..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 20 dicembre 2013

Lampedusa. Una devastante normalità

Il cortile di una prigione, i reclusi che si devono spogliare davanti a tutti, irrorati con un tubo di benzoato di benzina. Le immagini trasmesse in prima serata dal TG2 hanno mostrato una realtà che non ha nulla di eccezionale. Per anni dai CIE e dai CARA, uscivano furtivamente riprese sfocate della brutalità della polizia, degli insulti, botte umiliazioni inflitti a immigrati, profughi, richiedenti asilo. Una devastante normalità.
I politici hanno fatto la loro parte mostrandosi indignati e pronti a reagire. La commissaria UE Cecilia Maelstrom ha minacciato di far perdere all’Italia il sostegno europeo.
Inevitabilmente ci si chiede perché proprio oggi la quotidianità dei CIE e dei CARA irrompe nelle case degli italiani all’ora di cena. Perché ora? Cosa sta cambiando? Bisogna credere a Letta, che sostiene il superamento della Turco-Napolitano-Bossi-Fini?
La situzione nei CIE e nei Cara del nostro paese è insostenibile da anni. Due giorni fa un immigrato eritreo, rinchiuso nel CARA di Mineo, un limbo in cui sono ammassati e dimenticati migliaia di richiedenti asilo, si è tolto la vita. Pochi giorni prima al CARA di Bari è nuovamente scoppiata la rivolta. La situazione dei CIE è nota: la metà sono chiusi, gli altri sono in buona parte inagibili. Le continue rivolte degli immigrati hanno demolito, pezzo a pezzo, i centri italiani.
Se si osserva con attenzione l’azione concreta del governo, al di là delle dichiarazioni di facciata, la trama sottesa a quelle immagini esposte allo sguardo di tutti, rivelano una realtà ben più cruda dell’agghiacciante metafora concentrazionaria che evocano nell’immediato.
Oggi il governo ha approvato il decreto svuota-carceri, l’ennesimo pannicello caldo sulla piaga purulenta delle carceri italiane.
Tra i provvedimenti adottati la possibilità di far scontare agli stranieri gli ultimi due anni di detenzione nei paesi di origine. Un modo brillante – sempre che l’Italia riesca a stipulare accordi soddisfacenti con i paesi d’origine – per ridurre il numero dei detenuti ed espellerli senza passare dal CIE. Una vecchia proposta dellla sinistra perbene, che ora potrebbe trovare applicazione.
Se a questo si aggiunge una politica di accordi bilaterali con i paesi africani per una gestione in loco della reclusione e del controllo, il gioco è fatto. Il governo potrebbe ripulirsi l’immagine, riducendo la detenzione nei CIE e applicando in modo meno restrittivo la direttiva europea sui rimpatri sì da tenere aperte poche strutture. Umane, pulite tranquille. Il lavoro sporco, i corpi violati, la dignità calpestata trasferiti altrove, appaltati ad altri.
Non per caso, il governo Letta, non solo ha confermato il trattato italo-libico che dal 2009 sino alla guerra del 2011 aveva garantito la chiusura della rotta tra i porti libici e la Sicilia, ma lo ha di recente rinforzato.
Il 29 novembre il ministro della difesa Mario Mauro e il suo omologo libico Al-Thinni hanno sottoscritto un accordo per “rafforzare la cooperazione tra i due Paesi”.
L’intesa, spiega una nota della Difesa, riguarda “l’impiego di mezzi aerei italiani a pilotaggio remoto in missioni a supporto delle autorità libiche per le attività di controllo del confine sud del Paese”. L’altro riguarda l’addestramento di personale libico”. Potrà essere effettuato in Italia o Libia e “migliorando la sicurezza comune contribuirà alla pace e alla stabilità internazionale”.
Droni italiani a guardia della frontiera sud della Libia, militari libici a bordo delle unità navali italiane impegnate nell’operazione “Mare Nostrum”.
Il fronte delle guerra ai poveri si sposta ma non è meno feroce.

martedì 17 dicembre 2013

Giuseppe Pinelli è stato assassinato



Tratto da Umanità Nova 2 ottobre 1971 
di Vincenzo Nardella

Il nuovo risvolto del così detto «caso Pinelli», ha avuto l’approvazione quasi incondizionata di larghi ceti della popolazione italiana. Grosso modo era proprio questo lo scopo al quale tendeva, con nuova mossa giudiziaria certa parte di magistratura.
Gli antefatti sono noti, ma vale la pena di rielencarli.
Il 27 dicembre 1969, Umanità Nova smentiva la versione ufficiale che voleva far credere al suicidio di Pinelli.
Nè polizia, nè magistratu­ra, si sono mai sognati di rispondere ad Uma­nità Nova.
Il 31 gennaio 1970, Lotta Continua pubblica­va la sua prima vignet­ta con Calabresi in ver­sione di assassino. Do­vevano passare otto me­si prima che Calabresi — visto di volta in vol­ta come uccisore di vec­chietti nei tram, di alle­natore di paracadutisti da lanciare dalle fine­stre, di precoce assassi­no di bambole nella sua lontana infanzia, — si rendesse conto che l’uni­ca strada che la legge borghese gli offrisse per rispondere agli attacchi dei periodici di sinistra, era purtroppo ricorrere all’aiuto della giustizia borghese. Anche se ne a­vesse avuto l’autorizzazione, erano infatti di­ventati decisamente trop­pi i compagni che ave­vano acquisito il diritto ad essere suicidati come Pinelli.
Il 29 febbraio 1970 nell’’aula della corte di as­sise di Milano nella qua­le si sta celebrando il processo contro il compa­gno di sinistra Pier Giorgio Bellocchio, viene cantata la «Ballata di Pinelli». La polizia servendosi dei suoi ar­chivi politici, identifica e denuncia ventisette com­pagni. Il processo si svolge per direttissima e la magistratura si vede costretta ad assolvere gli accusati dichiarando implicitamente, nella sua sentenza, che era per­messo e perfettamen­te legale dare dell’assas­sino a Calabresi, e ciò per evitare che in una causa contro i 27 compa­gni il Calabresi fosse co­stretto a salire sul banco degli accusati e correre il rischio di venire ufficialmente riconosciu­to, anche da un tribu­nale borghese, come lo assassino di Pinelli.
Il 4 aprile 1970, L’A­vanti avanza l’ipotesi che Pinelli sia stato ucciso da un colpo di karatè. Negli ambienti della ma­gistratura, della polizia, e dei vari ministeri in­teressati, regna il silen­zio più assoluto, silenzio che fino ad ora non ha mai subito una sola pausa.
Il 7 giugno 1971, la prima sezione penale della corte di appello di Milano, accetta la ricusazione del giudice Biotti richiesta dalla difesa di Calabresi. La ricusazione ottiene un unico scopo: evitare la riesumazione della salma di Giuseppe Pinelli ed affossare così ogni tenta­tivo di procedimento contro Calabresi.
Il 24 giugno 1971, Licia Pinelli presenta denuncia contro tutti i poliziotti mi­lanesi presenti nella famosa stanza al quarto piano della questura mi­lanese nella nottedal 15 al 16 dicembre. La de­nuncia è per « assassi­nio volontario».
Il procuratore genera­le della repubblica di Mi­lano, Bianchi d’Espinosa, infrangendo una prassi che risale ai tempi um­bertini, riceve di perso­na Licia Pinelli e la stampa borghese può lanciarsi nelle descrizio­ni sdolcinate del «buon giudice» il quale ascol­ta la sconsolata vedova. Sembra di assistere alle udienze che il vescovo di Roma o Saragat conce­dono ai terremotati della Valle del Belice promet­tendo loro dei miracoli che nessuno si è mai sognato di program­mare.
Ai primi di agosto Bianchi d’Espinosa va in ferie, ed il 24 agosto la procura generale della repubblica di Milano, no­tifica a Calabresi la pos­sibilità che contro di lui venga elevata l’accusa di omicidio colposo. In parole povere a Cala­bresi si fa colpa di aver permesso che Pinelli si suicidasse. Del pericolo che anche Allegra ven­ga incriminato, è meglio non parlarne. Allegra in­fatti, corre il rischio di venir incriminato per a­ver fermato illegalmente Pinelli.
Si è mai visto in Ita­lia un poliziotto che fer­ma illegalmente qual­cuno?
I carabinieri di Ber­gamo che avevano fer­mato illegalmente, e massacrato di botte non una, ma una ventina di persone, non hanno per­so un solo giorno di sti­pendio.
Allegra che è accusa­to di aver fermato ille­galmente una persona so­la, se dovesse venir ri­conosciuto colpevole, ver­rebbe certamente insigni­to di qualche onorificen­za repubblicana.
Negli ultimi giorni si è saputo anche, che la procura generale della repubblica di Milano a­vrebbe intenzione di rie­sumare la salma di Pi­nelli.
Le notizie al riguardo sono molto incerte.
Ai primi di agosto si trovava in ferie il procuratore generale, adesso è in ferie il suo sostituto, e prima che tutti abbiano goduto del loro meritato riposo, passerà ancora del tempo.
Sembra in ogni caso che la riesumazione si farà, ed è altrettanto da­to per scorato che a tale riesumazione potranno partecipare i periti di parte.
Tutto infatti è stato programmato in manie­ra perfetta. La stampa borghese deve essere messa nelle condizioni di poter strombazzare che anche le formalità sono state questa volta rispet­tate in tutto.
C’è una piccola cosa che in tutto questo affa­re non torna.
Quando il magistrato Caizzi decise di far eseguire 1′esame peritale della salma di Pinelli, egli
disse ai periti che era interessato a sapere unicamente «se le ferite riportate da Pinelli – nel famoso volo dalla finestra del quarto piani della questura milanese – potevano essere attribuite anche a suicidio».
Bianchi d’Espinosa, quando si è trovata la scomoda denuncia di Licia Pinelli fra le mani, poteva prendere tale de­nuncia e gettarla nel ce­stino della carta straccia.
Un tale eventuale mo­do di agire non rientra­va nei suoi doveri ma rientrava però nei suoi diritti.
Cestinando la denuncia di Licia Pinelli, Bianchi d’Espinosa si sarebbe pe­rò tirato addosso, immediatamente, gli attacchi di tutta la stampa della sinistra extra parlamen­tare italiana, e gli attacchi anche di certa stam­pa che ogni tanto scopre di trovarsi quasi a si­nistra.
Cestinare la denuncia presentata da Licia Pi­nelli, sarebbe stato il peggior modo per di­fendere Calabresi, Gui­da Allegra, e tutto il si­stema che a tali esseri permette di prosperare allegramente, e di fare anche carriera.
Cestinare la denuncia presentata da Licia Pinelli, sarebbe equivalso a dichiarare in modo sfacciato che certi assas­sini non si toccano, in nessun modo.
Non c’è nulla che in­segni che il sistema deb­ba, necessariamente, es­sere sfacciato.
Bianchi d’Espinosa ha ritenuto più utile, più proficuo, più saggio, ri­spolverare la prassi già seguita da Caizzi, ed ora si è messo a scoprire gli stessi testimoni già sco­perti da Amati. Poliziotti di ogni grado e estrazione, stanno facendo la coda negli uffici della procura generale di Milano per descrivere le varie fasi di mania suicida alla quale Pinelli andò improvvisamente soggetto.
Fra qualche mese, quando il quadro si sarà avvicinato di molto a quello magistralmen­te descritto da A­mati nella sua sentenza di archiviazione, verrà finalmente riesumato il corpo di Pinelli, ed ai periti verrà chiesto di specificare se le ferite riportate da Pinelli possono essere state causa­te anche da caduta per suicidio.
Dopo di che, con sod­disfazione di tutti, il ca­so Pinelli verrà definiti­vamente affossato.
Il tribunale che dovrà decidere nel processo Ca­labresi-Lotta Continua non permetterà più nessun’altra riesumazione.
Una terza perizia infat­ti, dopo l’illuminata sen­tenza della procura gene­rale della repubblica, andrebbe contro ogni buon senso.
Tutti avrebbero il dove­re di ritenersi soddisfat­ti.
Bisogna dare atto alla Procura generale della repubblica di Milano di non aver atteso che gior­nali ed agenzie di infor­mazione scioperassero per rendere di pubblico dominio le decisioni tan­to coraggiosamente pre­se. A tali meschini sot­terfugi erano ricorsi A­mati e Caizzi, non vi ha fatto ricorso Bianchi d’Espinosa.
Di una cosa però si stanno tutti lentamente e volutamente dimentican­do.
La denuncia che Licia Pinelli ha consegnato nelle mani di Bianchi d’Espinosa, è di assassinio volontario e non di assassinio colposo.
Come dobbiamo dirlo?
In quali forme dobbiamo spiegarlo?
In faccia a chi dobbiamo urlarlo?
Giuseppe Pinelli è stato assassinato.






domenica 15 dicembre 2013

Pinelli, 15 dicembre 1969 … Non dimentichiamolo!



Ci sono vicende di cui si è parlato talmente tanto da crederle «esaurite»; e che hanno segnato una generazione al punto da risultare estranee - o persino fastidiose - a chiunque non le abbia vissute in presa diretta. Di tutto ciò che ruota attorno alla morte di Giuseppe Pinelli - dalla strage di piazza Fontana all'uccisione del commissario Calabresi - supponiamo di conoscere tutto. Tutto, tranne una verità giudiziaria che sembra essere stata possibile solo per le sentenze che hanno condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri su indicazione di Leonardo Marino. In realtà il rischio è di aver dimenticato quasi tutto e di non riuscire più a comunicare alcunché a chi da quelle vicende non è stato attraversato.
Giuseppe Pinelli è morto la sera del 15 dicembre 1969, precipitando da una finestra del quarto piano della questura di Milano. In quel luogo vi era arrivato tre giorni prima, col suo motorino, per un «colloquio informale», presto diventato interrogatorio di ora in ora sempre più pressante. Da «persona informata» a indiziato cui viene negato il sonno, a corresponsabile della strage del 12 dicembre, quella che pose fine all'innocenza del movimento nato nel '68, quella che - secondo le autorità del tempo - « era del tutto coerente con lo spirito e la tradizione anarchica». Fu per «vendicare» il ferroviere anarchico (o «fare giustizia») che tre anni dopo Luigi Calabresi venne ucciso.
Tutto questo è noto e anche un ventenne di oggi lo sa (o può saperlo facilmente). Ciò che è andato un po' perso o che in molti non hanno mai saputo è il peso di queste vicende, il loro contesto, persino il senso delle parole spese allora. E un'infinita serie di «particolari» sulle inchieste svolte attorno alla morte di Pinelli che dicono moltissime cose sul rapporto tra i poteri in questo paese (quelli palesi - giudiziario, esecutivo, legislativo - e quelli occulti). E, forse rafforzano la convinzione che nessuna giustizia sia possibile in Italia quando di mezzo ci sono la politica e i suoi manovratori.
La vita di Giuseppe Pinelli finì attraverso una finestra, perché la strage doveva essere anarchica, perché il mostro-Valpreda era pronto per essere sbattuto in prima pagina, perché la politica romana pretendeva i colpevoli e prescindere dai fatti. Se piazza Fontana è il peggior trauma della storia repubblicana, la morte di Pinelli ne è il corollario: i due misfatti aprono una scia giudiziaria nutrita di falsità, approssimazioni, meschinità, bassezze. Sono le famose «deviazioni» che diventano il culto di una classe dirigente crudele e violenta quanto cialtrona. E se i processi per la strage alla Banca dell'agricoltura si susseguono in un progressivo reciproco annullarsi, se la pista anarchica si sgonfia dopo qualche anno ed emerge la trama nera (impastata con quella di stato), le indagini e le udienze per la morte di Pinelli rivelano ricostruzioni contraddittorie e farsesche (Dario Fo ne trarrà la memorabile Morte accidentale di un anarchico), per approdare al consueto nulla di fatto. In cui l'unica certezza - una trama che si dispiega fino a oggi - è che le questure sono tra i luoghi meno sicuri per un cittadino italiano. Ma in cui si svela anche quel bassissimo profilo di una classe dirigente per cui lo stato è principalmente un luogo d'interesse privato, un'entità tenuta in piedi da manovre di ogni tipo pur di garantire l'ordine e gli interessi costituiti. Anche violando le leggi dello stato.


venerdì 6 dicembre 2013

È morto Nelson Mandela, il padre di tutti gli uomini liberi!

Nelson Mandela, la leggenda che ha sconfitto l’apartheid, è morto a 95 anni per entrare dritto nella storia. Era da tempo che non si vedeva più, che l’uomo stimato anche dai nemici non parlava nelle manifestazioni pubbliche e dagli schermi Tv. Ma per i molti che, come me, hanno festeggiato la fine del razzismo in Sud Africa e per quelli che hanno seguito la sua storia fin dal tempo dei ghetti, del massacro a Soweto nel 1976, delle lotte dell’African National Congress, l’immagine di Mandela è impossibile da cancellare. Icona di un intero popolo che ha seguito con il fiato sospeso i suoi ultimi mesi, punteggiati da quattro ricoveri in ospedale dovuti a infezioni polmonari, conseguenze della turbercolosi contratta nei lunghi anni di prigione a Robben Island.
Mandela è stato il simbolo dell’ultima lotta dell’Africa nera contro l’estremo baluardo della dominazione bianca nel continente. Un uomo cresciuto nello spietato regime dell’apartheid razzista che oppresse il Sudafrica dal 1948 al 1994; un leader che ha abbracciato e guidato la lotta armata senza mai rinnegarla, ha trascorso quasi un terzo della vita in carcere e ne è uscito come un “Gandhi nero”, che con il suo messaggio di perdono e riconciliazione ha saputo trattenere il suo Paese dal precipitare in un temuto baratro di vendetta e di sangue.
Nel 1961 fondò il braccio armato dell’Anc, l’MK (Umkhonto we Sizwe, “Lancia della Nazione”), dedito ad azioni di sabotaggio, piani di guerriglia, addestramento paramilitare. Nel 1962 venne arrestato e condannato a 5 anni di carcere per attività sovversive ed espatrio illegale al rientro da una lunga missione in Africa e Europa. Nel 1964 fu condannato ai lavori forzati a vita al processo di Rivonia, dal nome della località dove l’anno prima l’intero stato maggiore dell’Anc era stato catturato in una retata della polizia. Dal banco degli imputati, Mandela pronunciò un celebre discorso in difesa del diritto degli oppressi alla lotta armata come ultima risorsa contro la violenza degli oppressori. Proclamò però anche il suo ideale di società non razzista con uguali diritti per bianchi e neri. Un ideale per cui proclama di essere pronto a morire. Venne trasferito nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, al largo di Cape Town, dove passò 18 dei suoi 27 anni di prigione.
Nel 1985 il presidente P. Botha gli offrì la libertà in cambio alla rinuncia incondizionata alla violenza. Mandela rifiutò, tuttavia iniziarono sporadici contatti con emissari del regime. Nel 1988 fu trasferito nella prigione di Victor Verster, a nord di Cape Town, dove le condizioni di detenzione migliorano. Nel 1989 Botha venne sostituito da Frederik de Klerk, che il 2 febbraio 1990 annunciò la liberazione di Mandela. L’11 febbraio una folla immensa accolse il leader, che si presentò al mondo con un discorso che resterà nella storia, offrendo perdono e riconciliazione all’impaurita minoranza bianca. Mandela fu eletto presidente dell’Anc, iniziò un difficile periodo di negoziato col governo di de Klerk, che proseguì per quattro anni. Tentativi eversivi di gruppi di estrema destra, sanguinose violenze tribali minacciarono la strategia di riconciliazione di Madiba, come ormai tutti chiamavano Mandela (titolo onorifico del suo clan). Nel 1993 ricevertte il Nobel per la Pace insieme a De Klerk e nel novembre 2009, l’Onu proclamerò il 18 luglio “Mandela Day”. Il 27 aprile 1994, alla fine, si vota. L’Anc vince col 62% le prime elezioni multirazziali nella storia del Paese, Mandela è il primo presidente nero del Sudafrica. De Klerk è vicepresidente. Al termine del mandato rifiuta di candidarsi di nuovo. Dopo il 1999 l’anziano leader continua per qualche anno a spendere le sue energie e il suo nome per numerose cause umanitarie.
 

Di seguito il celebre discorso pronunciato a Pretoria il 10 maggio 1994, quando dopo 27 anni di prigionia, l'elezione di Mandela segna la fine dell'apartheid.

«Oggi, tutti noi, con la nostra presenza qui e con le celebrazioni in altre parti del nostro paese e del mondo, conferiamo gloria alla neonata speranza di libertà. Siamo appena usciti dall'esperienza di una catastrofe straordinaria dell'uomo sull'uomo durata troppo a lungo, oggi qui deve nascere una società a cui tutta l'umanità guarderà e questo ci renderà orgogliosi.
I nostri atti quotidiani devono produrre una realtà del Sud Africa capace di rafforzare la nostra umanità, la fede nella giustizia, di rafforzare la nostra fiducia nella nobiltà dell'animo umano e sostenere tutte le nostre speranze per una vita gloriosa per tutti.
Tutto questo lo dobbiamo a noi stessi  ma anche per i popoli del mondo che sono così ben rappresentati qui oggi. Per i miei connazionali, non ho esitazione a dire che ognuno di noi è intimamente legato al suolo di questo bellissimo paese come lo sono gli alberi di jacaranda di Pretoria e le mimose del Bushveld.
Ogni volta che uno di noi tocca il suolo di questa terra sentiamo un senso di rinnovamento personale. L'umore cambia cambia una nazione come il clima cambia le stagioni.
Siamo mossi da un senso di gioia e di euforia quando l'erba diventa verde e il fiore fiorisce.
Tale unità spirituale e fisica che tutti noi condividiamo con questa patria comune, spiega la profondità del dolore che tutti noi abbiamo sentito nei nostri cuori quando ci siamo visti strappare il nostro paese a causa di  un conflitto terribile, che, come abbiamo visto, ci ha causato diprezzo, messo fuori legge e isolato dai popoli del mondo, proprio perché il Sud Africa era diventata la base universale della perniciosa ideologia e la pratica del razzismo e di oppressione razziale.
Noi, il popolo del Sud Africa, oggi siamo soddisfatti che l'umanità ci ha riportato indietro, nel suo seno, che noi, che eranamo fuorilegge sino a non molto tempo fa, oggi abbiamo avuto il raro privilegio di essere ospiti per le nazioni del mondo qui sul nostro suolo.
Ringraziamo tutti i nostri illustri ospiti internazionali per essere venuti a prendere possesso, con la gente del nostro paese, di ciò che è, dopo tutto, una vittoria comune per la giustizia, la pace, la dignità umana.
Siamo certi che continuerete a stare da noi, come noi ad affrontare le sfide della costruzione della pace, prosperità, combattendo il sessismo, il razzismo e la non-democrazia.
Apprezziamo profondamente il ruolo che il nostro popolo e i politici democratici, religiosi, donne, giovani, imprese, capi tradizionali e tuttii hanno svolto perarrivare a questa conclusione. Non ultimo tra questi è il mio secondo vice Presidente, l'Onorevole FW de Klerk.
Vorremmo anche rendere omaggio alle nostre forze di sicurezza, iper il ruolo importante che hanno svolto nel garantire le nostre prime elezioni democratiche e la transizione verso la democrazia, mettendole al riparo da forze ancora assetate di sangue che ancora non si rassegnano.
Il tempo per la guarigione delle ferite è venuto. Il momento di colmare gli abissi che ci dividono è venuto. Il tempo di costruire è su di noi, è il nostro tempo, la nostra ora.
Abbiamo, finalmente, raggiunto la nostra emancipazione politica. Ci impegniamo a liberare tutto il nostro popolo dalla schiavitù continua della povertà, della privazione, della sofferenza, della discriminazione di genere e altro.
Siamo riusciti a compiere i nostri ultimi passi verso la libertà in condizioni di relativa pace. Ci impegniamo per la costruzione di una pace intera, giusta e duratura.
Abbiamo trionfato nel tentativo di impiantare dei semi di speranza nel cuore di milioni di nostri cittadini. Oggi entriamo nel patto che noi costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, bianchi e neri, saranno in grado di camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana - una nazione arcobaleno in pace con se stessa e il mondo.
Come segno del suo impegno per il rinnovamento del nostro paese, il nuovo governo provvisorio di unità nazionale saprà, in via d'urgenza, affrontare la questione della amnistia per la nostra gente che attualmente sta scontando pene detentive.
Dedichiamo questa giornata a tutti gli eroi e le eroine di questo paese, per aver sacrificato la loro vita in molti modi perchè potessimo tornare ad essere liberi, e al resto del mondo che ci ha accompagnato in questo cammino.
I loro sogni sono diventati realtà. La libertà è la loro ricompensa.
L'abbiamo capito ora che non vi è nessuna strada facile per la libertà.
Lo sappiamo bene che nessuno di noi da solo può farcela e avere successo.
Dobbiamo quindi agire insieme come un popolo unito, per la riconciliazione nazionale, per la costruzione della nazione, per la nascita di un nuovo mondo.
Fa che ci sia giustizia per tutti.
Ci sia pace per tutti.
Che ci sia di lavoro, pane, acqua e sale per tutti.
Lasciate ogni sapere saputo e sappiate che ogni corpo, ogni mente e ogni anima sono stati liberati per soddisfare se stessi e per la felicità di ciascuno.
Mai, mai, mai e di nuovo sin questa bellissima terra conosceremo di nuovo l'esperienza dell'oppressione di uno sull'altro, mai più dovremo subire l'umiliazione di essere la puzzola del mondo.
Lasciate che il regno di libertà.
Il sole non sia mai fissato su un risultato così glorioso e umano!
Dio ci benedica e benedica la nostra terra.»


“Ho combattuto con grande forza contro la dominazione dei bianchi.
 Ho combattuto con grande forza contro la dominazione dei neri.
 Ho nel cuore l’idea di un nuovo Sud Africa nel quale tutti i sudafricani sono uguali”
Nelson Mandela

Hamba kahle, Enkosi Madiba!

giovedì 5 dicembre 2013

La libertà di stampa

La libertà di stampa è stata e continua ad essere un’arma contro tutte le tirannie.
L’esercizio di tale libertà è oggi snaturato in modo particolare dai progressi tecnici della manipolazione di massa, della pubblicità, della propaganda, della comunicazione, dell’informazione, della spettacolarizzazione del vissuto, che mirano ad assettare al potere del denaro e al denaro del potere una coscienza svilita dalla paura e un pensiero votato all’indigenza e all’autocensura. Può essere restaurato soltanto dalla lotta per una società più umana.
Nato dal libero scambio e dalla libera circolazione dei beni e delle persone, la libertà d’espressione è oggi minacciata dallo stesso spirito mercantile che aveva presieduto alla sua nascita. Ciò che ieri l’apriva, oggi, a mano a mano che il cerchio del profitto asserraglia il mondo la chiude.
La lotta contro la tirannia, punto di forza della libertà di parola e di pensiero, è un’illusione se il cittadino non impara a individuare e a distinguere, nelle informazioni che ogni giorno gli bombardano occhi e orecchie, a quali intrighi d’interessi obbediscono o, quantomeno, come sono ordinate, governate, deformate.
Non possiamo ignorare che, seppure riversate alla rinfusa, esse ci vengono ammannite in un imballaggio mediatico. Occorre toglierle dall’involucro, vagliarle così come si scartano e si esaminano quei prodotti di consumo che a volte sono stati, che sono spesso e diventeranno rapidamente spazzatura. Infatti, una una volta effettuata la scelta, non c’è cosa sia che susciti attrazione, disgusto o indifferenza che non possa essere convertita, riciclata, trasformata per servire al benessere individuale e collettivo.
La libertà illimitata d’espressione non è un dato di fatto ma una continua conquista, che l’obbligo dell’obbedienza non ha molto favorito fino a oggi. Non esiste un uso buono o cattivo della libertà d’espressione, esiste soltanto un uso insufficiente di essa.

venerdì 29 novembre 2013

Non tutti sono disposti a salire su quel treno

I padroni del cemento e dei camion, gli specialisti della menzogna e della repressione sono al lavoro, in val di Susa, nel Veneto, in Emilia, Toscana, fino a Napoli. Ognuno a proprio modo si sta dando da fare, questa volta con il TAV, a piegare la nostra vita ai loro criteri. In nome di una crescita economica presentata come indispensabile (e mai raggiunta), di un’Economia a cui bisogna sacrificare tutte le energie umane vogliono, nel caso del Treno ad Alta Velocità farci credere che la posta di tonnellate di cemento, il livellamento di colline, le gallerie nelle montagne, la distruzione irreversibile del territorio in cui viviamo sia un bene collettivo o il male minore da accettare. Una menzogna evidente, incapace di dissimulare gli affari e gli interessi organizzati di quanti nel business sono coinvolti. La gente sente che si sta compiendo un’altra spoliazione, un altro grave attentato alla propria vita.
L’evidenza del disastro di cui il TAV è un tassello incomincia a far agire le persone, ad allargare il numero di quanti iniziano a rovesciare l’ansia sterile e sventurata per un proprio futuro di senzalavoro, senza merce, senza spettacolo, in riappropriazione del presente.
Questo fa paura. E agiscono cercando di sterilizzare, di recuperarci alle loro miserie, di dividere, di confondere e di reprimere.
Per il TAV cercano di occultare i disastri che stanno facendo e le rapine che hanno già fatto con le tangenti, uccidendo e imprigionando, spingendo i loro mezzi d’informazione a montare campagne criminalizzatrici per nascondere il rumore delle ruspe; incriminano e imprigionano per reclamare la militarizzazione dei territori e impedire ogni opposizione.
Il TAV è l’ennesima operazione per piegarci, per costringerci a muoverci alla loro velocità, per raggiungere più velocemente la miseria di Torino partendo da quella di Milano, Trieste o Napoli, tra paesaggi desolati, in una corsa sterile di uomini senza vita tra luoghi senza vita.
Non tutti sono disposti a salire su quel treno.

(Volantino distribuito da El Paso Nautilus Fottinprop Torino 04-04-1998)

venerdì 22 novembre 2013

Lucille

 Lucille è il nome dato alle chitarre di BB King. Esse sono di solito chitarre Gibson nere simili alla ES-355.
Nell'inverno del 1949, King ha suonato in una sala da ballo a Twist, Arkansas. Per riscaldare la sala, veniva acceso un barile riempito a metà con kerosene, una pratica abbastanza comune all'epoca. Durante una performance, due uomini cominciarono a lottare tra loro, rovesciando la canna del bruciatore causando la caduta di carburante infuocato sul pavimento. La sala prese fuoco provocando l'evacuazione del locale. Una volta fuori, BB King si rese conto che aveva lasciato la sua chitarra dentro l'edificio in fiamme. Incurante di queste entrò nel locale e riuscì a recuperare la sua amata chitarra Gibson S 30, correndo chiaramente un grosso rischio (infatti nell'incendio morirono due persone). Il giorno successivo, King apprese che i due uomini avevano litigato per una donna di nome Lucille. Il musicista, allora, decise di chiamare la sua chitarra con il nome della ragazza. Nacque così la prima chitarra Lucille, ed in seguito chiamò così tutte le sue chitarre. La decisione, presa da quella esperienza quasi fatale, serviva, e serve, come un promemoria: mai più fare qualcosa di stupido come introdursi in un edificio in fiamme o litigare per le donne.
BB King ha scritto una canzone chiamata "Lucille", dove racconta della sua chitarra e la storia di quel nome.
King ha suonato con chitarre di diverse marche all'inizio della sua carriera. Ha usato una Fender Telecaster nella maggior parte delle sue registrazioni con la RPM Records (USA). Tuttavia, egli ci ha deliziato di più usando varianti della Gibson ES-355.
Nel 1980, la Gibson Guitar Corporation ha lanciato il modello BB King Lucille. La chitarra è contrassegnata dalla scritta “Lucile” sulla paletta, e dal manico in acero.
Nel 2005, per l’80° compleanno di BB King, la Gibson ha fatto una chitarra speciale chiamandola “80th Birthday Lucile” Il primo prototipo è stato dato a King come regalo di compleanno. BB King l’ha usata come sua chitarra principale fino all'estate del 2009, cioè fino a quando gli è stata rubata. Il 10 settembre dello stesso anno, un certo Eric Dahl ha inconsapevolmente acquistato da un negozio di pegni a Las Vegas, lo strumento rubato. A seguito di una ricerca di informazioni sulla chitarra, è stato contattato da un rappresentante della Gibson Artist Relations, che ha informato Dahl dell’oggetto rubato. Questa Lucille è stata restituita a BB King alla fine del novembre 2009, il quale, naturalmente, fu molto felice di ricevere indietro il regalo del suo 80° compleanno.

I'm waiting for the man (Velvet Underground)

I'm WI'm waiting for the Man è un brano musicale del gruppo rock statunitense Velvet Underground, scritto da Lou Reed. Fu originariamente pubblicato nel 1967 sul primo album della band, The Velvet Underground & Nico.
I primi provini del brano, registrati nel loft di Ludlow Street nel 1965, rivelano che l'arrangiamento era molto differente in origine e che variò molto con il passare delle sedute di registrazione. All'inizio era un motivo quasi country rock con accenni folk e considerevolmente più lento, poi ci fu una versione che comprendeva anche la stridente viola di John Cale e, dopo altri tentativi, si giunse infine alla versione che può essere ascoltata sul disco. Prima della versione definitiva, un'altra differente take del brano venne registrata agli Scepter Studios di New York City nell'aprile 1966. Questa versione è un po' più breve, il pianoforte è meno in evidenza e al posto della batteria, è presente un tamburello.
La canzone racconta la storia di uno studente in cerca di droga ad Harlem. Già nella prima strofa, Reed delinea il protagonista: è un bianco, in crisi d'astinenza, che arriva a Harlem (Up to Lexington 125) con in mano 26 dollari cercando il suo spacciatore di fiducia. Mentre aspetta gli si avvicina un nero che in tono minaccioso gli chiede cosa ci faccia lì e lo accusa di essere venuto a rubar le loro donne. Il giovane, nervoso e in evidente stato di difficoltà, balbetta una scusa dicendo di stare aspettando un "carissimo" amico. A salvarlo da una situazione pericolosa, ecco arrivare lo spacciatore, l'uomo del titolo del brano, descritto come un angelo della morte:
Quello che Reed descrive nella canzone, non è solo uno spaccio di droga, ma il confronto/scontro tra due mondi estranei che però vivono a pochi chilometri di distanza l'uno dall'altro, nella stessa città.
L'andamento "saltellante" della canzone, con il martellante riff di pianoforte e chitarre in evidenza, riflette la tensione della scena e l'impellente desiderio di "farsi" del protagonista, che una volta in possesso della dose se ne torna a casa sano e salvo dalla propria ragazza, soddisfatto e appagato. Almeno fino al giorno dopo.

I'm waiting for my man
Twenty-six dollars in my hand
Up to Lexington, 125
Feel sick and dirty, more dead than alive
I'm waiting for my man
Hey, white boy, what you doin' uptown?
Hey, white boy, you chasin' our women around?
Oh pardon me sir, it's the furthest from my mind
I'm just lookin' for a dear, dear friend of mine
I'm waiting for my man
Here he comes, he's all dressed in black
Beat up shoes and a big straw hat
He's never early, he's always late
First thing you learn is you always gotta wait
I'm waiting for my man
Up to a Brownstone, up three flights of stairs
Everybody's pinned you, but nobody cares
He's got the works, gives you sweet taste
Ah then you gotta split because you got no time to waste
I'm waiting for my man
Baby don't you holler, darlin' don't you bawl and shout
I'm feeling good, you know I'm gonna work it on out
I'm feeling good, I'm feeling oh so fine
Until tomorrow, but that's just some other time
I'm waiting for my man
Sto aspettando il mio uomo
26 dollari nella mia mano
Su verso Lexington, 125
Mi sento malato e sporco, più morto che vivo
Sto aspettando il mio uomo
Hey, ragazzo bianco, cosa stai facendo su in città?
Hey, ragazzo bianco, stai rincorrendo le nostre donne?
Oh mi perdoni signore, è la cosa più lontana dalla mia mente
Sto solo cercando un mio caro, caro amico
Sto aspettando il mio uomo
Ecco che arriva, è tutto vestito di nero
Scarpe PR e un grande cappello di paglia
Non arriva mai in anticipo, è sempre in ritardo
La prima cosa che impari è che devi sempre aspettare
Sto aspettando il mio uomo
Su a un Brownstone, a tre rampe di scale,
Tutti ti hanno appuntato, ma non importa a nessuno
Lui ha le opere, ti dà un sapore dolce
Ah e poi ti devi dividere perchè non hai tempo da sprecare
Sto aspettando il mio uomo
Tesoro non esagerare, caro non sbraitare e non urlare
Mi sento bene, lo sai che ci lavorerò su
Mi sento bene, mi sento oh così alla grande
Fino a domani, ma quello è solo un altro tempo
Sto aspettando il mio uomo


martedì 19 novembre 2013

Heroin (Velvet Underground)

Io ho preso una decisione fondamentale
Proverò ad annullare la mia vita
Perché quando il sangue inizia a fluire
Quando sale lo stantuffo della siringa
Quando mi sto avvicinando alla morte
E non potete aiutarmi, certo non voi, ragazzi
Né voi, dolci ragazze con le vostre dolci parole
Potete andarvene tutti via
Ammetto che non so proprio nulla
E ammetto che non so proprio niente
Eroina che tu sia la mia morte
Eroina è mia moglie, è la mia vita
Perché un ago in vena
Mi guida al centro del mio cervello
E sto meglio che se fossi morto
Perché quando la roba comincia ad entrare in circolo
Non me ne frega più nulla
Di voi gente qualunque di questa città
E di tutti i politici che schiamazzano come pazzi
E di quelli che insultano chiunque gli capiti
E di tutti i morti ammucchiati gli uni sugli altri
Perché quando inizio a percepire il suo bacio
Allora non m' importa proprio più di niente
Perché quando l'eroina è nel mio sangue
E il sangue è nella mia testa
Ringrazio Dio, sto meglio che se fossi morto!
Ringrazio il tuo Dio che non sono cosciente
Ringrazio Dio che non me ne frega più niente
E ammetto che non so proprio nulla
E ammetto che non so proprio niente

Heroin è un brano musicale del gruppo rock statunitense Velvet Underground, scritto da Lou Reed. Fu originariamente pubblicato nel 1967 sul primo album della band, The Velvet Underground & Nico.
Il testo è incentrato sui pensieri e sulle emozioni provate da un tossicodipendente, il suo rapporto nei confronti dell'eroina e i relativi benefici che trae da essa. La sua è una relazione senza possibilità di salvezza, in quanto nella parte finale della canzone il tossico arriva a chiedere la morte da quella che è diventata sua "moglie" e sua "vita", ringraziando dio perché ormai estraniato dalla vita sociale, dalla città, dai "politici e dai loro discorsi".