..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

Translate

sabato 21 luglio 2012

Disobbedienza civile (concetto)

La disobbedienza civile è un mezzo di protesta sociale che consiste nel rifiuto di obbedire alle leggi e ai decreti di qualsiasi governo. La disobbedienza può essere pacifica o anche violenta, in entrambi i casi però mantiene la sua "vena" radicalmente contestatoria dell’autorità. In sostanza è una pratica di lotta attraverso la quale il diritto individuale viene anteposto al diritto legislativo, quando questo entra in conflitto con "la propria coscienza".
Quando in Europa si fa strada l'idea della "disobbedienza civile" come mezzo di opposizione ad una legge ingiusta, negli Stati Uniti tale concetto era già ben conosciuto per merito H.D.Thoreau. Questa metodologia di lotta è stata utilizzata da Ghandi (Ghandi fu notevolmente influenzato dal pensiero di Thoreau e Tolstoj) nella sua lotta contro l'imperialismo inglese, da Martin Luther King contro la segregazione razziale e negli "anni 60" da molti contestatori della guerra in Vietnam.

La Disobbedienza civile di Thoreau

La "bibbia" della disobbedienza civile può essere considerata il saggio del 1849 di H.D.Thoreau intitolato appunto "Disobbedienza Civile".
Thoreau fu un convinto antischiavista. Questa sua convinzione lo portò a rifiutarsi di pagare le tasse al governo americano. Per questo venne imprigionato e successivamente rilasciato solamente perché un parente decise di pagare per lui le tasse.
Ecco alcuni interessanti stralci del saggio:
«La massa degli uomini serve lo stato in questo modo, non come uomini soprattutto, bensì come macchine, con i propri corpi [...] Uomini del genere non incutono maggior rispetto che se fossero di paglia o di sterco [...] Le leggi ingiuste esistono: dobbiamo essere contenti di obbedirle, o dobbiamo tentare di emendarle, e di obbedirle fino a quando non avremo avuto successo, oppure dobbiamo trasgredirle da subito? [...] Se mille uomini non pagassero quest'anno le tasse, ciò non sarebbe una misura tanto violenta e sanguinaria quanto lo sarebbe pagarle, e permettere allo Stato di commettere violenza e di versare del sangue innocente. Questa è, di fatto, la definizione di una rivoluzione pacifica, se una simile rivoluzione è possibile. Se l'esattore delle tasse, od ogni altro pubblico ufficiale, mi chiede, come uno ha fatto, "Ma cosa devo fare?" la mia risposta è: "Se vuoi davvero fare qualcosa, rassegna le dimissioni". Quando il suddito si è rifiutato di obbedire, e l'ufficiale ha rassegnato le proprie dimissioni dall'incarico, allora la rivoluzione è compiuta [...] Capii che lo Stato era uno stupido, che era timido come una donna nubile tra i suoi cucchiai d'argento, e che non sapeva distinguere i suoi amici dai suoi nemici, e persi tutto il rispetto che m'era rimasto nei suoi confronti, e lo compatii. Lo Stato dunque non si confronta mai intenzionalmente con il sentimento d'un uomo, intellettuale o morale, ma solo con il suo corpo, con i suoi sensi. Esso non è dotato d'intelligenza od onestà superiori, ma di superiore forza fisica. Non sono nato per essere costretto. Respirerò liberamente. Vediamo chi è il più forte. Che forza ha una moltitudine? Possono costringermi soltanto ad obbedire ad una legge che sia più alta della mia. Essi mi costringono a diventare come loro...»

La disobbedienza civile come mezzo e non come fine

Come si è visto, i principi della disobbedienza civile non sono un'esclusività degli anarchici. Tuttavia, il pensiero anarchico gli attribuisce una valenza molto particolare che lo contraddistingue da tutte le "altre disobbedienze". Infatti gli anarchici ritengono questo principio "un valido mezzo, ma non un fine".
La disobbedienza civile è quindi, per l'anarchismo, un mezzo non-violento per mettere in discussione l’esistenza stessa dello Stato, delle istituzioni e di tutto il sistema basato sullo sfruttamento capitalistico.

venerdì 20 luglio 2012

I fatti di Bronte, una indelebile macchia nella storia d’Italia

Rivisitare in chiave esaustiva, pur se critica, determinati periodi della storia contemporanea, specie quelli attinenti l’unificazione dell’Italia sotto l’infausta monarchia sabauda, non può che fare bene alla coscienza del popolo, in generale, e delle giovani generazioni che stanno oggi avviandosi verso una difficile crescita, in particolare.

Fra i tanti avvenimenti che, da un secolo e mezzo circa a questa parte, hanno segnato l’evolversi del quadro politico nazionale e istituzionale, non possono essere dimenticati i tragici “fatti di Bronte”.

La risaputa tragedia accadde nell'agosto del 1860, l'anno in cui la Sicilia, mediante uno strumentale quanto controverso “plebiscito”, fu annessa (21 ottobre 1860) al Regno Sardo Piemontese di Vittorio Emanuele II e di Cavour. Non sarebbe male indagare, almeno in modo virtuale, sul come venne indetta e condotta la citata convocazione popolare che, alla luce dei fatti e in contrasto con ogni principio democratico, rappresentò un vero e proprio imbroglio elettorale. A prescindere dalla validità o meno dell’atto di annessione, sta di fatto che mai e poi mai può essere denominato “plebiscito” quella strana votazione cui furono ammessi solo gli “appartenenti alle classi nobiliari”, i “possessori di un titolo di studio superiore” e gli “agiati borghesi titolari di adeguati censi”, cioè meno del 20% della popolazione isolana di allora. È ampiamente dimostrato, in ogni caso, che, dopo la sceneggiata dell’annessione della Sicilia al nascente Regno d’Italia, i governanti sabaudi ben poco fecero per venire incontro alle necessità della vessata popolazione isolana e per colmare il divario economico, sociale e strutturale esistente nei confronti di parecchie altre regioni del nuovo Stato. Amareggia parecchio, a quest’ultimo proposito, la constatazione che fra la classe dirigente dell’epoca e del periodo immediatamente successivo, vanno annoverati parecchi siciliani, tre dei quali, Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Starrabba di Rudinì, ricopersero, in tempi diversi, addirittura l’incarico di “Capo del Governo”.

A parte ogni altra considerazione, i seguaci dell’avventura garibaldina in Sicilia dovrebbero essere collocati in una particolare luce storica che certo non è quella loro attribuita dai libri di testo: “garibaldini erano per chi voleva esaltarli e garibaldesi per chi li vituperava”, ha lasciato scritto Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo impareggiabile “Il Gattopardo”! Il 14 maggio 1860, Garibaldi emanò il noto “proclama di Salemi”, mediante il quale rese noto, parecchio spavaldamente, di assumere la “Dittatura” dell’Isola in nome di Vittorio Emanuele II, fornendo così la dimostrazione che non era venuto in Sicilia per liberarla dai Borboni (che, alla fine, risulteranno addirittura meno dannosi e vessatori dei proconsoli di Casa Savoia) bensì per portare a compimento il prestabilito progetto di “annessione” del sud Italia alla monarchia piemontese, secondo i piani elaborati da Cavour. Quest’ultimo, peraltro, aveva candidamente dichiarato “…non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra…”. Come dire che, “ignorando” la millenaria storia della Sicilia, non era affatto in grado di comprendere la realtà isolana e non poteva avere contezza di quali indispensabili interventi sociali fossero necessari e urgenti per lenire le sofferenze di un popolo oppresso e maltrattato. Anzi, nel predisporre gli atti per l’estensione delle normative giuridiche e amministrative piemontesi ai nuovi territori annessi, impartì drastiche disposizioni e frattanto avallò l’operato dei vari “despoti” militari e civili che erano subentrati al potere borbonico. Fu un susseguirsi di soprusi, di imposizione di nuove gravose tasse (destinate a risanare le finanze dello Stato sabaudo), di sfruttamento delle risorse isolane.

Tutto ciò, come già detto, è impossibile leggerlo nei testi scolastici o nelle tante “rinomate” enciclopedie, così come è del tutto improbabile trovare un qualsivoglia preciso riferimento ai lati oscuri dell’avventura garibaldina in Sicilia. È ben facile trovare, viceversa, esaltanti descrizioni della cosiddetta “spedizione dei Mille”, descrizioni che spudoratamente assegnano a Garibaldi la gloria (“l’Eroe dei due Mondi”), il coraggio combattivo (“qui si fa l’Italia o si muore”), lo spirito patriottico (“Maestà, consegno a Voi il Sud liberato” - incontro di Teano –).

Come anche da ciò si evince, la storia è fatta dai popoli ma sono i governanti e i vincitori delle battaglie che la raccontano (e per questo si dipingono come i buoni, mentre i cattivi sono sempre i perdenti che essendo tali non possono raccontare la loro versione dei fatti). Non sarebbe male, una volta per tutte, trovare il coraggio di fare emergere la verità storica evitando che si continui ancora ad insegnare alle nuove generazioni tante falsità, tante distorte nozioni, tante errate valutazioni degli avvenimenti e tante non veritiere informazioni su taluni controversi personaggi dell’epoca “risorgimentale”.

Concludendo questo breve antefatto è opportuno evidenziare che Garibaldi fu parecchio agevolato nella sua fortunosa “spedizione” dalle congrue assegnazioni finanziarie predisposte da Cavour (circa 8/milioni, in ducati d’oro e titoli bancari) che in parte servirono per “corrompere” i più diretti responsabili militari borbonici, fra cui il Gen.le Landi (comandante del settore occidentale della Sicilia) e il Gen.le Lanza, Luogotenente del Re, poi processato e condannato per il reato di alto tradimento. Non è da dimenticare, inoltre, l’appoggio che Garibaldi ricevette dall’Inghilterra mediante il sistematico schieramento delle sue navi da guerra a Marsala (durante lo sbarco), a Palermo (nei giorni dell’ignominiosa resa borbonica), a Milazzo (durante la strenua difesa di quella piazzaforte), a Messina (nel corso del traghettamento in Calabria), con l’evidente scopo di tenere a bada le unità della flotta napoletana che avrebbero potuto contrastare i movimenti delle camicie rosse garibaldine.

Quando l'11 maggio del 1860 il generale Giuseppe Garibaldi sbarcò con i Mille nel porto di Marsala, sapeva benissimo che, per chiudere con successo la sua impresa, gli sarebbe stato assolutamente necessario l'appoggio e la partecipazione attiva dei siciliani. Questo sarebbe avvenuto solo se fosse stato accolto non solo come il liberatore dalla tirannide borbonica, ma anche come colui che poteva dare le possibilità di nascere ad una nuova società, libera dalla miseria e dalle ingiustizie. Con questo intento, il 2 giugno, aveva emesso un decreto dove prometteva soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione delle terre. Grazie a quel decreto come previsto molti “picciotti” siciliani si illusero e aderirono con entusiasmo alla spedizione spinti dal loro spirito rivoluzionario, per la voglia di libertà e di uguaglianza sociale, e dalla speranza di una equa distribuzione delle terre,

E che dire, infine, della sistematica e forzosa appropriazione (all’uopo presentata come “confisca”) delle risorse in denaro e titoli dei vari comuni “liberati” e delle disponibilità liquide di parecchi istituti di credito, fra cui il Banco di Sicilia di Palermo?

Per riprendere il discorso sui “fatti di Bronte”, va subito evidenziato che Garibaldi, con il decreto precedentemente citato del 2 giugno 1860, aveva promesso la “libertà” e aveva fatto intravedere ai contadini la certezza di spartire i vasti possedimenti terrieri del demanio locale e statale. Di tale insincera promessa si trova ampia conferma anche nei successivi “proclami”.

L’annoso problema riguardava, in particolare, la zona di Bronte, nell'entroterra siciliano sulle pendici dell'Etna dove si erano  accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto della media borghesia e delle classi meno abbienti, nel cui territorio ricadevano diversi grandi feudi e la contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile. Trascorsa la cruenta stagione del fallito tentativo insurrezionale del 1848-49, sorsero in Bronte due schieramenti che, nel tempo, si batterono con tenacia fra loro determinando profonde discordie fra gli abitanti. L’uno (i cosiddetti “comunisti” o “comunili”) difendeva i diritti del Comune, l’altro (i “ducali”) perorava, invece, gli interessi del pingue casato dei Nelson.

Ma il vero problema sociale di Bronte era costituito dalla numerosissima “sotto classe” dei braccianti agricoli (uomini, donne e ragazzi in età adolescenziale) che pur destinati a vivere nella più squallida miseria non erano tuttavia esentati dal versare gravosi e iniqui balzelli (fra cui le famose “decime”) all’amministrazione pubblica, ai feudatari e ai loro scagnozzi. Essi, solo apparentemente erano da considerare normali esseri umani, visto che erano costretti a vivere cibandosi di pane nero e raffermo, di acqua di cisterna, di bacche, radici e verdure. Le loro insalubri abitazioni erano parecchio simili agli antri dell’uomo delle caverne e per il loro lavoro dovevano accontentarsi di misere ricompense “in natura”, in “anticipi” o di poche decine di “monete di rame”. Le “giornate lavorative” (“..a iurnata”, da dove il detto “i iurnataru”) che davano diritto a tale compenso erano peraltro discontinue rispetto allo scorrere dell’anno e a mala pena raggiungevano i cento giorni effettivi.

Le magniloquenti e ambigue promesse del “dittatore” Garibaldi non si erano per nulla avverate e contadini e braccianti seguitavano a vivere in maniera del tutto grama e stentata. Nel periodo della semina (ottobre – novembre) e durante i periodi di zappatura (febbraio – marzo) lavoravano duramente in mezzo alle intemperie stagionali e nel freddo mentre poi, nel momento cruciale della mietitura (giugno –luglio), dovevano portare avanti la loro massacrante fatica sotto il sol leone. Era più che spiegabile il fatto che, alla fine, fossero oltremodo esasperati. Fu così che il 2 di agosto il malcontento raggiunse il culmine e si manifestarono le prime ribellioni ad opera dei “comunili” d’ispirazione socialista che avevano come personaggio locale di riferimento l’Avv. Nicolò Lombardo. Si verificarono i primi violenti tafferugli nel corso dei quali vennero incendiati parecchi edifici pubblici fra cui il Teatro e l’archivio comunale. A seguito dei cruenti scontri si ebbero a registrare sedici vittime fra civili, militari e notabili del luogo. Solo a tarda sera la folla accennò a placarsi ma lo spirito di rivolta non si spense e la forte tensione permase anche nei giorni successivi. La sommossa popolare di Bronte faceva peraltro eco ai tumulti antigaribaldini che tra giugno e luglio del 1860 avevano fortemente interessato le zone di Nicosia, Mistretta, Cerami, Regalbuto, Biancavilla, Centuripe, Randazzo, Maletto e in atri piccoli centri del centro Sicilia e del circondario dell’Etna. Era la naturale e istintiva protesta del “popolo dei reietti”, delusi dai suggestivi ma falsi proclami garibaldini. In cambio della libertà e della promessa assegnazione delle terre, la misera e tartassata “plebe” del diffuso bracciantato contadino, dei piccoli artigiani di paese, dei molti derelitti addetti ai lavori più infimi, avevano visto accentuarsi la miseria, determinata anche dalla imposizione di ulteriori sacrifici e tasse, a parte le sofferenze e i lutti per le imperversanti malattie. La misura era colma, la delusione e l’amarezza traboccavano dai loro animi, nessuno più osava avanzare speranze riguardo ai nuovi “invasori” mentre la rabbia montava a fronte dei patimenti e della fame. Ovunque si innalzava alta la protesta al grido di: “abbassu li cappeddi!”, “vulimu li terri!” –“abbasso i cappelli (nomignolo dato ai galantuomini brontesi) ”, “vogliamo le terre”-.

Il presunto “eroe dei due Mondi”, Garibaldi, dopo la forzata sosta in quel di Milazzo (ove aveva subito l’accanita reazione difensiva della guarnigione di quella piazzaforte, comandata dal Col. Beneventano del Bosco), era da pochi giorni giunto a Messina quando gli pervenne notizia di ciò che stava accadendo a Bronte. Ad informarlo era stato il ligio console inglese di Palermo il quale, parecchio preoccupato per le possibili azioni rivoltose che avrebbero potuto investire anche un loro possedimento denominato “Ducea di Nelson”, invitava Garibaldi a provvedere urgentemente all’invio di una forza militare sufficiente a difenderla, arrestando e condannando i “facinorosi”, quasi pretendendo per la “Ducea” un vero e proprio diritto di “extraterritorialità”. Tale pretesa era del resto chiaramente convalidata dal fatto che in essa (in pieno territorio siciliano) sventolava, da sempre e liberamente, la bandiera inglese. Analoga forte sollecitazione giunse reiteratamente e con alterigia anche dal collega console di Catania. Garibaldi, ovviamente, scelse la più facile fra le possibili soluzioni, quella legata all’uso della forza bruta. In funzione di tale avventata decisione ordinò a Bixio, in quel momento di stanza a Giardini, di partire alla volta di Bronte e di agire con durezza nei confronti dei rivoltosi. Garibaldi, per assecondare le mire di stampo colonialista di una frangia di quella stirpe inglese risaputamente avvezza alle usurpazioni, alle malversazioni, agli eccidi, oltre che alla tacita legittimazione della pirateria, aveva deciso, alla stregua di un servile giustiziere, di punire il popolo in rivolta che, tutto sommato, non chiedeva altro che di uscire dal tunnel della fame, della miseria e delle privazioni.

Per riportare l'ordine Nino Bixio giunse a Bronte alla testa di un battaglione di camicie rosse. È ormai assodato, attraverso l’approfondito esame della documentazione dell’epoca, che Garibaldi non inviò Bixio a Bronte solo per ripristinare una certa qual forma di ordine pubblico, ma fu mosso, al di fuori di ogni altra razionale considerazione, dalla esigenza di proteggere gli interessi dell’Inghilterra verso la quale si sentiva fortemente obbligato per avere favorito l’occupazione dell’Isola, oltre che con le già citate navi da guerra pronte a sparare sui borbonici, anche con il generoso sostegno finanziario elargito in moneta sonante e in oro. Come si chiama chi per denaro si presta a scopi che poco hanno in comune con la dignità e la morale?

Sarebbe prolisso, in questa sede, affrontare la dettagliata ricostruzione di ciò che avvenne in Bronte quando Bixio adottò le clamorose “ordinanze” che portarono all’arresto di centinaia di persone fra cui, oltre a parecchi dei presunti capi della sommossa, molti inermi e incolpevoli servi della gleba come, ad esempio, il povero demente tamburino Ciraldo Fraiunco. Il tribunale (impropriamente definito “di guerra”) celebrò il processo in poche ore ed emise, nella serata del 9 agosto, l’inappellabile sentenza che condannava a morte, pur in assenza di provate colpevolezze, Nicolò Lombardo, Spitaleri Nunzio Nunno, Samperi Nunzio fu Spiridione, Longhitano Nunzio Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Il fatto più ignobile fu quello che la delittuosa sentenza di morte fu emessa “in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia”. Va sottolineato, altresì, che, senza alcun rispetto per la dignità e la personalità dell’imputato, l'avvocato Nicolò Lombardo era stato accusato (personalmente da Bixio, nel suo ufficio installato presso il “Collegio Capizzi”) di essere il “presidente della canaglia di Bronte”.

Oggi, commemorando annualmente le vittime delle Fosse Ardeatine, tutti ritengono doveroso fare risaltare lo sdegno e la condanna per i colpevoli dell’inumana strage, ma chi mai dei governanti dell’Italia monarchica e post monarchica ha mai pensato di additare al medesimo sdegno i colpevoli dell’eccidio di Bronte ? Solo pochi sanno e ricordano che esso fu perpetrato, per ordine del “dittatore nizzardo”, da un improvvisato generale succube della follia omicida che contraddistingue le persone prive di umanità oltre che dei freni inibitori della coscienza.

Furono condannati dei civili che ancora non erano sudditi di quel Re piemontese che per pura ambizione dinastica aspirava a divenire Re di un’Italia unificata ma che, di contro, non riusciva ad impedire che si ammazzassero in suo nome, in un territorio che ancora non faceva parte del suo regno, uomini inermi e indifesi. L’indomani all’alba, senza neppure consentire ai parenti di avvicinare le incolpevoli vittime predestinate, la sentenza venne brutalmente eseguita in contrada “Piano San Vito” mediante fucilazione mentre Bixio, in sella al suo cavallo, assisteva impassibile alla scena. Mediante l’uso spregiudicato della violenza e assecondato dalle indiscriminate condanne a morte, sentenziate da un improvvisato e asservito “tribunale di guerra” che non aveva tenuto in nessun conto le arringhe della difesa, riteneva di avere vinto la sua battaglia ma non immaginava che, a sua volta, sarebbe stato inappellabilmente condannato dal mondo civile e dal tribunale della storia.

In tutta la sciagurata vicenda dei “fatti di Bronte”, il garibaldino Bixio, pur se a suo nome sono tuttora intitolate piazze e strade (di cui una proprio a Bronte), agì da vero sicario e dimostrò di essere incapace di provare qualsivoglia senso di pietà per i condannati. Ancora una volta manifestò tale sua perversa tendenza quando ordinò al comandante del plotone di esecuzione di sparare a bruciapelo al povero matto Nunzio Ciraldo Fraiunco che era miracolosamente sfuggito alle pallottole della prima scarica. Il poveretto aveva implorato “…grazia, grazia, la Madonna mi ha fatto la grazia, fatemela voi, grazia, grazia”, ma Bixio, insensibile a quel grido di dolore, fu inflessibile e, mediante un colpo alla nuca, la morte colse quell’infelice che aveva solo la colpa di avere portato in giro per Bronte un tamburo di latta, gridando Viva la libertà.

 

Filmografia: di Florestano Vancini,   Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972)

Frank Zappa: concerto per due biciclette

venerdì 13 luglio 2012

È solo questione di tempo

Il capitalismo che conoscevamo sta cadendo a pezzi. Ma mentre le istituzioni finanziarie barcollano e si sgretolano, non abbiamo ancora immaginato alcuna alternativa. La resistenza organizzata sembra dispersa e incoerente. I movimenti antagonisti e di resistenza sono in una fase di stallo e talora di involuzione, se non con alcune eccezioni. Ci sono buone ragioni per credere che, nel giro di una generazione, il capitalismo non esisterà più: per la semplice ragione che (come molti hanno spiegato) è impossibile mantenere acceso un motore in perpetua crescita in un sistema/pianeta dalle risorse limitate.
Eppure di fronte a questa prospettiva, la reazione spontanea, anche dei progressisti e di molti apparenti anticapitalisti, è spesso di paura, di accettazione dell’esistente perché semplicemente, non si ha la capacità, la forza di immaginare un’alternativa che non sia ancora più oppressiva.
Com’è possibile? E’ normale per gli uomini essere incapaci di immaginare un mondo migliore?
La disperazione non è naturale. Se davvero vogliamo capire la situazione dobbiamo innanzi tutto comprendere come, negli ultimi trenta anni sia stata messa in opera la costruzione di un vasto apparato burocratico volto al mantenimento della disperazione: una sorta di gigantesco meccanismo ideato in primo luogo per distruggere ogni percezione di future prospettive alternative. Una raffinata strategia atta a sottrarre la gioia e la felicità dalla vita.
I Governi del mondo vogliono assicurasi che gli esseri umani non possano percepire la possibilità di alternative, I movimenti che di volta in volta nascono e si contrappongono vengono sistematicamente inquinati da un clima di paura pervasiva perché non giungano a percepire di poter crescere, perché non si possano intravedere altri mondi possibili. perché non si diffonda l’idea che coloro che sfidano i sistemi possano vincere. Per questo i sistemi di potere hanno realizzato e quindi "deificato" grandi apparati militari, polizieschi di intelligence militare e civile, meccanismi di propaganda di alta raffinatezza.
Nonostante tutto noi sappiamo che siamo alla vigilia di una nuova rinascita dell’immaginazione popolare. È solo questione di tempo. La maggior parte degli elementi ci sono già. Occorre superare il groviglio di confuse percezioni indotte da decenni di propaganda del terrore.
Se solo saremo determinati nel volerlo, presto sapremo comunque vederci chiaro.

Cosa si deve intendere per libertà?

“Io posso dirmi e sentirmi libero solo in presenza degli altri uomini ed in rapporto a loro. Io stesso sono umano e libero soltanto nella misura in cui riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. Sono veramente libero solo quando tutti gli esseri umani, uomini e donne, sono egualmente liberi. La libertà di ogni individuo è infatti soltanto il riflesso della sua umanità. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà altrui, così che più numerosi sono gli uomini liberi – e più profonda e più ampia è la loro libertà, - più estesa, più profonda e più ampia diviene la mia libertà. Si realizza la libertà illimitata di ognuno per mezzo della libertà di tutti. Confermata dalla libertà di tutti, la mia libertà si estende all’infinito”.
(Michail Bakunin)

Dunque la dimensione positiva della libertà è eminentemente collettiva; il suo ruolo, però, consiste nel potenziare la libertà individuale, non nell’indicare all’uomo le direzioni e il senso ultimo della sua azione, la cui natura rimane irriducibilmente soggettiva e perciò immune da ogni codificazione di senso proveniente da fonte esterna. Di qui una delineazione radicale del rapporto tra libertà individuale e contesto sociale, tra impulso esistenziale ed etica pubblica. Poiché, infatti, “la libertà individuale e collettiva è l’unica creatrice dell’orine umano”, ne deriva che da essa nasce “l’assoluto diritto di ogni uomo o donna adulti di non cercare per le proprie azioni altre conferme che quelle della propria coscienza e della propria ragione, di non determinarle che per mezzo della propria volontà e di esserne quindi, prima di tutto responsabili solo verso se stessi e poi nei confronti della società di cui fanno parte, ma solo in quanto consentono liberamente di farne parte.

I movimenti libertari


I movimenti libertari da sempre hanno fondato il loro agire sull'etica della pratica rivoluzionaria. È necessario che i mezzi siano adeguati ai fini poiché c'è la consapevolezza che alcuna libertà è possibile con mezzi autoritari, al centro la necessità di dare forma concreta alla società che si desidera realizzare a partire dalle proprie relazioni personali. Conseguentemente non esiste un’unica “Grande teoria anarchica”, poiché questa sarebbe contraria ai suoi stessi presupposti. È diffusa invece una forza , una passione nel diffondere i valori condivisi che nasce nello spirito e nel cuore dei processi del partecipazionismo anarchico, nei piccoli gruppi di affinità che non è settaria o prevaricatrice o autoritaria.
Ne deriva quindi il riconoscere il bisogno di differenti prospettive teoriche, unite da un insieme di impegni e analisi condivise, una discussione che si concentra su questioni pratiche, che tiene conto inevitabilmente di una serie di prospettive differenti, riunite dal desiderio condiviso di comprendere la condizione umana, in moto verso una libertà più grande. Pertanto prende forma una cosiddetta “teoria bassa”, piuttosto che una “teoria alta”, necessaria per fare i conti con i problemi reali e immediati che emergono nel corso di un progetto di trasformazione della realtà. Ad esempio: contro il concetto di “linea politica” che è la negazione stessa della politica, contro “l’anti-utopismo”; Una teoria sociale anarchica non può quindi che rifiutare in maniera consapevole ogni residuale avanguardismo. Il compito dei movimenti libertari è quindi guardare chi sta creando alternative percorribili, cercare di immaginare quali potrebbero essere le più vaste implicazioni di ciò che si sta già facendo, e quindi riportare queste idee, non come disposizioni, ma come contributi e possibilità.
Un progetto libertario dovrebbe avere due momenti: “uno etnografico e l’altro utopico, in costante dialettica fra loro, che siano in grado di produrre forme di contropotere: il mondo contemporaneo è pieno di testimonianze libertarie, di luoghi liberati, dei quali però non si rileva traccia nella narrazione ufficiale. Il contropotere prende forma nelle istituzioni tipiche della democrazia diretta, basate su determinati valori, quali la convivialità, l’unanimità, la prosperità, la bellezza, la gratuità.
è ineluttabile che la dove esista un alto livello di disuguaglianza, tali valori assumano di per se valenza rivoluzionaria.
Un’azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel contempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali.
Le lotte contro le disuguaglianze tra Nord e Sud, le lotte contro il lavoro in quanto relazione di dominio, la negazione dell'autoritarismo, la resistenza alle regole imposte dalla società mercantile, l'affermazione della democrazia diretta sono i pilastri su cui si fondano le libere e autonome municipalità libertarie.
 

L’acqua non è merce

L’acqua è un diritto e non una merce, la sua gestione può diventare occasione per allargare la dimensione della partecipazione e dei diritti. L’unica via praticabile non può che essere quella che porta all’autogestione, nelle forme più convenienti per ciascuna realtà specifica, perché un conto è la gestione dell’acqua in una metropoli altro è il piccolo paese rurale; diversa la situazione in zone povere di riserve piuttosto che nelle vallate alpine ricche di acqua.
La rivoluzione tecnologica ha permesso di pompare, depurare e distribuire l’acqua attraverso meccanismi sempre più sofisticati e a distanze sempre maggiori dalla fonte di approvvigionamento, il sistema industriale ha devastato i fiumi e le falde con le sue nocività, la civiltà dei consumi ha contribuito a devalorizzare l’acqua, alimentando la percezione che essa sia un bene illimitato, sempre disponibile e a buon mercato.
Occorre mettere in discussione questo sistema che mercifica tutto, non solo l’acqua, esalta l’individualismo e massacra le relazioni sociali. Bisogna recuperare innanzitutto la dimensione comunitaria dell’acqua, le attività collettive ad esse legate e quindi anche la percezione che essa sia un bene comune prezioso che tutti sono tenuti a difendere.
Riscattare l’acqua dalla funzione commerciale cui è stata relegata è possibile soltanto se la si considera in termini di prossimità, vicinanza. Allora sarà normale condividerla, non sprecarla, tenerla pulita. Sarà normale vigilare affinché gli avvoltoi del profitto, grandi e piccoli, non si avventino su di essa per sottrarla alla disponibilità di tutti e depredarla fino all’ultima goccia.

mercoledì 11 luglio 2012

È solo Rock ‘n’ Roll, (but I like it) - 50 anni di STONES

Michael Philipp Jagger è figlio di una casalinga e di un istruttore di educazione fisica. È nato a Dartford, 25 chilometri ad est di Londra, il 26 luglio 1943. pochi mesi dopo, il 18 dicembre 1943, sempre a Dartford, nasce Keith Richards. Sua madre è una rappresentante di lavatrici, suo padre un ingegnere elettrotecnico.
I due ragazzini si conoscono a scuola quando hanno 6 anni. Ma seppure abitino nello stesso isolato, si perdono di vista. Si ritrovano una decina di anni dopo, nel 1960.
L’incontro avviene sotto una pensilina della stazione ferroviaria di Dartford. Entrambi stanno aspettando il treno per Londra, Keith rimane colpito dal pacco di dischi che Mick tiene sottobraccio. Sono vinili di Chuck Berry, Little Richard, Muddy Waters … “Cavolo”, pensa, “proprio le cose che piacciono a me”.
Da quel momento i due cominciarono a frequentarsi. Passano interi pomeriggi ad ascoltare blues e rock’n’roll e insieme all’amico Dick Taylor, a provare a suonare quelle canzoni che a loro piacciono tanto.
Un giorno, decidono di tentare il tutto per tutto. Registrano qualche pezzo e decidono di far avere il nastro ad Alexis Korner, il grande guru del blues inglese. Korner non rimane folgorato da Jagger e Richards. Ma i due ragazzi gli stanno simpatici. E così li coinvolge nel suo progetto Blues Incorporated, una specie di gruppo aperto in cui tra gli altri suonano Charlie Watts (batteria) e un biondino di Cheltenham che si fa chiamare Elmo Lewis. Il suo vero nome è Lewis Brian Hopkins Jones e da lui, si, Alexis Corner è affascinato. Brian suona da dio tutti gli strumenti, ha la musica nel sangue ed è capace di metabolizzare gli stili del blues. Non solo. Il suo look angelico non può passare inosservato.
Quando lo vedono, anche Mick e Keith rimangono stregati. Insieme a Dick Taylor, iniziano a far musica con lui. A loro si aggiunge anche Ian “Stu” Stewart al piano.
Tutte le volte che Alexis Corner gli lascia il suo posto, salgono sul palco dello Ealing Jazz Club.
Proprio li, nel giugno del 1962, nasce il nome del gruppo.
Avviene nel corso di una telefonata che Brian Jones sta facendo con un giornalista di Jazz News. Alla domanda: “Come si chiama la tua band?”, Brian prende tempo. Poi, sul pavimento, scorge la copertina di un album del suo idolo, Muddy Waters. Adocchia il titolo di un brano che lo acchiappa ed esclama: “Rollon’ Stones”.
Il 12 luglio 1962, a Londra, sul palco del Marquee Club di Oxford Street, sale per la prima volta una band chiamata The Rolling Stones.
Cinquant’anni dopo sono ancora i migliori, “the greatest rock’n’roll band in the world”.