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venerdì 5 luglio 2013

I moti del 1960: la strage di Palermo


Lo sciopero generale proclamato dalla sola CGIL su scala nazionale dopo i fatti di Reggio Emilia per l'8 luglio vide confluire nelle piazze di Palermo, di Catania e della Sicilia tutti i lavoratori che avevano animato la giornata di lotta e di sciopero generale del 27 giugno con un elemento nuovo in più, cioè la partecipazione alle manifestazioni del popolo, anche donne e bambini, dei quartieri poveri della città. Per prima volta dalla fine della guerra il sottoproletariato urbano di Palermo e di Catania partecipava ad una manifestazione di lavoratori promossa dalla sinistra sindacale e politica.
Ma l'8 luglio gli ordini del governo centrale erano ancora più rigidi e provocatori del 27 giugno. Gli interventi furono più feroci e mirati. Come a Reggio Emilia si sparò ad altezza d'uomo e le violenze e le provocazioni furono continue e pressanti nel corso di tutto lo sciopero.
A Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla Celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per i fatti di Reggio Emilia.
Come riportano le cronache del tempo (vedi il giornale L'Ora) il corteo operaio in via Maqeda viene scortato a vista da uno schieramento di polizia degno dell'antiterrorismo, con un’impostazione ben precisa: caricare i manifestanti al primo alito di vento. Se necessario anche con l’ausilio delle jeep, creando un sanguinoso effetto bowling dove i birilli erano gli operai. Le cronache del tempo su giornali come ‘L’Ora’ o ‘L’Unità’ parlarono di scene da guerra civile.
Improvvisamente iniziano le cariche. La celere assale brutalmente la folla del corteo con le loro jeep spinte a velocità.
I dimostranti si difendono lanciando sassi, bastoni e quant'altro trovano ma, come nell'Intifada palestinese, certamente non hanno armi tipo fucili, pistole o mitragliette. In breve la zona tra piazza Verdi e piazza Politeama si trasforma in un campo di battaglia. Viene eretta una barricata al centro della strada ma a questo punto i celerini cominciano a sparare sulla folla. Come a Reggio Emilia si sparò ad altezza d'uomo e le violenze e le provocazioni furono continue e pressanti nel corso di tutto lo sciopero. A Catania dopo le cariche della polizia di fronte alla disperata difesa organizzata dai lavoratori e dal popolo contro gli assalti fu brutalmente assassinato Salvatore Novembre, 19 anni, disoccupato, fu massacrato a manganellate. Un testimone ricorda che “mentre Salvatore si accasciava a terra sanguinante e perdeva i sensi, un poliziotto gli sparò addosso ripetutamente. Uno, due, tre colpi… il quarto lo colpì al volto, rendendolo irriconoscibile. Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore venne trascinato da alcuni poliziotti, lasciando una scia di sangue, fino al centro di piazza Stesicoro, affinché fosse di ammonimento per i manifestanti”. La polizia, mitra in mano, impedì a chiunque di portare soccorso al Novembre, che morì dissanguato sul selciato della piazza, dopo una lunga agonia. Successivamente il governo Tambroni dispose una perizia necroscopica al fine di accertare che il proiettile fosse esploso dai manifestanti e non dalla polizia.
A Palermo il primo a essere colpito è Giuseppe Malleo di 16 anni che viene raggiunto al torace da una pallottola di moschetto e subito dopo Andrea Gangitano di 14 anni, ucciso a colpi di mitra e Francesco Vella operaio di 42 anni. La quarta vittima è Rosa La Barbera una donna di 53 anni raggiunta da uno dei tanti colpi sparati all'impazzata dalla polizia mentre si apprestava a chiudere la finestra della sua abitazione di fronte il Teatro Massimo. I feriti sono centinaia, la gran parte dei quali non richiede neanche il pronto soccorso dell'ospedale perché anche lì carabinieri e "celerini" imperversano picchiando e arrestando i feriti. I fermati vengono selvaggiamente malmenati nei locali degli uffici di polizia, 370 dimostranti vengono fermati e 71 di essi arrestati. Così le cosiddette forze dell'ordine ubbidiscono agli orientamenti ed agli incitamenti del governo Tambroni.
Il contegno e la combattività dei lavoratori e del popolo palermitano furono eccezionali, più volte cacciati dal centro storico dalle cariche della polizia e più volte ritornarono. Certo ci furono elementi di provocazione da parte di gruppi organizzati nei quartieri in collegamento con gli organi di pubblica sicurezza secondo vecchie tradizioni dello Stato sabaudo e fascista mantenuto in piedi sotto i ministri dell'interno democristiani. Ci furono anche per la partecipazione di strati popolari, non abituati alla lotta di massa sindacale e democratica, momenti di ingenuità e di spontaneità che noi dirigenti politici e sindacali non riuscimmo ad orientare completamente.
Resta però ferma la responsabilità delle provocazioni e delle aggressioni poliziesche e il grande valore democratico di questa manifestazione e il contributo dato dalla Sicilia alla sconfitta del governo Tambroni. Per la prima volta nella storia recente del nostro paese contemporaneamente si schieravano in lotta i grandi e decisivi centri della classe operaia e della sinistra del nord e del centro dell'Italia e l'estrema periferia del sud: la Sicilia.
Di lì a pochi giorni Tambroni si sarebbe dimesso. Seguono tre diversi procedimenti penali, il più importante dei quali è quello di Palermo che ha inizio il 16 ottobre 1960. Dopo appena 12 giorni di dibattimento (un processo contro uno pseudo politico in media dura 10-15 anni, giusto il tempo per andare in prescrizione, in questo caso ci fu un processo lampo forse l’unico caso di processo lampo in Italia) tutti i 53 imputati vengono condannati a pene che vanno fino a 6 anni e 8 mesi di reclusione. I celerini che hanno sparato e ucciso non solo non vengono incriminati ma non vengono neanche chiamati a deporre in aula come testimoni d'accusa.
C’è una lapide in città che ricorda questo evento, una di quelle che nessuno guarda mai un po’ perché mimetizzatasi con i muri neri per lo smog, un po’ per lassismo storico, un po’ per nascondere quanto accaduto, forse.