..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 29 novembre 2013

Non tutti sono disposti a salire su quel treno

I padroni del cemento e dei camion, gli specialisti della menzogna e della repressione sono al lavoro, in val di Susa, nel Veneto, in Emilia, Toscana, fino a Napoli. Ognuno a proprio modo si sta dando da fare, questa volta con il TAV, a piegare la nostra vita ai loro criteri. In nome di una crescita economica presentata come indispensabile (e mai raggiunta), di un’Economia a cui bisogna sacrificare tutte le energie umane vogliono, nel caso del Treno ad Alta Velocità farci credere che la posta di tonnellate di cemento, il livellamento di colline, le gallerie nelle montagne, la distruzione irreversibile del territorio in cui viviamo sia un bene collettivo o il male minore da accettare. Una menzogna evidente, incapace di dissimulare gli affari e gli interessi organizzati di quanti nel business sono coinvolti. La gente sente che si sta compiendo un’altra spoliazione, un altro grave attentato alla propria vita.
L’evidenza del disastro di cui il TAV è un tassello incomincia a far agire le persone, ad allargare il numero di quanti iniziano a rovesciare l’ansia sterile e sventurata per un proprio futuro di senzalavoro, senza merce, senza spettacolo, in riappropriazione del presente.
Questo fa paura. E agiscono cercando di sterilizzare, di recuperarci alle loro miserie, di dividere, di confondere e di reprimere.
Per il TAV cercano di occultare i disastri che stanno facendo e le rapine che hanno già fatto con le tangenti, uccidendo e imprigionando, spingendo i loro mezzi d’informazione a montare campagne criminalizzatrici per nascondere il rumore delle ruspe; incriminano e imprigionano per reclamare la militarizzazione dei territori e impedire ogni opposizione.
Il TAV è l’ennesima operazione per piegarci, per costringerci a muoverci alla loro velocità, per raggiungere più velocemente la miseria di Torino partendo da quella di Milano, Trieste o Napoli, tra paesaggi desolati, in una corsa sterile di uomini senza vita tra luoghi senza vita.
Non tutti sono disposti a salire su quel treno.

(Volantino distribuito da El Paso Nautilus Fottinprop Torino 04-04-1998)

venerdì 22 novembre 2013

Lucille

 Lucille è il nome dato alle chitarre di BB King. Esse sono di solito chitarre Gibson nere simili alla ES-355.
Nell'inverno del 1949, King ha suonato in una sala da ballo a Twist, Arkansas. Per riscaldare la sala, veniva acceso un barile riempito a metà con kerosene, una pratica abbastanza comune all'epoca. Durante una performance, due uomini cominciarono a lottare tra loro, rovesciando la canna del bruciatore causando la caduta di carburante infuocato sul pavimento. La sala prese fuoco provocando l'evacuazione del locale. Una volta fuori, BB King si rese conto che aveva lasciato la sua chitarra dentro l'edificio in fiamme. Incurante di queste entrò nel locale e riuscì a recuperare la sua amata chitarra Gibson S 30, correndo chiaramente un grosso rischio (infatti nell'incendio morirono due persone). Il giorno successivo, King apprese che i due uomini avevano litigato per una donna di nome Lucille. Il musicista, allora, decise di chiamare la sua chitarra con il nome della ragazza. Nacque così la prima chitarra Lucille, ed in seguito chiamò così tutte le sue chitarre. La decisione, presa da quella esperienza quasi fatale, serviva, e serve, come un promemoria: mai più fare qualcosa di stupido come introdursi in un edificio in fiamme o litigare per le donne.
BB King ha scritto una canzone chiamata "Lucille", dove racconta della sua chitarra e la storia di quel nome.
King ha suonato con chitarre di diverse marche all'inizio della sua carriera. Ha usato una Fender Telecaster nella maggior parte delle sue registrazioni con la RPM Records (USA). Tuttavia, egli ci ha deliziato di più usando varianti della Gibson ES-355.
Nel 1980, la Gibson Guitar Corporation ha lanciato il modello BB King Lucille. La chitarra è contrassegnata dalla scritta “Lucile” sulla paletta, e dal manico in acero.
Nel 2005, per l’80° compleanno di BB King, la Gibson ha fatto una chitarra speciale chiamandola “80th Birthday Lucile” Il primo prototipo è stato dato a King come regalo di compleanno. BB King l’ha usata come sua chitarra principale fino all'estate del 2009, cioè fino a quando gli è stata rubata. Il 10 settembre dello stesso anno, un certo Eric Dahl ha inconsapevolmente acquistato da un negozio di pegni a Las Vegas, lo strumento rubato. A seguito di una ricerca di informazioni sulla chitarra, è stato contattato da un rappresentante della Gibson Artist Relations, che ha informato Dahl dell’oggetto rubato. Questa Lucille è stata restituita a BB King alla fine del novembre 2009, il quale, naturalmente, fu molto felice di ricevere indietro il regalo del suo 80° compleanno.

I'm waiting for the man (Velvet Underground)

I'm WI'm waiting for the Man è un brano musicale del gruppo rock statunitense Velvet Underground, scritto da Lou Reed. Fu originariamente pubblicato nel 1967 sul primo album della band, The Velvet Underground & Nico.
I primi provini del brano, registrati nel loft di Ludlow Street nel 1965, rivelano che l'arrangiamento era molto differente in origine e che variò molto con il passare delle sedute di registrazione. All'inizio era un motivo quasi country rock con accenni folk e considerevolmente più lento, poi ci fu una versione che comprendeva anche la stridente viola di John Cale e, dopo altri tentativi, si giunse infine alla versione che può essere ascoltata sul disco. Prima della versione definitiva, un'altra differente take del brano venne registrata agli Scepter Studios di New York City nell'aprile 1966. Questa versione è un po' più breve, il pianoforte è meno in evidenza e al posto della batteria, è presente un tamburello.
La canzone racconta la storia di uno studente in cerca di droga ad Harlem. Già nella prima strofa, Reed delinea il protagonista: è un bianco, in crisi d'astinenza, che arriva a Harlem (Up to Lexington 125) con in mano 26 dollari cercando il suo spacciatore di fiducia. Mentre aspetta gli si avvicina un nero che in tono minaccioso gli chiede cosa ci faccia lì e lo accusa di essere venuto a rubar le loro donne. Il giovane, nervoso e in evidente stato di difficoltà, balbetta una scusa dicendo di stare aspettando un "carissimo" amico. A salvarlo da una situazione pericolosa, ecco arrivare lo spacciatore, l'uomo del titolo del brano, descritto come un angelo della morte:
Quello che Reed descrive nella canzone, non è solo uno spaccio di droga, ma il confronto/scontro tra due mondi estranei che però vivono a pochi chilometri di distanza l'uno dall'altro, nella stessa città.
L'andamento "saltellante" della canzone, con il martellante riff di pianoforte e chitarre in evidenza, riflette la tensione della scena e l'impellente desiderio di "farsi" del protagonista, che una volta in possesso della dose se ne torna a casa sano e salvo dalla propria ragazza, soddisfatto e appagato. Almeno fino al giorno dopo.

I'm waiting for my man
Twenty-six dollars in my hand
Up to Lexington, 125
Feel sick and dirty, more dead than alive
I'm waiting for my man
Hey, white boy, what you doin' uptown?
Hey, white boy, you chasin' our women around?
Oh pardon me sir, it's the furthest from my mind
I'm just lookin' for a dear, dear friend of mine
I'm waiting for my man
Here he comes, he's all dressed in black
Beat up shoes and a big straw hat
He's never early, he's always late
First thing you learn is you always gotta wait
I'm waiting for my man
Up to a Brownstone, up three flights of stairs
Everybody's pinned you, but nobody cares
He's got the works, gives you sweet taste
Ah then you gotta split because you got no time to waste
I'm waiting for my man
Baby don't you holler, darlin' don't you bawl and shout
I'm feeling good, you know I'm gonna work it on out
I'm feeling good, I'm feeling oh so fine
Until tomorrow, but that's just some other time
I'm waiting for my man
Sto aspettando il mio uomo
26 dollari nella mia mano
Su verso Lexington, 125
Mi sento malato e sporco, più morto che vivo
Sto aspettando il mio uomo
Hey, ragazzo bianco, cosa stai facendo su in città?
Hey, ragazzo bianco, stai rincorrendo le nostre donne?
Oh mi perdoni signore, è la cosa più lontana dalla mia mente
Sto solo cercando un mio caro, caro amico
Sto aspettando il mio uomo
Ecco che arriva, è tutto vestito di nero
Scarpe PR e un grande cappello di paglia
Non arriva mai in anticipo, è sempre in ritardo
La prima cosa che impari è che devi sempre aspettare
Sto aspettando il mio uomo
Su a un Brownstone, a tre rampe di scale,
Tutti ti hanno appuntato, ma non importa a nessuno
Lui ha le opere, ti dà un sapore dolce
Ah e poi ti devi dividere perchè non hai tempo da sprecare
Sto aspettando il mio uomo
Tesoro non esagerare, caro non sbraitare e non urlare
Mi sento bene, lo sai che ci lavorerò su
Mi sento bene, mi sento oh così alla grande
Fino a domani, ma quello è solo un altro tempo
Sto aspettando il mio uomo


martedì 19 novembre 2013

Heroin (Velvet Underground)

Io ho preso una decisione fondamentale
Proverò ad annullare la mia vita
Perché quando il sangue inizia a fluire
Quando sale lo stantuffo della siringa
Quando mi sto avvicinando alla morte
E non potete aiutarmi, certo non voi, ragazzi
Né voi, dolci ragazze con le vostre dolci parole
Potete andarvene tutti via
Ammetto che non so proprio nulla
E ammetto che non so proprio niente
Eroina che tu sia la mia morte
Eroina è mia moglie, è la mia vita
Perché un ago in vena
Mi guida al centro del mio cervello
E sto meglio che se fossi morto
Perché quando la roba comincia ad entrare in circolo
Non me ne frega più nulla
Di voi gente qualunque di questa città
E di tutti i politici che schiamazzano come pazzi
E di quelli che insultano chiunque gli capiti
E di tutti i morti ammucchiati gli uni sugli altri
Perché quando inizio a percepire il suo bacio
Allora non m' importa proprio più di niente
Perché quando l'eroina è nel mio sangue
E il sangue è nella mia testa
Ringrazio Dio, sto meglio che se fossi morto!
Ringrazio il tuo Dio che non sono cosciente
Ringrazio Dio che non me ne frega più niente
E ammetto che non so proprio nulla
E ammetto che non so proprio niente

Heroin è un brano musicale del gruppo rock statunitense Velvet Underground, scritto da Lou Reed. Fu originariamente pubblicato nel 1967 sul primo album della band, The Velvet Underground & Nico.
Il testo è incentrato sui pensieri e sulle emozioni provate da un tossicodipendente, il suo rapporto nei confronti dell'eroina e i relativi benefici che trae da essa. La sua è una relazione senza possibilità di salvezza, in quanto nella parte finale della canzone il tossico arriva a chiedere la morte da quella che è diventata sua "moglie" e sua "vita", ringraziando dio perché ormai estraniato dalla vita sociale, dalla città, dai "politici e dai loro discorsi".

domenica 17 novembre 2013

Una volta

Una volta, le strutture di base del patriarcato era la famiglia nucleare e a chiedere la sua abolizione è stata una richiesta radicale. Ora le famiglie sono sempre più frammentate: nonostante questo, quanto, di fondo, si è ampliato il potere delle donne o l’autonomia dei bambini?
Una volta, si poteva parlare di una cultura sociale e culturale tradizionale e la stessa sottocultura pareva sovversiva. Ora, per i nostri capi la diversità è un bene prezioso, e la sottocultura un motore essenziale della società dei consumi: quante più identità, tanti più mercati.
Una volta, la gente cresceva nella stessa comunità di genitori e nonni, e viaggiare poteva essere considerato una forza destabilizzante, capace di interrompere configurazioni sociali e culturali statiche. Oggi la vita è caratterizzata da un costante movimento nel quale la gente lotta per stare al passo con le richieste del mercato; al posto di configurazioni repressive, abbiamo una transitorietà permanente e l’atomizzazione universale.
Una volta, i lavoratori si fermavano per anni o decenni nel solito impiego, sviluppando legami sociali e punti di riferimento comuni tali da rendere possibili i sindacati vecchio stile. Oggi, l’occupazione è sempre più temporanea e precaria, e sempre più lavoratori passano dalle fabbriche alla flessibilità obbligatoria  e i sindacati al settore dei servizi.
 Una volta, il lavoro salariato era una sfera distinta della vita, era facile riconoscerlo e ribellarsi contro i modi in cui veniva sfruttato il nostro potenziale produttivo. Ora, ogni aspetto dell’esistenza sta diventando lavoro, nel senso di attività che produce valore per l’economia capitalistica: guardando il proprio account di posta elettronica si aumenta il capitale di coloro che vendono pubblicità. Al posto di ruoli distinti e specializzati nell’economia capitalistica, vediamo sempre più la produzione collettiva e flessibile di capitale, in gran parte non pagata.
Una volta, il mondo era pieno di dittature nelle quali il potere era dichiaratamente esercitato dall’alto e poteva essere contestato in quanto tale. Ora stanno cedendo il passo a democrazie che sembrano includere più persone nel processo politico, legittimando così i poteri repressivi dello Stato.
Una volta, l’unità essenziale del potere statale era la nazione, e le nazioni competevano tra loro per far valere i propri interessi individuali. Nell’era della globalizzazione capitalista, gli interessi del potere statale trascendono i confini nazionali e il modello dominante di conflitto non è la guerra, ma il controllo poliziesco. A volte viene utilizzato contro le nazioni canaglia, ma è attuato continuamente nei confronti delle persone.
Il punto non è condannare il corso della storia o lagnarsi del fatto che ci hanno rubato le invenzioni, ma capire come alcune delle nostre stesse forme di resistenza siano diventate parte del mondo che cerchiamo di cambiare.

sabato 2 novembre 2013

4 novembre 1918 non festa ma lutto

Quasi un secolo fa a Villa Giusti l'Austria si arrendeva all'Italia. Era la vittoria! La guerra era finita!
Una guerra non voluta dai lavoratori e imposta con la forza dallo stato italiano.
Chi si ricorda in questi giorni che nel 1915 a Milano, Roma, Torino e altre località ci furono manifestazioni di massa contro la guerra? Che a Torino 100mila operai in sciopero si scontrarono con la polizia e le truppe in una lotta durata due giorni?
Era chiaro che i lavoratori non volevano essere carne da cannone, non intendevano pagare i costi di una guerra imposta dalla borghesia, dagli industriali, dalle alte gerarchie dell'esercito.
Eppure chi dirà in questi giorni che durante la guerra ci furono un milione di processi per diserzione, 4mila arresti per manifestazioni contro la guerra?
Che a Torino nel 1917 i proletari insorsero ancora per 7 giorni contro l'aumento dei prezzi e per il pane e per la pace?
In questi giorni si festeggia la vittoria: una vittoria pagata con 680.000 morti, due milioni tra feriti, mutilati e prigionieri, tutti lavoratori mandati al macello contro altri lavoratori di altri paesi; alla fine il totale sarà di 15 milioni di proletari uccisi. Proletari a cui avevano detto di combattere per le loro patrie: e così furono ingannati. Invece di spararsi a vicenda, avrebbero dovuto sparare sui governanti, sui capitalisti e sui generali; perché questi erano e sono i veri NEMICI.
In questi giorni lo stato italiano festeggia la vittoria con discorsi, commemorazioni, parate militari, visite ai cimiteri di guerra, elogi al valore dei soldati italiani morti per la patria. Le parole commosse e le false lacrime di uomini di governo e militari non ci devono ingannare, soldati, la patria è un'invenzione per farci fare il servizio militare e difendere i padroni da scioperi e rivoluzioni; lavoratori, le medaglie non fanno risorgere i morti e non restituiscono le tasse che paghiamo per le spese militari. Quella guerra (come tutte le altre) fu scatenata dai padroni di tutto il mondo per i loro interessi.
Oggi ci parlano di pace, ma non stanno tranquilli. Non c'è pace che tiene, un'altra "guerra" continua; la "guerra" degli sfruttati che va avanti da molto tempo, che è lotta di classe contro i padroni, contro lo Stato, contro l'esercito e il militarismo, che è Lotta di Classe per l'ORGANIZZAZIONE AUTONOMA DELLA CLASSE SFRUTTATA, VERSO UNA SOCIETA' SENZA CLASSI E INTERNAZIONALISTA".

Pubblichiamo di seguito la lettera spedita a casa da un soldato italiano, semi-analfabeta, che morì nel tremendo massacro che fu la Prima Guerra Mondiale. Vale più di qualsiasi conferenza universitaria:

«Maestà, inviamo a V.M. questa lettera per dirvi che finite questo macello inutile. Avete ben da dire voi, che e’ glorioso il morire per la Patria. E a noi sembra invece che siccome voi e i vostri porchi ministri che avete voluto la guerra che in prima linea potevate andarci voi e loro. Ma invece voi e i vostri mascalzoni ministri, restate indietro e ci mandate avanti noi poveri diavoli, con moglie e figli a casa, che ormai causa questa orribile guerra da voi voluta soffrono i poverini la fame! Vigliacchi, spudorati, Ubriaconi, Impestati, carnefici di carne umana, finitela che è tempo. Li volete uccidere tutti? Al fronte sono stanchi, nell’interno soffrono la fame, dunque cosa volete? Vergognatevi, ma non vedete che non vincete, ma volete che vadino avanti lo stesso per ucciderli. Non vedete quanta strage di giovani e di padri di famiglia avete fatto, e non siete ancora contenti? Andateci voi o vigliacchi col vostro corpo a difendere la vostra patria, e poi quando la vostra vita la vedete in pericolo, allora o porchi che siete tutti concluderete certamente la pace ad ogni costo. Noi per la patria abbiamo sofferto abbastanza, e infine la nostra patria è la nostra casa, è la nostra famiglia, le nostre mogli, i nostri bambini. Quando ci avete uccisi tutti siete contento di vedere centinaia di migliaia di bambini privo di padre? E perché? per un vostro ambizioso spudorato capriccio».