..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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lunedì 28 ottobre 2013

Lou Reed


Lou Reed è morto. Lo annuncia la rivista Rolling Stone. Il poeta dei Velvet Underground era nato a Brooklyn il 2 marzo 1942. La rivista scrive che la causa della morte non è stata comunicata, ma a maggio aveva subito un trapianto di fegato. Ci lascia così uno dei più grandi artisti di questi anni. Poeta, musicista e cantautore, con una carriera alle spalle capitanando i Velvet Underground prima, e una ancor più splendida carriera da solista poi.
Lou Reed era il soprannome di Lewis Allan Reed, nato da una famiglia ebraica e benestante a New York. Narrano le cronache intorno a lui che abbia subito un elettroshock per “curare” la sua presunta bisessualità all’età di 14 anni. Appassionatosi alla musica ascoltando la radio, imparò a suonare la chitarra e sviluppò un forte interesse per il rock and roll e il rhythm and blues, e durante gli anni delle scuole superiori suono’ in vari gruppi studenteschi Dopo un inizio da musicista e autore, crea nel 1966 i Velvet Underground insieme al polistrumentista John Cale, a Sterling Morrison e alla batterista Mo’ Tucker. Il gruppo entra a far parte della factory di Andy Warhol, promotore e finanziatore del primo album, famoso per la sua copertina che ritrae una fallica banana disegnata dallo stesso Warhol e che nella prima edizione del disco poteva essere sbucciata.
Il disco è un capolavoro di rara bellezza, in cui brillano composizioni come Sunday Morning, Femme Fatale, Waiting for the Man. Ma a colpire è la terribile Heroin, in cui Lou racconta della sua dipendenza dalla droga.
Il disco è uno spettacolo spettrale grazie alla voce della cantante Nico, che canta in alcuni brani e dona al gruppo una verve in più. I Velvet Underground diventa il gruppo più in della scena artistica e musicale di New York.
Il successivo LP, White Light/White Heat, contiene il capolavoro della title-track, una lunga suite come Sister Ray e segna l’addio dello sperimentalista John Cale al gruppo, che inciderà altri album di discreto successo, compreso l’ultimo Loaded che ci permette di ascoltare Sweet Jane e Rock’n'Roll, che con il tempo diventeranno suoi classici.


Il primo prodotto dell’era da solista del poeta newyorkese è l’album intitolato semplicemente “Lou Reed”, che però non è annoverato tra i suoi capolavori. Subito dopo, con l’aiuto e la produzione di un altro astro nascente come David Bowie, arriva il capolavoro Transformer. L’intero album contiene molti dei suoi capolavori: dall’iniziale Vicious, si dice dedicata allo stesso Bowie, a Perfect Day, continuando con Satellite of Love e Walk on The wild side, omaggio alle transessuali che battevano nelle vie che frequentava e rimasto famoso per il coro del du du du.
Walk on the wild side è la sua canzone più popolare, non certo la più bella.

Walk on The wild side
Passeggia sul lato selvaggio
Holly venne da Miami, Florida,
viaggiò a modo suo con l’autostop attraverso gli USA.
Strada facendo si rase le sopracciglia,
si depilò le gambe e divenne una lei
Lei diceva “Hey baby, fai una passeggiata sul lato selvaggio”
Candy arrivò da fuori sull’isola:
nella stanza sul retro faceva la carina con tutti
Ma non perse mai la testa,
neanche quando si faceva spompinare,
lei diceva “Dai bello cammina sul lato selvaggio”
Diceva “Hey bimbo, vieni a passeggiare dalla parte selvaggia”
E le ragazze di colore fanno “Do do do do do do do do”

Il piccolo Joe non lo regalava neppure una volta:
tutti dovevano pagare e pagare
Rimorchia qui e rimorchia là,
New York è il posto dove si dice:
“Hey baby, fai una passeggiata sul lato selvaggio”
Io dicevo “ Hey Joe, cammina dalla parte selvaggia ”
Sugar Plum Fairy venne a battere le strade:
cercava cibo spirituale e un posto in cui mangiare
Andò all’Apollo. Avreste dovuto vedere come andava
Dicevamo “Hey Sugar, fai un giretto sul lato selvaggio”
Io dicevo “Dai baby, cammina dalle parte selvaggia”
Tutto bene
Jackie sta proprio flippando via:
pensava di essere James Dean per un giorno
Allora io sospettai che stesse per crollare,
il valium avrebbe potuto evitare quel colpo
Lei diceva “Hey baby fai un giretto dalla parte selvaggia”
Io dicevo “ Tesoro, cammina sul lato selvaggio”
E le ragazze di colore fanno “ Do do do do do do do do.”

Come lo spieghi Lou Reed? Come? La risposta è semplice: non lo spieghi. Ascoltatevi “Transformer“, ascoltatevi “Berlin“, dischi che hanno creato solchi profondissimi nella musica, che l’hanno squarciata, rivelata, segnata. Solchi come le sue rughe che segnavano un viso sempre vivido, per non dire dei suoi occhi che parlavano e della sua voce che stendeva.

sabato 26 ottobre 2013

Chi intercetta chi. Il segreto di Pulcinella

Un segreto che sanno tutti, ma deve restare segreto, non è un divertimento per bambini, ma il gioco di quegli adulti che siedono sulle poltrone dei potenti.
Tutti sanno che i governi fanno la spia, altrimenti non si capirebbe a cosa servano i tanti servizi di intelligence alle dirette dipendenze dall’esecutivo di turno.
Ogni governo sa o sospetta di essere spiato dal vicino, che a sua volta è registrato, ascoltato, fotografato.
Lo scandalo suscitato dalle rivelazioni di Edward Snowden, il dipendente della National Security Agency, esule in Russia, dopo aver vuotato il sacco sulle orecchie lunghe dell’agenzia per cui lavorava, non è il fatto in se, ma il fatto che la grande potenza statunitense si sia fatta pizzicare con le mani nel sacco.
Naturalmente oggi tutti recitano la propria parte, tra indignazione ed imbarazzi, ambasciatori convocati e vertici di fuoco, ma la pervasività del controllo, con la quale ognuno di noi deve fare ogni giorno i conti, tra telecamere, microspie, satelliti, badge elettronici, è sotto gli occhi di tutti. Il segreto di Pulcinella.

giovedì 24 ottobre 2013

Dal Kurdistan alla Kabilia. Itinerari di libertà


Negli ultimi anni si sono sviluppati movimenti di lotta che sia nelle modalità organizzative, sia negli obiettivi hanno modi libertari. Partecipazione diretta, costruzione di reti solidali su base locale, mutazione culturale profonda che investe le relazioni di dominio che attraversano il corpo sociale ne sono il segno distintivo, oltre alla durezza dello scontro con le istituzioni statali e religiose che controllano i vari territori.
La caratteristica importante di questi movimenti è il radicarsi in aree del pianeta dove negli ultimi quindici anni si sono sviluppati movimenti reattivi all’occidentalizzazione forzata di stampo religioso.
È il caso della Kabilia, la regione berbera dell’Algeria, è il caso del Curdistan turco e, più di recente, di quello siriano, dove ampi strati di popolazione si sono schierati contro il regime e contro gli islamisti, costruendo al contempo un’esperienza di autonomia non statale sui loro territori.
Ma l’elenco potrebbe essere più lungo, attraversando il pianeta dal Messico all’India.

sabato 19 ottobre 2013

Chi vince e chi perde oltre la retorica sulla crisi

Il termine crisi è stato tanto usato da apparire logoro. Un semplice rumore di sottofondo che accompagna qualsiasi discorso politico. Un rumore che si manifesta ogni volta che il governo attua tagli ai servizi e alle assunzioni, aiuti alle aziende, aumenti delle imposte.
È il rumore che ha accompagnato tutti i discorsi sulla flessibilità pretesa ed imposta ai lavoratori, la riduzione delle tutele, il taglio delle pensioni, la precarietà permanente, la disoccupazione cronica, la retorica dei giovani e la retorica dei vecchi, tutte orientate a ingannare gli uni e gli altri, facendoli sentire in colpa tutti.
Peccato che negli anni della “crisi”, tra il 2008 ed oggi i super ricchi, i Paperoni, sono cresciuti.
L’economia è un gioco a somma zero: se qualcuno perde, qualcun altro guadagna. In questi anni vissuti male, con la fatica di arrivare a fine mese, giocata sul risparmio su tutto, compreso l’essenziale, qualcuno, già ricco, lo è diventato di più.
Capirne di più, per smontare il discorso della crisi, è sempre più importante.

venerdì 18 ottobre 2013

Danza macabra

A Torino, senza pudore, i leghisti hanno compiuto la loro danza macabra nel centro cittadino. Qualche centinaio di metri di corteo, poche migliaia di persone hanno sfilato in un verde metallico che nulla ha della tenerezza dell’erba. Intorno a loro un dispositivo militare senza pari. Centinaia di poliziotti e carabinieri hanno paralizzato il centro, chiudendo in una morsa d’acciaio la manifestazione leghista.
Nonostante l’imponente dispositivo la manifestazione è stata contestata da più parti: non violenti in piazza CLN, No Tav in via Nizza, un migliaio di antirazzisti in corteo hanno assediato per ore i tristi padani. Gli antirazzisti hanno attraversato il centro cittadino, cercando di raggiungere la stazione. La polizia ha fatto leggere ma frequenti cariche per impedire al corteo di avvicinarsi ai leghisti.
Per loro i morti di Lampedusa sono una festa. Come dimenticare i manifesti, che incitavano a fermare l’invasione? Come dimenticare la presidente leghista della Camera Irene Pivetti che nel 1997 esortava la Marina Militare a speronare le barche degli immigrati? Il 28 marzo la corvetta Sibilla mandò a picco la Kater i Rades piena di albanesi. Vennero recuperati solo 81 corpi. Gli altri restarono tra le braccia del Mediterraneo.
Il figlio del Senatur qualche anno dopo è andato proprio in Albania ad acquisire una laurea.
La presidente ultracattolica della Camera passò dal modello Vandea a quello sado maso, restando così coerente con se stessa.
I democratici, da vent’anni al governo della città, hanno scelto di stare al coperto. Un silenzio fragoroso.
Nelle stesse ore a Roma i sinceri democratici sfilavano per la Costituzione, come se l’astrattezza dei principi potesse fare argine alla concreta ferocia del nostro tempo.
Il boia delle Ardeatine ha sempre negato le camere a gas, i forni che smaltivano quel che restava dei corpi in eccesso.
I boia democratici rendono omaggio alle loro vittime.

Occupata sede ATC Torino: basta sfratti e minacce!

Nella giornata nazionale di lotta contro crisi e austerità, inserita nella più ampia settimana di mobilitazione, cominciata per Torino con l’occupazione dell’anagrafe l’11 ottobre per chiedere la residenza di chiunque abiti una casa occupata e che culminerà con il corteo del 19 ottobre che si è dato l’obiettivo di assediare le strade di Roma ed i palazzi del potere, per il blocco di sfratti, sgomberi e speculazioni, anche la voce di Torino non si è fatta attendere.
Un centinaio tra attivisti per il diritto alla casa, famiglie sotto sfratto, occupanti di case ed inquilini ATC si sono dati appuntamento sotto la sede dell’ATC (Agenzia Territoriale per la Casa della Provincia di Torino) in Corso Dante n. 14, per chiedere un incontro con il presidente dell’agenzia Elvi Rossi. A difesa del presidente e dei vari funzionari presenti all’interno dell’agenzia si è prontamente schierato un ingente numero di forze dell’ordine e digos. Dopo una mezz’ora di occupazione degli uffici aperti al pubblico, con la solidarietà delle persone in attesa agli sportelli, che ben conoscono la gestione fallimentare dell’ente da parte della dirigenza che, nonostante ciò continua a percepire lauti compensi (sino a 140.000 euro annui delle cariche dirigenziali) e la questione dei 5 funzionari indagati per corruzione e turbativa d’asta in relazione alla manutenzione delle case popolari, i presenti sono stati ricevuti dal presidente.
Le istanze riguardavano in primo luogo le lettere (oltre 4000) inviate da ATC agli abitanti delle case popolari per sollecitare l’immediato pagamento di canoni e bollette arretrate nella misura minima pari ad euro 480, senza il pagamento dei quali ATC minacciava di intraprendere la procedura di sfratto.
I presenti hanno inoltre chiesto al presidente la riapertura e la riassegnazione delle oltre 1.000 case ATC sfitte, un numero vergognoso a fronte dei 4000 sfratti che la città di Torino ha visto eseguiti dall’inizio dell’anno ad oggi e delle domande di casa popolare che attendono da anni un’assegnazione.
La delegazione ha lasciato l’agenzia con la promessa pubblica formulata dal presidente Rossi di richiedere, al comune e regione, una moratoria al pagamento dei 480 euro obbligatori che gli abitanti delle case popolari non possono pagare.
Ormai stanchi di sentire promesse, sempre disattese, abbiamo promesso – e noi le promesse le manteniamo – che se entro qualche giorno non avremmo visto pubblicamente la richiesta di moratoria, insieme a quella sugli sfratti di competenza di Atc, avremo fatto nuovamente visita al presidente Elvi Rossi. Oltre a questo, abbiamo rilanciato per ottenere l’assegnazione delle case lasciate vuote da Atc attraverso forma di autorecupero da parte degli assegnatari; su questo Rossi tirava in ballo il Comune, proprietario del patrimonio pubblico, il quale assegna le case.
Se Atc pensa di rimpallare la questione delle case vuote al Comune pensando di lavarsene le mani…fa i conti senza l’oste: anche in questo caso se non riceveremo risposte che riterremo adeguate andremo, non solo a chieder conto ad Atc ma anche il comune avrà una nostra visita…
Niente da perdere tutto da prenderci!

Comitato case popolari e occupanti



martedì 15 ottobre 2013

Il bisogno di un autogoverno territoriale

In questo paese ci sono case vuote e gente in strada, c'è chi lavora troppo per molto poco e chi non lavora affatto. Truppe tricolori uccidono e occupano l’Afganistan mentre qui chiudono gli ospedali.
I soldi per la guerra e le grandi opere inutili ci sono sempre, mancano invece per le mense dei nostri bambini, la salute, la scuola, i trasporti locali.
Il governo sta preparando una nuova manovra di lacrime e sangue. Le nostre lacrime, il nostro sangue.
La crisi morde sempre più forte, specie nelle periferie, dove solo le pratiche di autogestione, riappropriazione e solidarietà pongono un argine alla guerra contro i poveri che i governi di centro sinistra e quelli di centro destra hanno promosso negli ultimi vent'anni.
L'esecutivo guidato da Enrico Letta è stato l'ultima tappa di un lungo processo di ridefinizione dei partiti istituzionali intorno a blocchi di interessi, che, alla bisogna, possono trovare spazio per una convergenza.
L'affermarsi di una democrazia autoritaria è il necessario corollario a politiche di demolizione di ogni forma di tutela sociale, all'origine della situazione odierna delle classi oppresse. Se i meccanismi violenti della governance mondiale impongono di radere al suolo ogni copertura economica e normativa per chi lavora, la parola passa al manganello, alla polizia, alla magistratura. Se la guerra è l'orizzonte normale per le truppe dei mercenari tricolori presenti in armi in Afganistan come in Val Susa, la repressione verso chi si ribella non può che incrudirsi.
Le esperienze più interessanti di questi anni sono quelle che hanno saputo coniugare autogestione e conflitto, individuando nell'esodo conflittuale un modo per costruire lottando e lottare costruendo. In una tensione che non si allenta, ogni TAZ, ogni zona liberata, è una base per incursioni all'esterno. Parimenti ogni momento di conflitto riesce ad oltrepassare la mera dimensione resistenziale quando si innesta in pratiche di riappropriazione diretta di spazi politici e sociali.
La crisi della politica di Palazzo ci offre una possibilità inedita di sperimentazione sociale su vasta scala di un autogoverno territoriale che si emancipi dai percorsi istituzionali.

Clandestino



Per lo stato e per il capitalismo, non sono umani gli uomini neri, verdi e blu. Essi servono. Servono in molte guise. Servono, anzitutto in quanto uomini di colore. Che poi è il modo migliore di rendere il senso etimologico del termine “clandestino”, Clam-des-tinus. Ciò che sta nascosto al giorno, e odia la luce. Chi sta nell’ombra. L’uomo nero, invisibile, confuso nella notte, privo di figura, di contorni, di volto, di nome, di identità. Una grande massa oscura che viene designata nella sua paurosa alterità. L’uomo nero, eterna macchina da paura. Ed è questo il primo senso del servo: produrre paura. Di come la paura sia una formidabile risorsa politica hanno detto in tanti, e basti ricordare colui che ha pensato la sovranità politica moderna, Thomas Hobbes: “l’uomo rinuncia volontariamente ai propri diritti nella misura in cui ha paura dell’altro uomo, fatto lupo”. Più si crea l’immagine dell’altro in quanto mostro, tanto più l’individuo rinuncerà ai propri diritti – dunque a se stesso in quanto umano, propriamente – per avere salva la vita.
Produrre paura è essenziale in tempi d’emergenza come questi, per il rapporto direttamente proporzionale tra paura e rinuncia dei diritti e rafforzamento del potere sovrano. Il sistema Spettacolare è lì anche per questo: produce fantasmi per natura, e quello dell’uomo nero è facile da produrre, è un effetto ottico di moltiplicazione. Basta parlare di immigrazione quando si parla di criminalità e il gioco è fatto, si crea un frame che resta inciso nelle reti neurali vita natural durante.
Ma quanto più gli immigrati vengono concepiti/prodotti in quanto uomini neri, tanto più vengono animalizzati e respinti ai margini dell’umano. Vengono resi, sempre di più, cose. E, in particolare macchine produttive. Il tipo ideale del lavoratore, da sempre desiderato da un sistema fondato esclusivamente sul profitto: in quanto invisibili, essi non hanno nulla da reclamare, da rivendicare, e possono essere usati esattamente come macchine.

lunedì 14 ottobre 2013

Lampedusa, strage di Stato



Ancora morti nel Mediterraneo, due stragi in dieci giorni con circa 400 morti annegati. Nel ventre del motopeschereccio affondato davanti all’isola dei Conigli, poco più di uno scoglio accanto a Lampedusa, ci sono ancora decine di altri cadaveri, come pure in quello affondato nelle acque maltesi.
Per chi si occupa di immigrazione, i fatti di Lampedusa non costituiscono una novità. Da quando, nella concezione di chi ci governa, i flussi migratori sono diventati una questione di ordine pubblico, le tragedie del mare scandiscono una “normalità” alla quale molti si erano praticamente assuefatti. Chi lotta per un miglioramento delle normative vigenti o per una loro radicale revisione, ha sempre posto una questione risolvente: se non fosse così difficile entrare legalmente in Italia (e in Europa), verrebbero meno le condizioni che stanno alla base di questi eventi luttuosi.
La logica proibizionista, d’altra parte, funziona così: un divieto assoluto alimenta la clandestinità e la speculazione affaristica. Basti pensare al proibizionismo degli alcolici negli Stati uniti nel secolo scorso, che fece le immense fortune di mafiosi e gangster; o all’attuale proibizionismo in fatto di consumo di droghe, che consente alla mafia e agli spacciatori di ingrassarsi, alle carceri di riempirsi all’inverosimile, e allo stato di esercitare una sua presunta superiorità morale.
Nel caso dell’immigrazione, ancora più brutalmente, la “merce” proibita sono gli esseri umani. Il proibizionismo imposto alla libera circolazione delle persone serve al capitalismo per garantirsi un serbatoio di manodopera ricattabile e a basso costo; serve agli stati per dare in pasto all’opinione pubblica l’idea che non siamo tutti uguali e che gli stranieri sono potenzialmente pericolosi; serve alle mafie per fare lucrosi affari sui traffici di esseri umani che si affidano ai viaggi della speranza.
La notte tra il 2 e il 3 , e il 12 ottobre scorso, è successo quello che è successo tante altre volte, al largo di Lampedusa, o di Malta, o a pochi metri dalla battigia di una qualunque spiaggia siciliana. In questo caso, le proporzioni del primo disastro sono state talmente grandi da suscitare un disagio che, in questi tempi di bulimia informativa ed emotiva, sembrava non esistesse quasi più. Le immagini delle bare allineate, tantissime, tutte uguali, in un hangar dell’aeroporto di Lampedusa, si commentano da sole, e non c’è alcun bisogno di fare retorica, almeno non su questo blog.
Vale la pena riferire qualcosa a proposito dei soccorsi, all’alba del 3 ottobre, a largo di Lampedusa.
Fonti più che attendibili (l’associazione agrigentina Borderline Sicilia) rivela che quando sono arrivati sul posto i mezzi della Guardia costiera, i diportisti che avevano chiamato i soccorsi avevano già salvato 47 persone, tutte vive. Drammatiche le fasi del salvataggio: gli immigrati erano tutti intrisi di gasolio, scivolavano dalle mani dei loro soccorritori, erano sfiniti. Eppure, dall’S.O.S.. all’arrivo delle autorità, sono passati almeno tre quarti d’ora. Davvero troppo per un’isola ipermonitorata da chi di dovere, e che si circumnaviga nel giro di un quarto d’ora. Durante le concitate fasi del salvataggio, uno dei diportisti ha chiesto ai militari il trasbordo veloce dalla sua barca al gommone della Guardia costiera fatto apposta per questo tipo di operazioni, ma gli è stato detto di no: «Dobbiamo rispettare i protocolli» ha chiarito – imperturbabile – un uomo in divisa.
Questa risposta, fredda e disumana, riassume perfettamente il senso delle cose. Di fronte a un’umanità in fuga da guerre e miseria, di fronte al bisogno umano di spostarsi e di vivere, si erge una burocrazia insensibile ed estranea. È questa burocrazia che uccide gli immigrati, ancor prima degli episodi singoli che provocano materialmente le tragedie.
Basti pensare che i superstiti del naufragio, appena qualche giorno dopo dal disastro, sono stati inscritti nel registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina. Un atto dovuto, hanno spiegato alla Procura di Agrigento, in virtù della legge Bossi-Fini. Ecco come funziona lo stato, ecco come funzionano le sue leggi. Quelle stesse leggi che innescano paure e ritrosie anche nei lavoratori del mare, i pescatori che, tante volte, incrociando nelle loro rotte le carrette cariche di immigrati, preferiscono lanciare l’allarme guardandosi bene dal prestare alcun tipo di soccorso per non incorrere nell’odiosa accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nel conseguente sequestro del peschereccio, unico e insostituibile strumento di lavoro. Non si vuole, qui, né generalizzare né puntare il dito. In moltissime occasioni, infatti, pescatori e diportisti siciliani hanno salvato vite umane senza derogare all’universale e atavica legge del mare che impone il mutuo soccorso al di là di ogni confine. Quello che sottolineo è la funzione terroristica delle attuali norme sull’immigrazione e, soprattutto, la maniera terroristica con la quale esse vengono applicate. Persino i trattati internazionali obbligano il salvataggio in mare, e il reato di favoreggiamento è comunque subordinato soltanto a determinate fattispecie, e dovrebbe essere segnalato nel corso degli appositi pattugliamenti predisposti dalle autorità competenti. Invece, questa minaccia viene fatta incombere sulle persone indiscriminatamente, a prescindere dai contesti concreti.
Non sappiamo nemmeno se sia il caso di riferire sulle dichiarazioni degli esponenti politici di tutti gli schieramenti all’indomani della tragedia. Grande dolore, grande commozione, grande indignazione, da destra a sinistra. Perfino il capo dello stato ha suggerito, bontà sua, la necessità di rivedere le norme sull’immigrazione in Italia. Peccato però che si tratti dello stesso Giorgio Napolitano che firmò nel 1998 – insieme a Livia Turco – la prima famigerata legge che istituì i centri di detenzione per immigrati e sulla quale fu impostato l’impianto normativo della Bossi-Fini, che tutti – oggi – criticano da sinistra. Dall’altra parte, gli esponenti di quel che resta del Popolo della Libertà cadono letteralmente dalle nuvole, difendono la Bossi-Fini, e scaricano ogni responsabilità sull’Unione europea che «dovrebbe fare di più, e non dovrebbe lasciarci soli». Quello che non si dice è che la Bossi-Fini risponde a un’esigenza che discende direttamente dalla concezione politica ed economica dei confini che delimitano la “fortezza Europa”. In Italia, queste esigenze di dominio sono state declinate tecnicamente, e cavalcate politicamente, da personaggi dell’ultradestra razzista e fascista, con il contorno di un pressapochismo tutto italiano che rende le cose ancora più intollerabili: nessuna idea di accoglienza, gestione perennemente emergenziale dei fenomeni sociali, miopia politica ai limiti del dilettantismo.
Dopo la strage di Lampedusa è il momento del dolore, senza dubbio. Ma il nostro dolore esiste da moltissimi anni, ed è lo stesso, insopportabile dolore che proviamo tutte le volte che sappiamo di una morte, di una mutilazione, di uno stupro, di una violenza che si producono nel contesto della repressione sugli immigrati.
L’unica certezza, che può alleviare il profondo malessere che ci opprime il cuore, sta nella consapevolezza che questa situazione non può durare all’infinito. Le leggi sull’immigrazione sono così antistoriche e disfunzionali, di fronte agli eventi planetari del tempo in cui viviamo, che – prima o poi – dovranno essere profondamente modificate, se non spazzate via. Noi europei siamo senz’altro più fortunati degli “altri”, ma sono moltissimi i segnali che ci fanno capire quanto poco sia destinata a durare questa nostra “fortuna”. La miseria e l’oppressione che oggi bussano alle nostre porte sotto le spoglie di immigrati e profughi sono, per molti versi, delle lugubri presenze che condizionano già adesso le nostre vite di precari, di sfruttati, di senza futuro.
Ci sono due modi per affrontare la questione. Uno è quello irrazionale, egoistico, razzista: gli “altri” non sono come me, che stiano al loro posto, che muoiano. L’altro è quello razionale, squisitamente umano, antirazzista: gli “altri” sono come me, e sono vittime – come me – di quelli che rendono possibile questo scempio attraverso la politica e l’economia.

domenica 13 ottobre 2013

Istruzioni per una rivoluzione

Se vi è qualcosa di ridicolo nel parlare di rivoluzione, è evidentemente perché il movimento rivoluzionario organizzato è sparito da molto tempo nei paesi moderni, precisamente dove sono concentrate le possibilità di una trasformazione decisiva della società. Ma tutto il resto è ancora ben più risibile, poiché si tratta dell’esistente e delle sue diverse forme di accettazione. Il termine rivoluzionario è stato disinnescato fino a giungere a designare, come pubblicità, qualsiasi minimo cambiamento nel dettaglio della produzione delle merci incessantemente modificata, perché non c’è più un luogo dove siano espresse le possibilità di un cambiamento centrale desiderabile. Il progetto rivoluzionario, ai giorni nostri, compare dinnanzi alla storia sul banco degli accusati: gli si rimprovera di aver fallito, di aver portato una nuova alienazione. Ciò significa constatare che la società dominante ha saputo difendersi a tutti i livelli della realtà molto meglio di quanto i rivoluzionari avessero saputo prevedere. Non che sia diventata più accettabile. La rivoluzione deve essere reinventata, ecco tutto.
I gruppi che cercano di creare un’organizzazione rivoluzionaria di tipo nuovo, incontrano la più grossa difficoltà nel compito di stabilire nuovi rapporti umani all’interno di una simile organizzazione. La libera costruzione di tutto lo spazio-tempo della vita individuale è una rivendicazione che bisognerà difendere contro ogni sorta di aspirazioni all’armonia dei candidati manager del prossimo ordinamento sociale.
La partecipazione e la creatività delle persone dipendono da un progetto collettivo che riguarda esplicitamente tutti gli aspetti del vissuto. È anche la sola via per “infuriare il popolo” facendo apparire il terribile contrasto fra le costruzioni possibili della vita e la sua miseria presente. Senza la critica della vita quotidiana, l’organizzazione rivoluzionaria non ha futuro.
Quindi qualunque cosa noi possiamo diventare a livello individuale, il nuovo movimento rivoluzionario non si formerà senza tener conto di ciò che abbiamo ricercato insieme, e che può esprimersi come il passaggio della vecchia teoria della rivoluzione permanente ristretta ad una teoria della rivoluzione permanente generalizzata.