto, di captare il consenso pubblico e di richiudere il ciclo della rappresentazione. Teatro operativo dove non recita più che il riflesso fuligginoso della Ragione politica. La libera scelta degli individui, che è il credo della democrazia, sbocca in realtà esattamente nell'opposto: il voto è diventato sostanzialmente obbligatorio: se non lo è di diritto, lo è per la costrizione statistica, strutturale dell'alternanza, rafforzata dai sondaggi. Il voto è diventato sostanzialmente aleatorio: quando la democrazia raggiunge uno stadio formale avanzato, essa si distribuisde intorno a delle percentuali uguali (50/50). Il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo dele probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie.
A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia, bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statica e tanto maggiore.

lunedì 9 giugno 2014

La Libertà di Simone Weil



Si può intendere per libertà qualcosa di diverso dalla possibilità di ottenere senza sforzo ciò che piace. Esiste una concezione ben diversa della libertà, una concezione eroica che quella della saggezza comune. La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto fra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine. Poco importa che le azioni in se stesse siano agevoli o dolorose, e poco importa anche che esse siano coronate da successo; il dolore e la sconfitta possono rendere l'uomo sventurato, ma non possono umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria facoltà di agire. E disporre delle proprie azioni non significa affatto agire arbitrariamente; le azioni arbitrarie non derivano da alcun giudizio e, se vogliamo essere precisi, non possono essere chiamate libere. Ogni giudizio si applica a una situazione oggettiva, e di conseguenza ad un tessuto di necessità. L'uomo vivente non può in alcun caso evitare di essere incalzato da tutte le parti da una necessità assolutamente inflessibile; ma, poiché pensa, ha la facoltà di scegliere tra cedere ciecamente al pungolo con il quale essa lo incalza dal di fuori, oppure conformarsi alla raffigurazione interiore che egli se ne forgia; e in questo consiste l'opposizione tra servitù e libertà.