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giovedì 25 luglio 2013

29 luglio 1900: Gaetano Bresci uccide il re

Il 21 luglio 1900 il re d'Italia Umberto I raggiunge, come quasi tutte le estati, la sua residenza di Monza, città nella quale vive e si incontra con la sua amante, Eugenia.
Il 29 luglio è una calda domenica in Brianza e il re, dopo aver cenato, esce dalla propria dimora per presenziare ad un evento mondano, la premiazione degli atleti della società di ginnastica Forti e Liberi.
Dopo la premiazione Umberto I monta in carrozza per tornare alla residenza ma, riconoscendo tra la folla che fa ala un ufficiale, si alza in piedi per salutarlo: è in questo momento che viene colpito da tre proiettili di revolver.
Il re era già stato oggetto di due tentativi di attentati negli anni precedenti: il primo a Napoli nel 1878 quando era stato colpito da un colpo di pugnale inferto da Giovanni Passante, disoccupato, ed il secondo nel 1897, quando Pietro Acciarito da Artena, anch'egli disoccupato, aveva cercato di accoltellarlo.
Mentre il re ha già perso conoscenza e la carrozza si avvia velocemente verso a villa reale, un uomo viene immediatamente arrestato in mezzo alla folla, senza opporre alcuna resistenza, e senza fare dichiarazioni: è Gaetano Bresci.
Gaetano Bresci ha 31 anni, è un tessitore di seta nato nel pratese, attivo nel tentativo di rovesciare le miserrime condizioni in cui versano lui e la propria famiglia, nonché tutto il proletariato contadino ed urbano, sin dagli anni dell'adolescenza. Già arrestato e confinato per un anno a Lampedusa in seguito alla partecipazione ad uno sciopero, nel 1897 aveva deciso di abbandonare l'Italia, per trasferirsi in America, dapprima a New York e in seguito a Paterson.
Durante il suo soggiorno in America Gaetano continua però a seguire le vicende politiche della sua terra natale, e in particolare rimane molto colpito dalla durissima repressione messa in atto dal regio esercito contro il popolo che, ormai stremato,aveva assaltato i forni nella Milano del 1898. A seguito di questa insurrezione (la "protesta dello stomaco"), infatti, vi furono più di cento persone uccise e centinaia di feriti, mentre il generale Fiorenzo Bava-Beccaris, al comando dell'operazione, venne insignito della Croce dell'ordine militare dei Savoia.
A tutt'oggi non si sa come e quando sia maturata in Bresci l'idea del regicidio, ma con buona probabilità sono da escludersi le teorie che lo vorrebbero sorteggiato in un gruppo di anarchici americani, così come quelle complottiste sostenute da Giolitti.
Bresci, difeso dall'avvocato Francesco Saverio Merlino, verrà processato per regicidio e condannato all'ergastolo. Il 23 gennaio 1901 verrà trasferito nel carcere di Santo Stefano presso Ventotene, dove gli verrà dato il numero di matricola 515.
Egli indosserà la divisa degli ergastolani, con le mostrine nere che indicano i colpevoli dei delitti più gravi, i piedi saranno legati da spesse catene.
Il 22 maggio 1901 un dottore verrà chiamato nella sua cella per constatarne la morte: la versione ufficiale sarà suicidio, ma le circostanze della sua morte desteranno non poche perplessità. Le voci interne al penitenziario sosterranno che tre guardie avrebbero fatto irruzione nella cella, lo avrebbero immobilizzato con una coperta, e lo avrebbero massacrato di botte (nel gergo carcerario questo si chiama "fare il santantonio").
Un delitto di Stato sarebbe quindi la pena per un delitto contro lo Stato, nonostante la pena di morte fosse stata abolita dal Codice Zanardelli nel 1889.

sabato 13 luglio 2013

11 luglio 1998, il tramonto di Sole.


L’11 luglio scorso è stato il 15° anniversario del suicidio di Maria Soledad Rosas, chiamata semplicemente “Sole”.
La drammatica storia di "Sole, Edoardo Massari detto Baleno e Silvano Pelissero " s'innesca nella lunga storia, non ancora conclusa, della costruzione della linea del TAV.
Fra l'agosto del 1996 ed il gennaio del 1998 in Val Susa si verificarono numerosi atti di sabotaggio, diretti contro centraline elettriche, trivelle, impianti della Sitaf, della Telecom, Omnitel e un ripetitore Mediaset, rivendicati dai fantomatici “Lupi Grigi”.
Questi attentati non hanno mai provocato danni ingenti; unica eccezione il furto di alcune attrezzature dal Municipio di Caprie, seguito da un incendio. L'attentato di Caprie (uno degli 11 comuni che fin dall'inizio si sono opposti all'alta velocità) è l'unico che appare immediatamente non avere nulla a che fare con i sabotaggi avvenuti fino a quel momento, in quanto l'obiettivo non ha nessuna affinità con i precedenti.
I PM Maurizio Laudi e Marcello Tatangelo si concentrano proprio su quest'”attentato”, cercando di addossare la responsabilità ai tre compagni anarchici torinesi e costruendo un vero e proprio “castello accusatorio”, fortemente sostenuto dai mass-media di regime.
Il 5 marzo 1998 Silvano, Baleno e Sole, che convivevano nell'ex obitorio del manicomio di Collegno di Torino, occupato dal giugno 1996, vengono arrestati e posti in isolamento senza che alcuno gli comunichi la gravità delle accuse che pende sul loro capo: associazione sovversiva con finalità di terrorismo, secondo l'art. 270 bis del codice di procedura penale.
Fin dall'inizio le indagini partono dal concetto che i colpevoli sono i tre anarchici ed è quindi necessario solo trovare le prove a loro carico. Nonostante lo smodato uso di intercettazioni ambientali, delle telecamere e delle frequenti perquisizioni, nessuna prova schiacciante viene però effettivamente trovata a carico dei tre. Nonostante il niente in mano ai PM il procedimento continua ad andare avanti, soprattutto "grazie" al sostegno mediatico. Proprio l'opera dei giornalisti si rivelerà decisiva nello screditamento degli anarchici vicini ai tre giovani, alimentando paure e costruendo un processo mediatico in cui la condanna è già scritta.
Sin dal 7 marzo 1998 i quotidiani torinesi escono con titoli altisonanti: «Blitz contro gli eco-terroristi», «I Lupi grigi presi nei centri sociali – Lunga indagine con un infiltrato, sequestrate bombe e micce», «Squatters anarchici con la passione delle armi» (La Stampa), «Fermati tre sovversivi – Una pista sugli attentati anti-Tav in Val Susa» (La Repubblica).
Subito dopo l'arresto di Sole, Baleno e Silvano, un presidio di protesta contro gli arresti e gli sgomberi, davanti al municipio di Torino, è brutalmente caricato dalla polizia. Nel corso degli scontri, volutamente cercati dalle forze dell'ordine, alcune vetrine cadono in frantumi.
E' questo il pretesto che scatena definitivamente i mass-media nella loro opera di demonizzazione degli squatters torinesi (gli italiani imparano proprio in questo periodo a conoscere la parola squatters). Gli anarchici, e gli squatters nello specifico, vengono proposti dai giornalisti (e dal loro codazzo di politicanti, psicologi, sociologi e pseudo studiosi vari) all'immaginario collettivo come teppisti, violenti, disadattati, ecoterroristi, schegge impazzite in balia del disagio giovanile e altre amenità simili.
Il 26 marzo il tribunale respinge ogni istanza di liberazione «in quanto esistono forti contiguità fra i tre indagati e gli autori degli attentati» ed «è elevatissimo il rischio di reiterazione di reati di natura analoga».
All'alba di sabato 28 marzo, secondo la versione ufficiale, Edoardo Massari (Baleno) viene trovato agonizzante, impiccato con le lenzuola alla sua branda del carcere torinese delle Vallette.
Soledad si rende conto di essere vittima di una vera e propria congiura. Il suo stato di prostrazione peggiora dopo la morte di Baleno, con cui aveva iniziato una relazione.
Questa è una sua lettera scritta al movimento anarchico:

«Compagni
la rabbia mi domina in questo momento. Io ho sempre pensato che ognuno è responsabile di quello che fa, però questa volta ci sono dei colpevoli e voglio dire a voce molto alta chi sono stati quelli che hanno ucciso Edo: lo Stato, i giudici, i magistrati, il giornalismo, il T.A.V., la Polizia, il carcere, tutte le leggi, le regole e tutta quella società serva che accetta questo sistema.
Noi abbiamo lottato sempre contro queste imposizioni e' per questo che siamo finiti in galera.
La galera e' un posto di tortura fisica e psichica, qua non si dispone di assolutamente niente, non si può decidere a che ora alzarsi, che cosa mangiare, con chi parlare, chi incontrare, a che ora vedere il sole. Per tutto bisogna fare una "domandina", anche per leggere un libro. Rumore di chiavi, di cancelli che si aprono e si chiudono, voci che non dicono niente, voci che fanno eco in questi corridoi freddi, scarpe di gomma per non fare rumore ed essere spiati nei momenti meno pensati, la luce di una pila che alla sera controlla il tuo sonno, posta controllata, parole vietate.
Tutto un caos, tutto un inferno, tutto la morte.
Così ti ammazzano tutti i giorni, piano piano per farti sentire più dolore, invece Edo ha voluto finire subito con questo male infernale. Almeno lui si e' permesso di avere un ultimo gesto di minima liberà, di decidere lui quando finirla con questa tortura.
Intanto mi castigano e mi mettono in isolamento, questo non solo vuol dire non vedere nessuno, questo vuol dire non essere informata di niente, non avere nulla neanche una coperta, hanno paura che io mi uccida, secondo loro il mio e' un isolamento cautelare, lo fanno per "salvaguardarmi" e così deresponsabilizzarsi se anche io decido di finire con questa tortura. Non mi lasciano piangere in pace, non mi lasciano avere un ultimo incontro con il mio Baleno.
Ho per 24 ore al giorno, un'agente di custodia a non più di 5 metri di distanza.
Dopo quello che e' successo sono venuti i politici dei Verdi a farmi le condoglianze e per tranquillizzarmi non hanno avuto idea migliore che dirmi: "adesso sicuramente tutto si risolverà più in fretta, dopo l'accaduto tutti staranno dietro al processo con maggiore attenzione, magari ti daranno anche gli arresti domiciliari". Dopo questo discorso io ero senza parole, stupita, però ho potuto rispondere se c'è bisogno della morte di una persona per commuovere un pezzo di merda, in questo caso il giudice.
Insisto, in carcere hanno ammazzato altre persone e oggi hanno ucciso Edo, questi terroristi che hanno la licenza di ammazzare.
Io cercherò la forza da qualche parte, non lo so, sinceramente non ho più voglia, però devo continuare, lo farò per la mia dignità e in nome di Edo.
L'unica cosa che mi tranquillizza sapere e' che Edo non soffre più. Protesto, protesto con tanta rabbia e dolore.
Sole

P.S. Se mettermi in carcere vuol dire castigare una persona, mi hanno già castigata con la morte o meglio con l'assassinio di Edo. Oggi ho iniziato lo sciopero della fame, chiedendo la mia libertà e la distruzione di tutta l'istituzione carceraria. La condanna la pagherò tutti i giorni della mia vita.»

Sabato 11 luglio anche Maria Soledad Rosas (Sole) muore suicida impiccandosi con le lenzuola al tubo della doccia nei locali della comunità Sottoiponti di Benevagienna dove era tenuta agli arresti domiciliari.
Dopo il processo di primo grado e il processo d’appello, nel 2002 la Corte di Cassazione di Roma smonta le tesi dei pm torinesi. Non si trattava di un'associazione terroristica, ma di tre persone che al massimo si erano macchiate di reati comuni. Venendo a cadere l'accusa più grave (le finalità eversive e terroristiche dei reati contestati) la Corte d'Appello di Torino riduce la pena per Silvano Pelissero a 3 anni e 10 mesi.
È utile ricordarlo e rimarcarlo. Viviamo tempi bui, in cui, allora come ora, devi stare attento a come ti muovi, a cosa dici, a cosa esterni, pena l’accusa di essere etichettato come terrorista. Tempi in cui, allora come ora, la Procura è decisamente molto solerte contro chi si oppone alla linea inutile.
Viviamo tempi bui, in cui a comandare davvero sono le banche e lo Stato ti toglie sempre più i servizi essenziali, ti costringe a morire di vecchiaia sul lavoro. Ti devasta il territorio e guai, guai se ti ribelli o se solo alzi la voce.
Scriveva Sole, prima di morire: “Ci vogliono morti perché siamo i loro nemici e non sanno cosa farsene di noi perché non siamo i loro schiavi.”

La solidarietà è la tenerezza della sovversione rivoluzionaria!


Mi chiedete: “Cosa dovremmo fare? Come possiamo resistere contro tutta questa eteronomia, controllo, repressione, violenza, considerata normalità? Come possiamo far fronte a tutta la burocrazia, le uniformi e le armi, le mostruosità della tecnologia, le loro leggi e la loro moralità basata sulle costrizioni, colpa e paura?”
Vi rispondo: “Non conosco la soluzione, il modo giusto o la strategia perfetta e neanche penso esista. Ma so che è l’aiuto reciproco, il rispetto, l’amore e la solidarietà che renderanno ancora una volta pericolose e ribelli le nostre relazioni. So che l’unica cosa più forte della nostra urgenza di libertà è l’odio per quelli che ce la rubano! So che non c’è bisogno di alcuna giustificazione per l’insurrezione e non c’è un minuto da perdere! So che prima e adesso ci sono migliaia di motivi per rivoltarsi!”
Solidarietà a Sonja e Christian accusati e detenuti per la loro posizione contro Stato e Giustizia. Accusati per la loro partecipazione alle Cellule Rivoluzionarie (RZ) e le loro battaglie negli anni ’70.
Solidarietà a Sybille, detenuta per lo stesso processo a causa del suo rifiuto di cooperare con le autorità!
Un abbraccio a tutti gli accusati e detenuti per le loro idee e lotte! Un abbraccio a tutti quelli che non svendono o dimenticano le loro idee di una vita libera!
Per una vita libera senza autorità! 
Anarchici!

martedì 9 luglio 2013

Non abbiamo che la rabbia e la dignità.

La rabbia che ci fa inorridire davanti alle immagini di questi giorni in Piazza Taksim, ai barconi stracolmi di donne, uomini e bambini che arrivano su improbabili barche nelle nostre coste, a chi non ci riesce e muore a tredici anni schiacciato dal tir sotto cui si nascondeva.
La rabbia che proviamo di fronte alla guerra dei tiranni e dei "beati" portatori di pace.
La rabbia che ci assale di fronte all'arroganza del potere che vuole distruggere i nostri territori con mega discariche o linee ad alta velocità.
La rabbia che abbiamo provato in tanti per l'omicidio di Alexis in Grecia, cosi come per Carlo Giuliani a Genova, per Abba, per ...
La rabbia che proviamo di fronte al Potere che ci vuole impoverire, sfruttare, controllare.
La rabbia verso chi sgombera spazi sociali e case occupate, agli imbecilli che predicano e praticano l'odio e la violenza.
La rabbia per chi è rinchiuso in un Cie, per chi muore di freddo nelle nostre ricche città o dal fuoco in una baracca.
La dignità è la nostra arma, l'arma di chi in tutto il mondo non si sottomette, non accetta, e cerca di costruire altri cammini.
Partiamo dunque per un viaggio di cui non conosciamo le strade, né immaginiamo le destinazioni.
Un viaggio lungo un anno, ma anche cento, mille, e che durerà un anno e anche cento.
Non sapere le strade che percorreremo non ci fa paura e nemmeno significa non avere nulla negli occhi.
Sono le immagini di Gaza martoriata, dei suoi figli più piccoli massacrati e straziati, ad occupare oggi tutta la nostra visuale.
Partiamo con il cuore stretto da una morsa, quella dell'assurdità di questo mondo ingiusto, orribile. Partiamo sapendo che questo ci resterà dentro, ed è l'unica cosa che sappiamo.
Si può forse portare con sé il dolore come compagno di viaggio? Si può mettersi in cammino con questo fardello che ti pesa e ti schiaccia?
Dovremo imparare a portarlo, impedendo che esso ci inchiodi al suolo, fermi, prostrati.
I bimbi di Gaza, come quel murales di Banksy tracciato sul muro israeliano della vergogna e dell'aphartheid, vogliono solo volare, attaccati ad un pallone che sale verso il cielo.
A loro, ai loro sogni e desideri che qualcuno o qualcosa di mostruoso cerca di rubare, va il nostro pensiero. E se nel percorso sconosciuto in cui ci avventuriamo, la coltre di nebbia, di fumo, di oscurità sarà fitta così tanto da renderci incapaci di proseguire, alzeremo gli occhi, cercando gli occhi che ridono dei bambini di Gaza che volano.



venerdì 5 luglio 2013

I moti del 1960: la strage di Palermo


Lo sciopero generale proclamato dalla sola CGIL su scala nazionale dopo i fatti di Reggio Emilia per l'8 luglio vide confluire nelle piazze di Palermo, di Catania e della Sicilia tutti i lavoratori che avevano animato la giornata di lotta e di sciopero generale del 27 giugno con un elemento nuovo in più, cioè la partecipazione alle manifestazioni del popolo, anche donne e bambini, dei quartieri poveri della città. Per prima volta dalla fine della guerra il sottoproletariato urbano di Palermo e di Catania partecipava ad una manifestazione di lavoratori promossa dalla sinistra sindacale e politica.
Ma l'8 luglio gli ordini del governo centrale erano ancora più rigidi e provocatori del 27 giugno. Gli interventi furono più feroci e mirati. Come a Reggio Emilia si sparò ad altezza d'uomo e le violenze e le provocazioni furono continue e pressanti nel corso di tutto lo sciopero.
A Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla Celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per i fatti di Reggio Emilia.
Come riportano le cronache del tempo (vedi il giornale L'Ora) il corteo operaio in via Maqeda viene scortato a vista da uno schieramento di polizia degno dell'antiterrorismo, con un’impostazione ben precisa: caricare i manifestanti al primo alito di vento. Se necessario anche con l’ausilio delle jeep, creando un sanguinoso effetto bowling dove i birilli erano gli operai. Le cronache del tempo su giornali come ‘L’Ora’ o ‘L’Unità’ parlarono di scene da guerra civile.
Improvvisamente iniziano le cariche. La celere assale brutalmente la folla del corteo con le loro jeep spinte a velocità.
I dimostranti si difendono lanciando sassi, bastoni e quant'altro trovano ma, come nell'Intifada palestinese, certamente non hanno armi tipo fucili, pistole o mitragliette. In breve la zona tra piazza Verdi e piazza Politeama si trasforma in un campo di battaglia. Viene eretta una barricata al centro della strada ma a questo punto i celerini cominciano a sparare sulla folla. Come a Reggio Emilia si sparò ad altezza d'uomo e le violenze e le provocazioni furono continue e pressanti nel corso di tutto lo sciopero. A Catania dopo le cariche della polizia di fronte alla disperata difesa organizzata dai lavoratori e dal popolo contro gli assalti fu brutalmente assassinato Salvatore Novembre, 19 anni, disoccupato, fu massacrato a manganellate. Un testimone ricorda che “mentre Salvatore si accasciava a terra sanguinante e perdeva i sensi, un poliziotto gli sparò addosso ripetutamente. Uno, due, tre colpi… il quarto lo colpì al volto, rendendolo irriconoscibile. Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore venne trascinato da alcuni poliziotti, lasciando una scia di sangue, fino al centro di piazza Stesicoro, affinché fosse di ammonimento per i manifestanti”. La polizia, mitra in mano, impedì a chiunque di portare soccorso al Novembre, che morì dissanguato sul selciato della piazza, dopo una lunga agonia. Successivamente il governo Tambroni dispose una perizia necroscopica al fine di accertare che il proiettile fosse esploso dai manifestanti e non dalla polizia.
A Palermo il primo a essere colpito è Giuseppe Malleo di 16 anni che viene raggiunto al torace da una pallottola di moschetto e subito dopo Andrea Gangitano di 14 anni, ucciso a colpi di mitra e Francesco Vella operaio di 42 anni. La quarta vittima è Rosa La Barbera una donna di 53 anni raggiunta da uno dei tanti colpi sparati all'impazzata dalla polizia mentre si apprestava a chiudere la finestra della sua abitazione di fronte il Teatro Massimo. I feriti sono centinaia, la gran parte dei quali non richiede neanche il pronto soccorso dell'ospedale perché anche lì carabinieri e "celerini" imperversano picchiando e arrestando i feriti. I fermati vengono selvaggiamente malmenati nei locali degli uffici di polizia, 370 dimostranti vengono fermati e 71 di essi arrestati. Così le cosiddette forze dell'ordine ubbidiscono agli orientamenti ed agli incitamenti del governo Tambroni.
Il contegno e la combattività dei lavoratori e del popolo palermitano furono eccezionali, più volte cacciati dal centro storico dalle cariche della polizia e più volte ritornarono. Certo ci furono elementi di provocazione da parte di gruppi organizzati nei quartieri in collegamento con gli organi di pubblica sicurezza secondo vecchie tradizioni dello Stato sabaudo e fascista mantenuto in piedi sotto i ministri dell'interno democristiani. Ci furono anche per la partecipazione di strati popolari, non abituati alla lotta di massa sindacale e democratica, momenti di ingenuità e di spontaneità che noi dirigenti politici e sindacali non riuscimmo ad orientare completamente.
Resta però ferma la responsabilità delle provocazioni e delle aggressioni poliziesche e il grande valore democratico di questa manifestazione e il contributo dato dalla Sicilia alla sconfitta del governo Tambroni. Per la prima volta nella storia recente del nostro paese contemporaneamente si schieravano in lotta i grandi e decisivi centri della classe operaia e della sinistra del nord e del centro dell'Italia e l'estrema periferia del sud: la Sicilia.
Di lì a pochi giorni Tambroni si sarebbe dimesso. Seguono tre diversi procedimenti penali, il più importante dei quali è quello di Palermo che ha inizio il 16 ottobre 1960. Dopo appena 12 giorni di dibattimento (un processo contro uno pseudo politico in media dura 10-15 anni, giusto il tempo per andare in prescrizione, in questo caso ci fu un processo lampo forse l’unico caso di processo lampo in Italia) tutti i 53 imputati vengono condannati a pene che vanno fino a 6 anni e 8 mesi di reclusione. I celerini che hanno sparato e ucciso non solo non vengono incriminati ma non vengono neanche chiamati a deporre in aula come testimoni d'accusa.
C’è una lapide in città che ricorda questo evento, una di quelle che nessuno guarda mai un po’ perché mimetizzatasi con i muri neri per lo smog, un po’ per lassismo storico, un po’ per nascondere quanto accaduto, forse.





I moti del 1960: Genova, Licata, Roma, Reggio Emilia.

Il 1960 fu un anno importante per l’Italia imprenditoriale (boom economico), ma anche l’inizio della crisi politica e sociale del nostro paese. Agli operai, infatti, non era consentito rivendicare i propri diritti attraverso uno Statuto dei Lavoratori. Dal 1955 al 1960 si susseguirono cinque governi, che destabilizzano l’Italia anziché darle equilibrio e forza. Alla disfatta del secondo governo Segni, il Presidente della Repubblica Gronchi nominò Ferdinando Tambroni, come Presidente del Consiglio. Tambroni, democristiano, fu un uomo di secondo piano della DC e fermo sostenitore dell’ordine pubblico. La nomina di Tambroni rallentò le trattative centriste tra i comunisti di Enrico Berlinguer, i socialisti di Pietro Nenni e i democristiani di sinistra di Aldo Moro. Tambroni, grazie all’appoggio dei monarchici e del MSI di Arturo Michelini (insieme ad Almirante fondatore del partito neofascista), ottenne una risicata fiducia alle Camere.
Nell'estate del 1960 la Sicilia era una polveriera sociale e politica animata da grandi lotte di massa. Nelle campagne l'emigrazione e la crisi dei prezzi dei prodotti agricoli creava una situazione di disagio e di opposizione. Nelle grandi città la crisi delle industrie tradizionali, metalmeccaniche e chimiche, e l'espansione della speculazione edilizia creavano elementi di scontento e di rivolta soprattutto negli strati popolari. L'anno precedente si erano svolte le elezioni regionali che avevano segnato una grande affermazione della sinistra e soprattutto dell'Unione Cristiano Sociale di Milazzo che aveva raccolto nelle campagne il disagio dei contadini più agiati e dei piccoli proprietari che rompevano così il blocco agrario CONFIDA-COLDIRETTI e nelle città di Palermo e specialmente di Catania il sottoproletariato dei quartieri storici e popolari che aveva in passato votato per i monarchici e per la chiesa.
Ma il governo regionale formato da socialisti e cristiano sociali e appoggiato dai comunisti era stato abbattuto dopo pochi mesi per il passaggio, attraverso un torbido intreccio di mafia e di servizi segreti, di alcuni elementi dell'Unione Cristiano Sociale al fronte avverso che si esprimeva attraverso un governo regionale presieduto dal barone Maiorana e basato sull'alleanza esplicita tra DC e MS. La Sicilia aveva così il suo Tambroni ante litteram e quindi anche per questo fatto la manovra romana acquisiva in Sicilia un particolare significato.
Lo stato di disagio delle masse si esprimeva in tanti modi.
A Palermo per il 27 giugno era stato proclamato, da CGIL, CISL e UIL, con la partecipazione di associazioni di commercianti ed artigiani, e perfino con l'adesione chiaramente strumentale della CISNAL, uno sciopero generale di tutte le categorie. Il programma di questo sciopero era tra i più avanzati e praticamente rispecchiava la piattaforma elaborata dal PCI, dal PSI e dalla CGIL regionale e palermitana che aveva come suo dirigente ed animatore Pio La Torre. I tentativi da parte della polizia di bloccare lo sciopero e le manifestazioni si svilupparono anche il 27 giugno in combattimenti di strada in cui la "celere" ebbe la peggio perché vide i propri mezzi bloccati dai bidoni della spazzatura messi di traverso mentre la folla reagiva agli attacchi utilizzando il materiale dei cantieri edili delle varie zone. Lo sciopero si concluse in modo vittorioso ed ebbe anche un seguito con fatti significativi di valore politico e sociale.
L’appoggio del MSI si rivelò letale per il governo Tambroni, tanto che, a marzo (due mesi dopo la nomina del nuovo governo), il partito neofascista di Michelini annunciò il suo Congresso Nazionale a Genova, città notoriamente partigiana e medaglia d’oro al valore civile nell’ultima guerra. A presiedere il congresso missino fu l’ex prefetto repubblichino, Emanuele Basile.
Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti "camalli") risalgono dal porto guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. I giovani operai e gli studenti organizzarono dei sit-in di protesta contro lo svolgimento del congresso. Al tentativo di sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell'ordine. Per tutta risposta, il Presidente del Consiglio ordinò al prefetto e al questore di Genova la “linea dura”: aprire il fuoco ad altezza d’uomo contro i manifestanti. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista.
Nei giorni successivi, il fermento popolare, scatenato dall’indignazione per la “linea dura” delle forze dell’ordine, fu soffocato nel sangue, provocando 11 morti e centinaia di feriti.
Genova è solo l’inizio.
Dopo i “fatti di Genova” seguono quelli di Licata, in provincia di Agrigento. A Licata il 5 luglio si organizza un grande sciopero generale, la situazione della città è insostenibile. La fabbrica della Montecatini, unica industria, è sul piede di mobilitazione, la ferrovia è stato soppressa, le campagne sono in crisi, la disoccupazione cresce e così pure l'emigrazione. Lo sciopero è proclamato da tutti i sindacati, come altre volte, ma questa volta l'atteggiamento dello Stato è diverso e l'intervento della polizia è violento e inusitato. La popolazione reagisce, e durante una manifestazione di braccianti ed operai la polizia ferì quattro persone e uccise Vincenzo Napoli, 24 anni, che rivendicava solo pane e terra. Dopo questo fatto la lotta si allarga e la popolazione continua per tutta la giornata a battersi contro la provocazione poliziesca.
Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall'olimpionico Raimondo d'Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.
Dopo i “fatti di Licata” la sera del 6 luglio la CGIL di Reggio Emilia, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l'unico spazio consentito - la Sala Verdi, 600 posti - è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica. La strage di Reggio Emilia divenne il simbolo della lotta operaia del 1960. Quel maledetto 7 luglio, cinque operai reggiani, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli, tutti iscritti al PCI, furono uccisi dalle forze dell’ordine. Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d'ora, contro gli inermi manifestanti.

mercoledì 3 luglio 2013

Di Stato si muore

Palermo, 8 luglio 1960-2013
Nei primi anni ’60, in Italia, i flussi migratori interni, il passaggio dell’industria alla produzione di massa, il veloce sviluppo dell’economia del dopoguerra creano scompensi difficili da arginare.
Si fa strada la crisi della rappresentanza di partiti e sindacati davanti al forte malcontento della classe lavoratrice che deve fare i conti con la chiusura delle fabbriche e con molti licenziamenti.
In quegli anni, lo stato italiano è privo di una reale cultura democratica. Prefetti, funzionari di polizia e anche molti esponenti politici sono le stesse persone che avevano fatto la loro fortuna durante il fascismo. Le istituzioni non si sono mai veramente defascistizzate anche a causa dell’opportunismo della sinistra parlamentare costituita da Partito Comunista e Partito Socialista.
Dall’aprile 1960 c’è il governo Tambroni, formato dalla sola Democrazia Cristiana e appoggiato dai voti determinanti dei fascisti del Movimento Sociale Italiano (MSI). È la prima volta che succede, da quando il fascismo è caduto ed è nata la Repubblica.
L’8 luglio è sciopero generale. Pochi giorni prima, l’insurrezione popolare di Genova aveva impedito che in quella città, medaglia d’oro della Resistenza, si svolgesse il VI Congresso nazionale del MSI. In tutta Italia si tengono manifestazioni operaie e antifasciste in cui la polizia spara e ammazza: Reggio Emilia, Roma, Catania, Licata, Palermo.
A Palermo il corteo operaio è blindato da uno schieramento di polizia imponente. L’ordine è di disperdere la folla a qualsiasi costo. Improvvisamente iniziano le cariche. La celere assale brutalmente il corteo con le jeep spinte a velocità.
I manifestanti si difendono lanciando sassi, bastoni e quello che trovano. La zona fra il Teatro Massimo e piazza Politeama si trasforma in un campo di battaglia. Viene eretta una barricata al centro della strada, ma a questo punto i celerini cominciano a sparare sulla folla.
Muoiono ammazzati dalla polizia:
Giuseppe Malleo, 16 anni
Andrea Gangitano, 14 anni
Francesco Vella operaio di 42 anni
Rosa La Barbera, 53 anni
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza, i fascisti sono saldamente al timone delle istituzioni.
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza le forze di polizia picchiano e ammazzano impunemente non solo nelle manifestazioni, ma anche per le strade e nelle carceri: da Carlo Giuliani a Federico Aldrovandi, da Stefano Cucchi a Marcello Lonzi, ecc.
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza, “democrazia” è una parola vuota che racconta un paese mortificato dalla sua classe politica, terrorizzato da politiche autoritarie e razziste, soffocato da una crisi economica provocata dai padroni e dal capitalismo.
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza, il ricordo di chi è morto sulla strada della libertà serve a rinnovare il nostro impegno a resistere contro ogni fascismo e a rilanciare la lotta per una società veramente libera dalla brutalità dello stato e del capitale.